Tasuta

La città del re lebbroso

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Kuhu peaksime rakenduse lingi saatma?
Ärge sulgege akent, kuni olete sisestanud mobiilseadmesse saadetud koodi
Proovi uuestiLink saadetud

Autoriõiguse omaniku taotlusel ei saa seda raamatut failina alla laadida.

Sellegipoolest saate seda raamatut lugeda meie mobiilirakendusest (isegi ilma internetiühenduseta) ja LitResi veebielehel.

Märgi loetuks
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

«In qual modo?»

«Consigliare il re a mandare Lakon-tay in cerca del driving-hook. Se egli lo trova, come spero, perché anch’io non dubito che Sommona Kodom m’abbia indicato il luogo dove è sepolto, la sua riabilitazione sarà completa.»

«Oh, uomo generoso! Tu sei il più leale e il più cavalleresco puram del regno!» esclamò il talapoino.

«Va’, un palanchino t’aspetta alla porta della mia casa ed il re a quest’ora non deve essersi ancora coricato. Conto su di te e sulla tua segretezza, sancrato.»

Capitolo VI. La cremazione del S’hen-mheng

I tam-tam del palazzo reale avevano appunto battuto le quattro del pomeriggio, quando il medico entrò nella elegante phe di Lakon-tay.

Aveva l’aspetto d’un uomo assai preoccupato, e la sua ampia fronte era solcata da una profonda ruga, indizio che un profondo pensiero lo turbava.

Sul pianerottolo della scala Len-Pra, più leggiadra del solito, con un giubbettino di seta bianca tutto fronzoli e ricami d’oro, i calzoni ampi di seta azzurra che le scendevano fino sotto il ginocchio, e una superba peonia color del fuoco piantata sul pettine d’oro che le reggeva i nerissimi capelli, lo aspettava.

Dalla veranda lo aveva veduto uscire dalla sua palazzina e si era affrettata a muovergli incontro.

Il giovane scorgendola trasalì, e fissò sulla bella fanciulla uno sguardo ardente. La ruga era improvvisamente scomparsa dalla sua fronte e anche la preoccupazione dal suo animo.

«Mi aspettavate, Len-Pra?» chiese l’europeo, con una certa commozione.

«Sì, signor straniero,» rispose la fanciulla con voce dolce, mentre un rapido fremito agitava le sue mani, che già il dottore teneva fra le sue.

«Vostro padre?»

«È già alzato. Quanto siete abili voi, uomini dell’occidente: nulla vi è impossibile.»

«Bah! Un semplice antidoto.»

«Venite, signor uomo bianco.»

Attraversarono la veranda ed entrarono nella stanza del generale.

Lakon-tay, che pareva ormai completamente guarito, se ne stava seduto su un divanetto di seta gialla, chiacchierando col fido Feng.

«Buone nuove, dottore?» chiese, alzandosi senza fare alcun sforzo.

«Ho finito or ora di esaminare il sangue vomitato da quel povero elefante.»

«Avete potuto vederlo?»

«Il re me ne ha accordato il permesso. Voi sapete che Phra-Bard-Somdh nulla nega agli europei che sono nei suoi stati.»

«È vero,» rispose il generale. «Egli li apprezza come si meritano.»

Il dottore fissò per alcuni istanti il generale, poi disse con voce grave:

«I vostri sospetti non erano infondati: il S’hen-mheng è stato ucciso da un potente veleno, somministratogli da qualche vostro nemico.»

«Come avete potuto accertarvene?»

«Esaminando ed analizzando un po’ di sangue che mi avevano concesso di raccogliere. Vi ho trovato delle tracce di veleni potenti.»

«Siete ben sicuro, dottore, di non esservi ingannato?»

«Noi medici europei possediamo oggi mezzi sufficienti per scoprire, anche in un po’ di sangue, la traccia di un veleno.

Se avessi potuto avere anche gl’intestini del S’hen-mheng, avrei potuto conoscere più esattamente quali specie di veleni sono stati somministrati dai vostri nemici.»

«Voi tutto sapete e tutto potete,» disse il generale. «Non mi avete salvato dalla morte? I nostri medici sarebbero stati impotenti a compiere un simile miracolo.»

Fece cenno a Len-Pra ed a Feng di lasciarli soli, poi, rivolgendosi al dottore, che pareva fosse ricaduto nelle sue preoccupazioni, gli chiese con una certa ansietà:

«Avete appreso nulla delle intenzioni del re a mio riguardo?»

«Brutte nuove,» disse il dottore. «Voi dovete avere dei nemici potenti che esigono la vostra completa rovina. Ho saputo che il re è furibondo per la morte dell’ultimo S’hen-mheng

«Che cosa mi consigliate di fare?» chiese Lakon-tay, con voce cupa.

«Lottare sempre per la vostra riabilitazione.»

«Se io facessi una denuncia al re sull’avvelenamento del S’hen-mheng

«Chi vi crederebbe?»

«È vero,» rispose il generale.

«Anche se io appoggiassi la vostra denuncia, vi tratterebbero da pazzo o da visionario.»

«Che cosa farà il re?»

«Lo ignoro, ma temo che la vostra disgrazia, per ora, sia completa. Anche il popolo v’incolpa della morte del S’hen-mheng

«Sarebbe stato meglio che voi mi aveste lasciato morire,» disse Lakon-tay, facendo un gesto di sconforto supremo.

«E Len-Pra?»

«Sì, è vero; perdonate, signore; sono stato ingrato, pronunciando quelle parole in vostra presenza.»

Il quel momento un colpo di tam-tam echeggiò nella via, ripercuotendosi sulla veranda.

Qualcuno, certo qualche personaggio importante a giudicarlo dalla violenza del colpo, aveva percosso la lastra di bronzo sospesa sulla porta della phe.

Lakon-tay trasalì.

«Chi può essere?»

«Un paggio del re,» disse in quel momento Feng, entrando. «Ha recato per voi, mio signore, questo messaggio.»

Nelle mani teneva un cartone di dimensioni enormi, d’un metro quadrato per lo meno, come usano i Cinesi, con delle lettere monumentali tracciate in oro. Ai due lati superiori erano disegnati due elefanti ed a quelli inferiori due figure che rappresentavano Sommona Kodom.

«Un messaggio del re!» esclamò il generale, facendosi scuro in viso. «Annuncia la mia disgrazia?»

«Leggete,» disse il dottore.

«È un invito per assistere alla cremazione del S’hen-mheng,» disse Lakon-tay.

«Che la collera del re si sia calmata?» chiese il medico.

«Comincio a crederlo, giacché m’invita a prendere posto nella tribuna reale, assieme a mia figlia ed al portatore della mia scatola.

Dottore, verrete con me, è vero? Già Len-Pra non ama assistere alle cremazioni.»

«Quando si farà?»

«Fra due ore, al tramonto del sole.»

«È uno spettacolo che merita di essere veduto,» rispose l’europeo. «Accetto il vostro gentile invito. Che il re voglia parlarvi?»

«Vedremo, signore. Questo messaggio reale mi pare di buon augurio,» disse Lakon-tay, il cui viso si era rasserenato. «Dottore, andate a prendere il tè con Len-Pra. Mia figlia è felice quando vi vede; la sua riconoscenza verso di voi che mi avete salvato non morrà mai nel suo cuore.»

Un’ora dopo, Lakon-tay, che aveva indossato il costume di gala tutto in seta gialla a fiori e ricamata in oro, stretto alla cintura da una larga fascia che reggeva la catana, e l’italiano lasciavano la phe su due palanchini portati da otto robusti schiavi, preceduti da due servi che portavano l’uno la scatola d’oro, contenente il betel del generale, e l’altro un ombrello rosso, con granfe d’oro, distintivo che il re concede solamente ai grandi del regno.

I ricchi Siamesi e così pure i Birmani e anche i Tonchinesi non escono mai senza il portatore della scatola contenente il betel, del cui miscuglio sono avidissimi, e neppure senza il portatore d’ombrello. Sono distintivi di nobiltà, che dànno loro il diritto di farsi largo dovunque.

Procedendo di corsa, gli schiavi giunsero ben presto nei pressi del palazzo reale, dinanzi a cui, su una piazza immensa che si stendeva fino alla riva del Menam, doveva essere cremato il corpaccio del sacro elefante.

Una folla enorme aveva già occupato la piazza, pigiandosi contro le logge destinate ai grandi dello stato e alla corte reale che erano state costruite durante la notte da migliaia e migliaia d’operai.

Nel mezzo era già stata eretta la pira, una gigantesca piramide quadrilatera, mozza alla cima, che si alzava per ben cinquanta metri, formata da enormi tronchi d’albero, congiunti fra loro da anelli di ferro coperti di carta dorata. Da ogni lato della piramide si staccava un’ala lunga tredici metri e diretta verso uno dei quattro punti cardinali, che si congiungeva ad un’altra torre, eguale nella forma a quella centrale, ma di più modeste proporzioni.

Diciotto parasoli, di seta gialla con frange d’oro, donati dal re al S’hen-mheng quando era ancora in vita e che rappresentavano altrettanti titoli di nobiltà, circondavano la piramide, mentre la bandiera reale sventolava sul padiglione scarlatto dell’elefante bianco.

I Siamesi nelle loro cerimonie funebri spendono somme enormi, e le cremazioni dei grandi e dei re o delle principesse di sangue reale si fanno con un sfarzo inaudito.

Basti dire che la sola cremazione della moglie di Tian-fa, annegatasi accidentalmente nel Menam il 31 novembre 1882, costò la bagatella di cinquecentomila sterline!

I due palanchini portanti il generale ed il dottore, sempre preceduti dai due portatori della scatola d’oro e dell’ombrello, si apersero un solco fra quella folla che i soldati a stento trattenevano, distribuendo senza misericordia vergate tali da strappare urla di dolore, e giunsero finalmente sotto una delle logge che era già stata invasa da parecchi dignitari colle loro famiglie.

Lakon-tay, un po’ commosso, salì la gradinata, seguito dal dottore e dai due portatori, e prese posto dietro le file dei dignitari. La sua comparsa produsse però un profondo effetto fra quegli orgogliosi mandarini, che lo credevano ormai completamente liquidato. Vi furono esclamazioni di stupore, sussurrii poco benevoli e nessun saluto.

Anzi, i più vicini lasciarono i loro posti, come se temessero di venire contaminati dall’assassino del sacro elefante.

Lakon-tay, assai turbato ed immerso in tristi pensieri, fortunatamente non si accorse di quelle dimostrazioni ostili. Egli aveva subito fissato gli occhi sulla loggia reale, dove, sotto un baldacchino di seta gialla con lunghe frange, circondato da ombrelli altissimi colle aste d’oro ed a più ordini, se ne stava seduto il re, fra i principi e le principesse di sangue reale.

 

Il potente monarca non indossava, come il giorno innanzi, l’incomodo costume delle grandi occasioni; anzi, mentre i principi ed i dignitari facevano sfoggio di vesti ricamate d’oro e di perle e di decorazioni sfolgoranti di diamanti e rubini, portava una semplice veste di seta grigia, senza guarnizioni, stretta alla cintura da una fascia di seta azzurra, sostenente una corta sciabola in forma di scimitarra.

Phra-Bard pareva fosse di cattivo umore e rimaneva immobile sulla sua poltrona dorata, senza porgere orecchio a ciò che gli dicevano i ministri ed i principi.

Solamente, di quando in quando, allungava la destra verso la grande e ricchissima scatola d’oro che aveva sul coperchio lo stemma reale in rubini, per prendere qualche pizzico di betel.

Ad un tratto però Lakon-tay, che lo spiava ansiosamente, lo vide volgersi con una certa vivacità a guardare verso la loggia. I suoi occhi si fissarono per un momento sul generale, poi si volsero altrove.

«Vi ha notato,» disse il dottore.

«Sì, mi ha guardato,» rispose il generale.

«Non mi sembra che sia di buon umore.»

«Lo è di rado: non l’ho veduto sorridere che due o tre volte, in tanti anni che lo avvicino.»

«Ecco i talapoini che giungono: la pramana comincia. E dov’è l’elefante?»

«Si trova già entro la piramide,» rispose Lakon-tay.

«Che cosa ne faranno poi delle sue ceneri?»

«Le getteranno nel Menam, che è il nostro maggior fiume sacro. Le ossa che rimarranno si metteranno in un’urna d’oro, che verrà poi deposta nella pagoda di boromanivst, dove si conservano gli avanzi dei re del Siam e di tutti gli altri elefanti bianchi.»

Uno stuolo di talapoini e di talapoinesse, vestiti tutti di seta bianca, il colore usato nelle cerimonie funebri, s’avanzava verso la piramide, salmodiando massime morali nella lingua dei Bali, fiancheggiato da gruppi di suonatori che soffiavano disperatamente entro i pi, specie di chiarine dal suono assai aspro, percuotevano furiosamente degli enormi tapon dalla forma e della grossezza d’un barile, e sbatacchiavano i crab, certe specie di bastoni di legno sonoro, che servono d’accompagnamento alle voci.

Seguivano poi gruppi di ballerini e di ballerine, che avevano alle dita certi unghioni di rame giallo e portavano sul capo degli alti berretti conici ornati di pietre false; poi squadre di schiavi che reggevano dei canestri pieni di resine, di polvere di sandalo e di fiori; quindi dieci o dodici carri, scortati da suonatori di tong, quegli strani strumenti musicali fatti a forma di bottiglia, chiusi in fondo da una pelle che si batte col pugno.

Su tutti quei carri vi erano statue enormi di legno dorato, rappresentanti leoni, tigri, elefanti, mostri favolosi e serpenti colossali.

La processione fece due volte il giro dell’enorme piramide, gettando profumi, fiori e materie resinose, sempre urlando, salmodiando e suonando, poi un talapoino ad un cenno del re annodò ad un angolo della costruzione un largo nastro di seta bianca, legando l’altro capo ad un mucchio di libri sacri: era il mistico legame tra il defunto S’hen-mheng ed i libri di Sommona Kodom.

Quando il nastro fu teso, successe un profondo silenzio: talapoini, talapoinesse e suonatori non fiatavano più. Allora il re scese dal palco reale, tenendo in mano una fiaccola accesa, mentre alcuni soldati spargevano al suolo della polvere da sparo, formando una lunga striscia.

Phra-Bard, visibilmente commosso, diede fuoco alla polvere.

Una striscia di fuoco serpeggiò per la piazza, comunicandosi alle materie resinose che circondavano l’immensa pira.

Per alcuni istanti non si vide che una nuvola immensa di fumo nero avvolgere la piramide, poi fra quelle ondate di fumo guizzarono gigantesche lingue di fuoco, proiettando sulla folla dei bagliori sinistri.

L’immensa mole che racchiudeva il corpaccio del S’hen-mheng, formata quasi tutta di tronchi d’albero resinosi, bruciava con rapidità incredibile, lanciando in aria fasci di scintille.

Tutti i principi, le principesse e i grandi dignitari dello stato accorrevano da tutte le parti a gettare sul rogo una torcia, mentre i talapoini e le talapoinesse mandavano grida acutissime, e rombavano con un fracasso infernale i tapon e i tong.

I ballerini e le ballerine intanto intrecciavano danze, eseguendo il rabam, un ballo riservato per le cerimonie funebri.

La pira fiammeggiava ormai dalla base alla cima ed il fuoco si propagava alle quattro ali e alle quattro torri.

I tronchi scoppiettavano, poi cadevano al suolo con sinistri fragori, mentre si espandeva per l’aria un acre odore di carne bruciata: l’enorme animale rosolava entro quella immane fornace, tuonando come se nel suo corpaccio avessero messo dei petardi.

Le torri, meno elevate e più leggere, crollavano fragorosamente, lanciando in alto turbini di fumo e di scintille; le gallerie delle quattro ali si sfasciavano, ma la piramide resisteva ancora.

Le tenebre erano calate, eppure sulla piazza ci si vedeva meglio che se fosse mezzodì. Perché il cielo pareva tutto in fiamme.

Ad un tratto l’enorme edificio oscillò, come se una poderosa scossa di terremoto avesse sollevato il suolo, poi quelle migliaia e migliaia di tronchi fiammeggianti si sfasciarono e l’intera massa crollò con un fracasso spaventevole, formando un immenso braciere alto parecchi metri.

Il corpo del S’hen-mheng, sepolto sotto quell’ammasso di tronchi già carbonizzati, si inceneriva rapidamente.

«È finita,» disse il dottore. «Possiamo andarcene, generale.»

Lakon-tay, che era più commosso di quanto sembrasse, si era già alzato, quando un paggio del re lo accostò, sussurrandogli all’orecchio:

«Sua Maestà vi aspetta nel suo palazzo.»

«Il re mi chiama!» esclamò il generale. «Sono un uomo finito.»

«Voi non sapete ancora che cosa desidera,» disse il dottore, quantunque in fondo all’animo condividesse le angosce del disgraziato generale.

«Non sarà certo per mantenermi in carica o per annunciarmi la cattura di qualche altro elefante,» rispose Lakon-tay con voce triste. «Il meglio che mi possa toccare sarà l’esilio in qualche lontana provincia.»

L’europeo diventò pallido e il suo pensiero corse a Len-Pra, a quella deliziosa fanciulla che già tante volte aveva ammirato sulla veranda della phe e per la quale già da tempo nutriva, quasi senza saperlo, una profonda affezione.

«Ebbene,» diss’egli con voce risoluta dopo un breve silenzio, «vi seguirò anche nell’esilio. Guarire degli ammalati qui od altrove, per me fa lo stesso.»

«Mi seguirete nell’esilio?» chiese il generale, con stupore.

«Sì,» rispose l’italiano, «e voglio lavorare alla vostra riabilitazione. No, un prode a cui lo stato deve la salvezza della patria, non deve cadere sotto i colpi dei nemici.»

Lakon-tay, profondamente commosso, strinse la mano del bravo giovane.

«Ah! Questi europei!» mormorò. «Quanta nobiltà d’animo posseggono, mentre qui non vivono che l’intrigo e la vigliaccheria!»

Il rogo stava per estinguersi e il re si era ritirato colla sua corte, rientrando nella cinta dell’immenso palazzo reale. Fare attendere quel potente monarca era troppo pericoloso.

«Andiamo,» disse Lakon-tay, con voce risoluta. «Mi aspetterete davanti alla porta, è vero, dottore?»

«Non vi lascerò solo,» rispose l’italiano. «Ormai ho unito la mia sorte alla vostra.»

Scesero dalla loggia, che a poco a poco si era vuotata, e si diressero verso la porta d’occidente che s’apriva sulla vasta piazza e che era guardata da una compagnia d’arcieri della guardia reale, vestiti di seta rossa, con ampi calzoni alla turca e coi cappelli a forma di piramide.

Con grande sorpresa di Lakon-tay, le guardie gli presentarono le armi e fecero squillare i pi. Ciò era di buon augurio, poiché se la sua disgrazia fosse stata ormai decretata, nessun onore gli sarebbe stato più reso.

Un po’ incoraggiato da quell’accoglienza, fece cenno al dottore di attenderlo ed entrò nel vasto cortile d’onore, alla cui estremità s’apriva il salone delle udienze.

Quando salì la gradinata, vide Phra-Bard passeggiare con una certa agitazione fra le splendide colonne che reggevano il soffitto di mosaico d’oro, ancora vestito di seta grigia, colla corta scimitarra appesa alla fascia.

Il viso del monarca non si era ancora rasserenato, anzi profonde rughe solcavano la sua fronte ed un brutto lampo illuminava i suoi occhi nerissimi e leggermente obliqui.

Vedendo Lakon-tay si arrestò di colpo, fissando sul generale uno sguardo acuto come la punta d’uno spillo.

«Eccomi, maestà,» disse il generale, dopo essersi inchinato fino a terra.

«Tu hai combattuto anche alle frontiere cambogiane, contro gli Stienghi, è vero?» gli chiese il monarca senza rispondere al suo saluto.

«Sì, maestà, e mercé la protezione di Sommona Kodom, anche quella volta ho salvato il regno da una invasione,» rispose Lakon-tay, con voce tranquilla.

«Tu allora, che sei rimasto in quei paesi lungo tempo, devi conoscere una leggenda.»

«Quale, maestà?»

«Hai mai udito parlare del driving-hook di Sommona Kodom?»

Lakon-tay guardò il re con una certa sorpresa, chiedendosi che cosa potesse significare quella strana domanda, poi rispose:

«Sì, ne ho udito parlare.»

«Sai dove sarebbe stato sepolto?»

«In una pagoda d’una vecchia città, a quanto mi hanno narrato.»

«Che sorge presso il lago misterioso di Tuli-Sap.»

«Così mi hanno detto.»

«Ebbene, sappi ora che Sommona Kodom, interrogato dai talapoini, ha fatto comprendere che senza quel driving-hook più nessun elefante bianco si farà vedere né catturare.

L’uncino di cui si serviva il mahut, quando Sommona era incarnato in un elefante, è necessario per evitare le spaventevoli calamità che presto o tardi piomberanno sul regno non più protetto da alcun S’hen-mheng.

Vuoi la tua riabilitazione ed il mio perdono, e vuoi evitare a tua figlia la schiavitù? Va’ a trovarmelo.»

«Ma, maestà… se non esistesse?»

«Sommona ha parlato ai talapoini. Oseresti mettere in dubbio le parole del dio?» chiese il re con collera. «Sono trecent’anni che si parla di quel driving-hook

«Potrò io scoprirlo?»

«Questo è affar tuo: ti concedo tre giorni per fare i tuoi preparativi. Va’, Lakon-tay: ti ho dato il mezzo per riabilitarti.»

Capitolo VII. La spia

Il dottor Roberto Galeno, figlio d’un celebre medico che aveva fatto la sua fortuna alla corte del Kedivè d’Egitto e poi a quella del marajah di Mysore, aveva ereditato dal padre una intensa passione per la vita avventurosa.

Laureatosi appena ventenne, primo fra tutti i suoi compagni, all’università di Padova, dopo un paio d’anni di pratica in quell’ospedale, aveva dato un addio alla città natia, disgustato anche dall’oppressione straniera, e si era imbarcato a Venezia sul primo veliero in partenza per le Indie.

Ricchissimo, abilissimo e munito anche di lettere di raccomandazione per i rajah e i marajah dell’India, quattro mesi dopo salutava con gioia le torbide acque del sacro Gange e le immense canne delle prime jungle.

Dopo aver percorso l’India misteriosa, dal capo Comorin alle immense catene dell’Himalaja, aveva fissato la sua residenza nel Mysore, dove già suo padre aveva lasciato tanti graditi ricordi e dove il suo nome era ricordato con una specie di venerazione.

Spirito però irrequieto, non vi si era fermato a lungo e, dopo un anno, aveva ripreso le sue peregrinazioni visitando le grandi isole del mare della Sonda, ora operando e guarendo, ora cacciando piccoli e grossi animali ed ora studiando quei popoli così interessanti. A venticinque anni, un po’ stanco di quella vita randagia, desideroso di riposarsi alcuni mesi, era sbarcato a Bangkok, l’opulenta capitale del Siam, la piccola Venezia dell’oriente.

Voleva conoscere anche i Siamesi, prima di tornarsene definitivamente in Europa, e possibilmente anche i Cambogiani, popolo in quell’epoca non più conosciuto di quello dayacho che abita le impenetrabili foreste del Borneo.

La pittoresca città, col suo magnifico fiume, le sue alte pagode dalle cupole dorate sfolgoranti al sole, aveva subito conquistato l’anima del medico… ed egli si era fermato più del previsto, affittando una graziosa palazzina che si trovava, come abbiamo veduto, di fronte alla phe del generale.

Conoscitore profondo di tutte le malattie che travagliano e decimano le popolazioni orientali, non aveva tardato a formarsi una numerosa clientela, specialmente fra i ricchi della città e anche fra i grandi della corte, che credevano più alla scienza d’un europeo, uomo stimato soprattutto nel Siam e nella Birmania, che ai ciarlatani del paese.

 

Per parecchi mesi non si era mai occupato del suo vicino, che abitava quella splendida phe; ma una sera verso il tramonto, mentre stava sulla sua veranda leggendo un trattato di chirurgia, i suoi occhi per la prima volta si erano incontrati in quelli di Len-Pra.

La bellissima fanciulla, che stava raccogliendo delle peonie fra le piante che adornavano la sua ricca veranda, accortasi di essere osservata da quello straniero, si era affrettata a ritirarsi; ma la sera seguente, alla stessa ora, il dottore l’aveva riveduta formare un altro mazzo di peonie color di fuoco.

Per la prima volta in vita sua, un sentimento nuovo, dolcissimo era penetrato nel cuore dell’italiano. Che cos’era? Non sapeva veramente spiegarselo; sapeva solo che quando rivedeva la figlia del prode generale, andava a riposare più contento. E per molte sere i due giovani, entrambi belli, si erano guardati silenziosamente, fino al giorno in cui il tentato suicidio di Lakon-tay li aveva per la prima volta avvicinati.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il dottore, sempre un po’ preoccupato dalla disgrazia, che forse in quel momento stava per colpire il disgraziato generale, passeggiava nervosamente dinanzi alla porta del palazzo reale, chiedendosi con una profonda ansietà come sarebbe terminato quel colloquio col possente monarca.

Conosceva abbastanza bene gli orientali per non farsi troppe illusioni, ed aveva anche conosciuto più d’un rajah o d’un marajah dell’India e dell’Indocina, monarchi capricciosi, testardi, vendicativi e anche molto superstiziosi.

Cominciava già ad impazientirsi, quando finalmente vide apparire Lakon-tay. Con un solo sguardo capì che quel colloquio non doveva essere stato troppo amichevole, a giudicare dal viso rannuvolato dell’ex ministro della corte dei S’hen-mheng.

«Cattive nuove, generale?» gli chiese premurosamente.

«Andiamo nella mia phe,» rispose Lakon-tay. «Esamineremo insieme la situazione e voi giudicherete.»

Salirono nei palanchini e partirono quasi a passo di corsa, avendo il generale avvertito i portatori di andare molto in fretta.

Un quarto d’ora dopo il generale e Roberto si trovavano nella stanza dove per la prima volta si erano veduti e dove il medico aveva compiuto quella meravigliosa guarigione.

Lakon-tay, dopo aver fatto avvertire Len-Pra che avrebbe cenato più tardi, chiuse a chiave la porta della veranda onde nessuno entrasse; poi, dopo aver invitato il dottore a sedersi, lo informò minutamente dell’esito del suo colloquio con Phra-Bard.

Roberto lo ascoltò senza interromperlo, non celando però la sua sorpresa e chiedendosi in cuor suo se quella non fosse una nuova trovata degli occulti nemici del generale, per perderlo completamente, tanto gli pareva inverosimile quella storia del driving-hook di Sommona Kodom.

«È tutto?» chiese finalmente, quando Lakon-tay tacque. «Che cosa ne pensate voi di questa missione?»

«Mi pare che il re pensi seriamente a riabilitarmi.»

«O a perdervi?»

«Non lo credo.»

«Quel famoso driving-hook esiste veramente?» chiese l’italiano.

«Sono molti secoli che se ne parla, senza che si sia mai fatto alcun tentativo per cercarlo. I talapoini affermano che se il re lo possedesse, gli elefanti bianchi non mancherebbero mai alla corte reale.

Io che ho combattuto per due anni alle frontiere cambogiane, contro gli Stienghi e contro gli stessi Cambogiani, ho udito sovente parlare di immense città d’una architettura meravigliosa, che si troverebbero nascoste nelle immense foreste del settentrione, ad oriente del lago Tuli-Sap.

Narrano le nostre antiche storie che, molti secoli addietro, in quelle foreste esisteva un regno chiamato Khmer, che occupava una estensione immensa, che ebbe centoventi re e che poteva disporre di cinque milioni di combattenti.

Come quel regno sia scomparso, ancor oggi è un mistero; ma che sia esistito non si può mettere in dubbio, anzi era celebre fra i grandi stati indocinesi.

Di esso sono rimaste rovine imponenti, fra cui una città che gli Stienghi chiamano Angkor-tom e che sarebbe stata la capitale di quel regno.»

«Esiste ancora?»

«Sì, e gl’indigeni, che io ho più volte interrogati, mi hanno raccontato che quella città, che sarebbe stata costruita da un re lebbroso, ha ancora le due immense cinte in ottimo stato, meravigliosi edifizi, torri, gallerie, archi trionfali ed una pagoda colossale entro cui sarebbe stato sepolto il driving-hook adoperato dal mahut incaricato di condurre l’elefante che incarnava lo spirito di Sommona Kodom.»

«Che sia stato veramente sepolto colà, quel driving-hook

«I nostri libri sacri lo affermano.»

«E se non esistesse?» chiese l’italiano, che non credeva molto alle leggende.

«Perché gli antichi talapoini avrebbero mentito?» chiese Lakon-tay.

«Chi lo avrebbe sepolto?»

«Il mahut, per ordine dell’elefante.»

Il dottore non poté trattenere un sorriso d’incredulità. Già alle cinquecento incarnazioni del dio non prestava alcuna fede, malgrado le affermazioni di tutti i libri sacri dei Siamesi e anche dei Birmani.

«Ditemi, generale,» riprese. «Fu fatta una descrizione di quel miracoloso uncino?»

«Sì: ha la punta d’oro, con due cerchi di rubini, ed il manico è formato da uno smeraldo.»

«Uno smeraldo così enorme!»

«Vi stupite? Nella nostra pagoda di vat-scetuphon si conserva una statuetta di Sommona Kodom, fatta con un solo smeraldo che ha 68 millimetri di altezza e 32 di spessore.»

«Sì, ne ho udito parlare,» rispose il dottore. «Ed ora che cosa contate di fare?»

«Obbedire,» disse Lakon-tay.

«Andrete a cercarlo?»

«Sì, perché da quel driving-hook dipende la mia riabilitazione e la salvezza di Len-Pra.

Conosco troppo bene il re: è leale e generoso, ma vuole essere obbedito. Io, ai suoi occhi, sono colpevole di aver causato la morte dei S’hen-mheng e tutti, popolo e grandi, mi accusano, quantunque la mia coscienza nulla abbia da rimproverarmi.»

«E Len-Pra?»

Il generale stava per rispondere, quando un lieve rumore, come d’un ramo che si spezzi, attrasse improvvisamente la sua attenzione.

Quel rumore si era udito presso una delle due finestre che erano state lasciate aperte e che guardavano sul giardino, verso il fiume. Lakon-tay si alzò vivamente e si diresse rapidamente verso la finestra, sollevando la leggera tenda di seta azzurra che si gonfiava ai soffi della fresca brezza notturna.

Delle piante rampicanti, dalle larghe e foltissime foglie, coprivano quasi l’intera facciata della casa, incorniciando le finestre e spingendosi fino sul tetto. Lakon-tay si curvò sul davanzale; ma poiché la luna non si era ancora alzata e i cocchi ed i tamarindi del giardino proiettavano una folta ombra, non scorse nulla di sospetto.

«Eppure un ramo è stato spezzato sotto la finestra,» disse al dottore che lo aveva raggiunto.

«E da chi?»

«Non lo so.»

«Che qualcuno abbia osato entrare nel giardino e arrampicarsi fino alla finestra, per sorprendere i nostri discorsi?»

«Forse mi sarò ingannato, dottore. Chi potrebbe avere interesse ad ascoltarci?»

Stettero qualche minuto alla finestra; poi, non udendo alcun rumore sospetto, rientrarono.

«Dunque, voi partirete?» rispose il dottore.

«Sì.»

«Quando?»

«Domani, dopo il mezzodì, sul mio balon

«E Len-Pra?»

«Verrà con me,» disse il generale. «È una fanciulla che ha buon sangue nelle vene, che ha viaggiato molte volte, che mi ha accompagnato anche nelle foreste del settentrione, quando guerreggiavo contro gli Stienghi. D’altronde non mi fiderei a lasciarla qui.»

«Che cosa temete?»

«Avete dimenticato Mien-Ming?»

«Ah… Il puram Cambogiano!…»

«Quell’uomo sarebbe capace di tutto, anche di approfittare della mia assenza per rapirmi Len.»

«Guardate,» disse Roberto, che pareva avesse preso una improvvisa risoluzione. «Se vi facessi la proposta di accompagnarvi? Fareste acquisto, oltre che d’un medico, d’un buon fucile e d’un discreto cacciatore.»

Lakon-tay, con una mossa improvvisa strinse le mani del dottore.

«Voi, seguirmi! Voi condividere i pericoli d’un così lungo viaggio fra le selvagge tribù del settentrione?»

«Se non vi sono d’incomodo!…»

«Ah!… Grazie, dottore, grazie! Uomini come voi non si rifiutano. Un europeo in questo paese vale meglio d’una compagnia di soldati del re.»

«Quando partiremo?»

«Domani, dopo il mezzodì, vi ho detto.»

«Chi verrà con noi?»

«Feng, che è uno Stiengo; io l’ho raccolto sei anni or sono, quasi morente, su un campo di battaglia, e l’ho curato colle mie mani, ed egli è d’una fedeltà a tutta prova. Ci sarà prezioso quando avremo raggiunto le foreste del settentrione.»