Tasuta

La crociera della Tuonante

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Kuhu peaksime rakenduse lingi saatma?
Ärge sulgege akent, kuni olete sisestanud mobiilseadmesse saadetud koodi
Proovi uuestiLink saadetud

Autoriõiguse omaniku taotlusel ei saa seda raamatut failina alla laadida.

Sellegipoolest saate seda raamatut lugeda meie mobiilirakendusest (isegi ilma internetiühenduseta) ja LitResi veebielehel.

Märgi loetuks
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

15. Una pioggia di squali

Uno spettacolo terrorizzante si era offerto agli sguardi del giovane gabbiere. Tutta la coperta della nave era piena di pescicani, scaraventati oltre le murate dalle onde, e che guizzavano disordinatamente colle immense bocche spalancate. Le loro code percuotevano furiosamente gli alberi e gli argani e rovesciavano i barili, scaraventandoli in mare come se fossero semplici fuscelli di paglia.

«Hai veduto, Piccolo Flocco?» chiese Testa di Pietra.

«Ho il cuore che non mi batte più. »

«Per così poco? Le snideremo quelle canaglie. Abbiamo ancora delle carabine inglesi e le adopreremo. »

«Sì, due,» disse l’Assiano. «Io averle messe in salvo insieme con le munizioni prima dell’ultima ondata.»

«Và a prenderle,» comandò Testa di Pietra. «Dimmi, Piccolo Flocco: hai mai veduto un simile spettacolo?

«Mai!»

«E tu, Hulbrik?»

«No, patre.»

«E nemmeno io prima d’ora. Forse mio nonno avrà veduto ben altro durante i suoi viaggi.»

«Non te l’ha raccontato?»

«Ero troppo piccino per comprendere, e poi ero troppo occupato a guardare la storica pipa.»

«Che il diavolo ti porti!»

Il Tedesco tornò con le carabine, alle quali aveva cambiato le capsule per essere più sicuro del colpo. Testa di Pietra impugnò la scure, arma meglio adatta per le sue braccia; gli altri, quelle da fuoco e sbucarono sul ponte.

Dieci o dodici pescicani continuavano a saltare furiosamente rompendosi i musi contro gli alberi e le murate. La tolda sembrava una macelleria, tanto era il sangue che quei bestioni avevano sparso. Qualcuno, di quando in quando, riusciva ad evitare tutti gli ostacoli e a ricadere in mare.

«Facciamo una corsa fino sulle griselle del trinchetto,» disse Testa di Pietra. «Guardatevi dai colpi di coda.

Attesero il momento opportuno e si slanciarono a corsa disperata verso la prora, saltando a destra e a sinistra per evitare gl’incontri coi formidabili mostri; e fortunati, come sempre, riuscirono a mettersi in salvo sulle griselle dell’albero di trinchetto, griselle che non si spingevano che fino alla coffa, poiché tutto sopra era caduto insieme con le vele e i pennoni. Lesti come scoiattoli, i tre uomini si issarono, mentre sotto di loro i pescicani continuavano a saltellare per la tolda, favoriti dai colpi di mare che, di quando in quando, si abbattevano sul brick-goletta.

Testa di Pietra, appena in salvo, spaziò gli sguardi sul tempestoso oceano, premendogli di sapere che cosa fosse accaduto della fregata.

«Più nulla!» gridò, tendendo le pugna. «La maledetta è scomparsa!»

«Che si sia rotta sulla costa?» chiese il giovane gabbiere. «Mi rincrescerebbe solamente per la bionda miss. »

«Chi può dirlo? C’è una grande foschia verso il sud,» rispose il mastro. «Può darsi che la fregata vi si sia immersa e continui la lotta contro la tempesta… Bà, pensiamo per ora ai casi nostri… Sei pronto, Hulbrik?»

«Sì, patre,» rispose il Tedesco, imbracciando la carabina. «Io folere saltare brutte pestie.»

«Attacca anche tu, Piccolo Flocco. La mia scure e il mio coltello per ora non servono a nulla. Un’altra volta prenderò un pezzo d’artiglieria e farò l’uomo cannone. »

Quattro o cinque squali nel frattempo erano riusciti a ricadere in mare, ma ne rimanevano ancora troppi sulla tolda per potervi scendere senza pericolo.

L’Assiano aprì il fuoco, e siccome era uno scelto tiratore, non mancò di cacciare sotto la pelle d’un pescecane una grossa verga di piombo. Il giovane gabbiere fu pronto ad imitarlo, e per un quarto d’ora i due demoni gareggiarono, sparando un gran numero di colpi, dei quali ben pochi andarono perduti.

Gli squali, bersagliati da tutte le parti, spiccavano salti immensi, rompendosi i musi contro le murate, poi con un ultimo sforzo si gettavano in acqua approfittando dei colpi di mare che, di quando in quando, ancora giungevano. Ma uno, forse perché troppo gravemente ferito, si era ostinato a rimanere sulla coperta.

«Ohé, tiratori maldestri, devo scendere io colla mia scure a finire quella canaglia?… Che cosa fai, Hulbrik? So bene che se tu potessi avere una bottiglia di birra, spareresti meglio.»

«Sì, patre,» rispose l’Assiano.

«Ma io posso offrirti la mia preziosa pipa mutilata. Vuoi tirare una boccata?»

«Dà, patre.»

«Hulbrik,» disse il giovane gabbiere. «Bada di non guastare la pipa del nonno di Testa di Pietra, portata non so da quali lontani paesi.»

«Dall’Asia Minore, asino!» disse il mastro.

«Proprietà di qualche principe turco?»

«Certamente.»

«Allora, Hulbrik, fumerai gli avanzi delle peggiori canaglie che il buon Dio abbia create.»

«Che cosa ne sai tu dei Turchi?» chiese il mastro.

«Mio nonno…»

«È stato impalato a Negroponte; è vero?»

«Ah, io non me lo ricordo! So che è morto in un paese della Turchia e non troppo bene.»

«Dà a me la tua carabina: sono stanco di assistere ad un combattimento senza prendervi parte.»

«Dovevi prendere la scure e scendere. Tuo nonno non sarebbe rimasto qui ad osservare e a malignare sui nostri colpi.»

«Corpo di centomila campanili! E tu credi che io, bretone di Batz, abbia paura d’un pescecane? Ne ho uccisi parecchi durante i miei viaggi. A te la carabina.»

«Sei pazzo, Testa di Pietra?»

«Tu non scendere, patre,» disse l’Assiano.

Ma il Bretone era già sulle griselle colla scure appesa al fianco. Fortunatamente non aveva che un solo nemico da affrontare e anche gravemente ferito, a giudicare dall’enorme quantità di sangue che si lasciava indietro ad ogni balzo.

«Pazzo, patre?» chiese Hulbrik, armando la carabina.

«È la pipa di suo nonno che gli ha guastato il cervello. Vediamo che cosa vuol fare quella testa dura.»

Il mastro si era lasciato scivolare in coperta e si era avanzato risolutamente contro lo squalo, impugnando la scure. Lo squalo, dopo un ultimo balzo, era caduto fra gli alberi di maestra e di trinchetto, o, meglio, fra i tronconi, e si era allungato tutto, spalancando l’enorme bocca. Il sangue abbondava intorno a lui.

Il terribile mastro lo assali senza esitare, troncandogli dapprima un pezzo di coda, poi lo colpì nella testa, sfondando cranio e mascelle. Il povero squalo, così sconciamente mutilato, raccolse le sue ultime forze, e approfittando d’un colpo di mare, si lasciò portar via.

«Che ne dici, Piccolo Flocco?» chiese il mastro guardando in alto e impugnando ancora la scure sanguinosa.

«Che hai ammazzato un morto!» rispose il gabbiere.

«Ah, canaglia!… Ma tu non sei disceso!»

«Non ne valeva la pena, camerata.»

«Pessimo Bretone!… Già sei del Pouliguen e non di Batz! Orsù, è finita, e potete scendere.»

«A cenare?» chiese il Tedesco.

«Se troveremo ancora qualche cosa…»

Il giovane gabbiere e il Tedesco si calarono sulla tolda, tutta innaffiata di sangue.

«Alla caccia di viveri!» disse il mastro. «Spero che non troverete nessun altro orso o giaguaro nascosto in qualche angolo oscuro. Tuttavia vi consiglio di portare con voi, per precauzione, le carabine.»

«No, patre: tu darmi tua scure ed io regalare a te due zamponi di crossa bestia.»

«E dove li troverai? Sei diventato pazzo, Hulbrik?»

«Dove? dove?» gridò in quel momento Piccolo Flocco. «Nella dispensa. Non ti ricordi più dell’orso che mi ha assalito e che voi avete ucciso?»

«Corpo di tremila campanili! Io perdo la memoria! Ma sono stati tanti gli avvenimenti in così breve tempo, da scombussolare il cervello meglio conformato… Avanti gli zamponi! Io intanto accenderò il fornello.»

Il Tedesco ed il giovane gabbiere, l’uno armato della scure e l’altro d’una carabina, scesero nel frapponte dirigendosi verso la dispensa. Testa di Pietra, invece, attraversò la nave, e si inerpicò sul cassero che le onde più non battevano, e di li, con suo vivo stupore, vide ancora galleggiare, sotto la poppa, la grossa scialuppa che aveva già notata.

«Ah, non ci sono che gl’Inglesi capaci di costruire delle vere imbarcazioni!» esclamò. «C’è un po’ d’acqua dentro, ma noi la leveremo. Ed ora pensiamo a contentare il nostro stomaco che da ventiquattr’ore batte il tamburo.»

Vi era una cucina in ferro, saldamente legata alla murata di babordo e fornita ancora abbondantemente di legna e di carbone. Testa di Pietra si mise subito all’opera, soffiando meglio d’un mantice, e riuscì ad ottenere un bel fuoco. Proprio in quel momento il Tedesco ed il gabbiere salivano in coperta, portando due enormi prosciutti d’orso ed una cassetta di biscotti inglesi.

«Corpo d’una fregata fracassata!» esclamò il mastro. «Persino i dolci!… E di bottiglie, niente, Piccolo Flocco?»

«Tutte spezzate: forse dall’orso che mi aveva assalito.»

«Ci vendicheremo sui suoi zamponi. »

Tutti e tre si trasformarono in cuochi, e poco dopo un profumo delizioso si spandeva sulla tolda della nave. Di quando in quando dei grossi getti d’acqua varcavano le murate e si precipitavano verso la poppa, rumoreggiando. Ma non vi era più alcun pericolo, quantunque l’oceano fosse sempre agitatissimo. La carcassa si era così bene incagliata nella scogliera, che solamente una grossa mina avrebbe potuto renderle la libertà, a pezzi s’intende.

«Peccato non ci sia con noi il Baronetto!» esclamò Piccolo Flocco, mentre Testa di Pietra, che era pure un buon cuciniere, levava uno dei due zamponi abilmente arrostito.

«Vuoi guastarmi l’appetito?» disse il mastro aggrottando la fronte.

«Eppure dobbiamo pensare al nostro comandante!»

Testa di Pietra fece un sospirone, che pareva non dovesse finir più, e mandò all’inferno centinaia di campanili.

«Sta’ zitto ora, ragazzaccio: quando avremo il corpo pieno discuteremo.»

Aveva deposto lo zampone su di una lastra di ferro, rialzata un po’ ai lati perché il sugo non se ne andasse.

 

Malgrado i colpi di mare e le loro apprensione, i tre uomini divorarono ferocemente, inzuppando biscotti inglesi. Ma una bottiglia mancava per completare la colazione; così dovettero contentarsi dell’acqua corrotta puzzolente, tratta dalla grossa botte di poppa.

«Si può ora discutere?» chiese Piccolo Flocco, lisciandosi il ventre.

«Un momento,» rispose Testa di Pietra con voce grave. «Quando mio nonno stava per prendere una decisione, accendeva prima la storica pipa.»

«E quella lo ispirava?»

«Pare.»

Caricò la famosa pipa, l’accese, lanciò in aria tre o quattro boccate, attese che il fumo si dissipasse, poi disse:

«Sapete che la scialuppa è sempre con noi?»

«Possibile?» esclamò Piccolo Flocco.

«Ha dell’acqua dentro, ma noi la vuoteremo.»

«E che cosa vuoi farne?»

«Andare in cerca della fregata,» rispose il mastro.

«O della Tuonante?»

«Non occupiamoci per ora del Baronetto. Noi lo vedremo giungere di certo da un momento all’altro. Egli è senza dubbio sulle tracce del marchese d’Halifax.»

«Che cosa sarà avvenuto della fregata? Che la tempesta l’abbia gettata sulla costa e fracassata?

«È ciò che noi dovremo chiarire, perché su quella nave vi è la fidanzata del nostro comandante.»

«Spereresti di portarla via al Marchese? » chiese il giovane gabbiere.

«Se la fregata si è arenata, come credo, l’abborderemo.»

«In tre soli?»

«Due Bretoni ed un Tedesco: non ti basta? Al momento opportuno pugneremo da forti.»

«Questo è certo.»

«Per ora,» riprese il Bretone, «non abbiamo nulla da fare. Lasciamo che la tempesta si calmi un pò, prima di calarci nella scialuppa. Approfitteremo intanto di questo intervallo per fare una dormita.»

Scesero nel frapponte, presero delle vecchie vele ed improvvisarono dei lettucci abbastanza comodi per uomini abituati a dormire sulla nuda tolda. Dopo aver dato un ultimo sguardo verso il sud, i tre uomini si coricarono l’uno accanto all’altro, tenendo a fianco le loro armi.

Intanto la tempesta scemava rapidamente. Le grandi raffiche non giungevano più a rimescolare l’oceano, ed anche il cielo si era un po’ rischiarato verso oriente. Per dodici ore una calma relativa doveva regnare intorno alla scogliera: almeno così la pensava il mastro.

Fu una dormita che si prolungò più del bisogno. Quando i tre naufraghi aprirono gli occhi, un magnifico sole splendeva sopra le loro teste, e fra l’alberatura fuggivano enormi bande di rincopi e di corvi di mare, i quali battagliavano tra di loro, strappandosi nuvole di penne.

Come Testa di Pietra da bravo marinaio aveva previsto, l’oceano si era calmato e le raffiche erano cessate.

«La fregata?» chiese subito il giovane gabbiere.

«Io non l’ho veduta ritornare, » rispose il mastro.

«Sfido io! dormivi come una tartaruga marina.»

«E tu che cosa facevi intanto? La guardia?»

«Io preparavo il mio piano di battaglia.»

«Dev’essere magnifico!»

«Lo giudicherai più tardi. Mi pare che sia giunta l’ora di andare in cerca della fregata e di guadagnare la costa. Prendete le armi, il prosciutto d’orso, la cassetta dei biscotti e sgombriamo. Ne ho abbastanza di questa prigionia.»

«Allora, via!» rispose il Tedesco. «Noi andare a cercare una pottiglia di pirra

«Che io sappia, gl’Indiani della Florida non sono mai stati birrai,» disse Testa di Pietra. «Ma io non dispero di poterne scovare qualche bottiglia a bordo della fregata.»

«Fregata!» sospirò il buon Assiano, «hum!»

Piccolo Flocco intanto era sceso nella scialuppa, portandosi un mastello, e si era messo a vuotare rapidamente l’acqua.

Dopo un quarto d’ora scendevano Testa di Pietra colle provviste e la scure e l’Assiano colle carabine.

«Vi è un albero ed una vela che ho scoperta, insieme con molte corde, sotto la prora,» disse il giovane gabbiere.

«Ma se lo sapevo io che siamo nati sotto buona stella!» esclamò il mastro. «Orsù, montiamo la barca e mettiamoci in viaggio. In qualche luogo scoveremo la fregata.»

Stavano spiegando la vela ed issare l’albero, quando udirono, in lontananza, parecchie cannonate.

I tre naufraghi si guardarono l’un l’altro.

«Eh? Che cosa dite ora?» chiese il mastro. «Abbiamo o non abbiamo fortuna?»

«Credi sia la fregata che spara?» domandò Piccolo Flocco.

«Conosco i suoi pezzi. Il Marchese deve trovarsi in pericolo e domanda soccorso. »

«E noi glielo porteremo, non è vero?»

«Adagio, amico. Per ora lasciamoli sparare.»

Si sedette alla barra del timone, e la scialuppa, spinta da un buon vento del nord, lasciò la scogliera, dirigendosi verso la costa.

16. La caccia ai naufraghi

La scialuppa era in ottimo stato, e, come tutte quelle inglesi, perfettamente equilibrata. Non stazzava che cinque o sei tonnellate, portata più che sufficiente per i tre naufraghi che non avevano carico. Sotto la robusta mano del mastro, la piccola veliera tagliò una specie di canale che separava la scogliera dalla costa e si spinse risolutamente innanzi, mentre in lontananza, a cinque o sei miglia, tonavano i cannoni della fregata. In meno di mezz’ora i naufraghi raggiunsero la terraferma, arrestandosi in una minuscola cala. Non volevano spingersi troppo innanzi, così, in pieno giorno, per non ricevere qualche bordata.

«Aspettiamo a stasera,» disse il mastro, mentre Hulbrik legava l’imbarcazione ad una pianta che si curvava sull’acqua.

«E poi faremo una passeggiata su questa costa, che è così ricca di piante.»

«E perciò anche di animali.»

«Sì, mastro…»

«Non ti fidar troppo di queste terre, poiché oltre ad orsi e giaguari e serpenti velenosi, potresti imbatterti negl’Indiani. molto peggiori delle bestie.»

«Noi prenderli e far fare pirra,» disse Hulbrik.

«Corpo di centomila campanili!… Giacchè ci tieni tanto alla pirra degli uomini rossi, voglio spiegarti il segreto della fabbricazione.»

«Dite, patre: mettere scorpioni?»

«Peggio, assai peggio, Hulbrik! Prendono delle radici di mandioca, le fanno masticare dalle vecchie della tribù (specie da quelle sdentate), poi quel salivaccio viene sputato in un vaso e lasciato fermentare per otto giorni.» «

«Con mandioca?»

«Sì, Hulbrik. La berresti ora quella birra?»

«No! no!» gridò il Tedesco. «Meglio fino scorpionato di mastro Taverna.»

Il mastro rise e disse:

«Giacché il sole non tramonterà prima di cinque ore, andiamo a visitare la foresta… Tò! la fregata non spara più. Che abbia trovato un buon ancoraggio?»

Infatti da parecchi minuti i grossi pezzi della nave inglese non facevano udire più la loro possente voce. Si era spaccata su qualche scogliera, oppure aveva avuta la fortuna di trarsi d’impiccio da sé, rifugiandosi in qualche insenatura.

«Che ne dici tu, mastro?» chiese il gabbiere.

«Io non dico nulla. Vedremo più tardi. Ora andiamo in cerca d’un sorso d’acqua fresca, e se si presenta l’occasione, spariamo qualche fucilata.»

Raggiunta la cima della costa si trovarono improvvisamente dinanzi ad un superbo palmeto. Vi erano migliaia di alberi, disposti a gruppi, coi tronchi per lo più sottili ed alti anche trenta metri, coronati di una specie di parasole di lunghe foglie palmate, che ricadevano elegantemente, mostrando delle magnifiche spole tinte d’un violetto iridescente con liste di porpora e fiocchi di frutta cha sembravano mele verdi. Intorno a quei bellissimi e pittoreschi vegetali crescevano in gran numero le tigridie, le quali spiegavano al sole i loro fiori a forma di coppa di colore scarlatto e chiazzati di occhi, simili a quelli che si ammirano nelle penne dei pavoni, e di rigature nere che ricordano le code dei giaguari.

Appena i tre naufraghi si cacciarono sotto la foresta, da tutte le parti si alzarono uccellacci d’ogni specie, mentre fuggivano numerosi conigli. Erano fra i primi delle arzavole, eccellenti a mangiarsi; dei corvi di mare, grossi come galli e così feroci da assalire perfino le persone ferite; dei fenicotteri dalle lunghe zampe e dal becco stranamente ripiegato, tantali verdi, ibis bianchi ed anitre grosse come oche. Un uccello orribilmente brutto, che si era posato su un ramo basso, dette nell’occhio al Tedesco, il quale pensò di dargli la caccia. Era grosso quanto un tacchino, colle penne grige, gli occhi rossi, il becco bianco e il collo rognoso e pieno di verruche.

«Che fai, Hulbrik?» chiese il mastro, vedendo il Tedesco muovere con la carabina armata verso l’uccellaccio, che pareva non si fosse accorto della presenza dei naufraghi.

«Io folere mangiare quella prutta pestia!»

«È un avvoltoio aura… Guarda al tuo vestito.»

«Che cosa vuoi dire, Testa di Pietra?» chiese Piccolo Flocco, il quale stava a vedere. «Credi che gli salti agli occhi?»

«Io ho parlato del suo vestito e non dei suoi occhi. Quando lo ascolto tendo bene gli orecchi.»

«Come faceva tuo nonno?»

«Precisamente,» rispose serio il mastro.

Intanto il Tedesco si accostava al gigantesco avvoltoio che pareva fosse stato preso dal sonno.

«Guarda ai tuoi panni!» gli gridò un’altra volta Testa di Pietra.

Hulbrik, testardo come tutti i Tedeschi, e deciso a regalarsi per la colazione del domani quel brutto uccellaccio, non sapendo con che razza di volatile aveva da fare, continuava ad avanzarsi, tenendosi nascosto dietro i cespugli; ma era precauzione inutile perché, come abbiamo detto, l’avvoltoio dormiva della grossa. Chi sa, quanti conigli e scoiattoli volanti durante la giornata aveva insaccato nel suo ampio ventre!

Già Hulbrik non si trovava che ad una quindicina di passi e si preparava a far fuoco, quando l’avvoltoio spiegò le sue lunghissime ali, librandosi proprio sopra il cacciatore.

«Scappa, Hulbrik!» gridò Testa di Pietra.

Era troppo tardi! L’uccellaccio aveva vomitato addosso al Tedesco una poltiglia verdastra e così puzzolente, da mettere in fuga perfino dei giaguari. Il Tedesco lasciò partire la carica a casaccio, senza colpire, e saltò indietro urlando:

«Mio naso! mio naso!»

«Te l’ha mangiato?» chiese premurosamente il giovane gabbiere, armando la seconda carabina.

Un puzzo orrendo si era sparso sotto il palmeto, e tale, che perfino il mastro si sentì prendere dalla nausea.

«Via, Hulbrik! Via, Piccolo Flocco!» gridò, slanciandosi verso la costa spazzata dall’aria marina.

Il Tedesco e il giovane gabbiere, che si sentivano asfissiare da quel profumo infame, lo seguirono a gran salti, mentre l’avvoltoio, approfittando della confusione, se n’andava tranquillamente a finire la sua laboriosa digestione sulla cima di un altro albero.

Giunti sulla costa, i tre naufraghi si fermarono, aspirando fortemente la brezza impregnata di salsedine.

«Che pestia essere quella?» chiese il Tedesco, che pareva volesse rigettare. «Io mai sentito odore così pruno!»

«Un avvoltoio,» rispose il mastro. «Ti avevo detto di lasciarlo tranquillo.»

«Che cosa afere in corpo quell’uccello?»

«Un vero pozzo nero!» rispose il mastro ridendo.

L’Assiano fece un gesto di ribrezzo.

«Hai veduto gl’Indiani?» chiese il mastro, dopo aver lanciato rapidamente uno sguardo sotto il palmeto.

«No, patre; penso con orrore che io volevo mangiare pozzo nero.»

«Ora andrà a farsi mangiare da qualche indiano,» disse Piccolo Flocco che rideva a crepapelle.

«Pono stomaco indios!»

«Mangiano perfino gli alligatori che puzzano orribilmente di muschio…» disse Testa di Pietra.

Ma s’interruppe d’un tratto, udendo in aria un leggero sibilo, prodotto certamente da qualche freccia indiana. Subito i due Bretoni si misero in guardia, scrutando la foresta, ma per il momento non videro nulla.

«Qui non spira buon vento per noi,» disse il mastro. «Alla scialuppa, amici!

«Ma io puzzare!» esclamò Hulbrik, con un gesto desolato.

«Non occupartene: il vento di mare ti purificherà.»

Un altro sibilo si udì, ed una freccia andò a piantarsi nel tronco d’un albero, distante un metro appena dall’Assiano.

«Ehi, cane rosso rognoso, basta questo giuoco!» gridò Testa di Pietra, strappando al giovane gabbiere la carabina. «Se desiderate da noi qualche cosa, favorite mostrarvi.»

Un uomo di alta statura, assai abbronzato, armato d’un lunghissimo arco e d’una freccia, probabilmente avvelenata, si slanciò fuori da un gruppo d’alberi e si avanzò risolutamente, gridando in un pessimo inglese:

«Ecco To-Co-To.»

Aveva teso l’arco e puntatolo verso il mastro, ora alzandolo, ora abbassandolo, cercando la buona mira.

«Amico To-Co-To,» gridò il giovane gabbiere, il quale si era impadronito della carabina delfAssiano, «o fili, o lasci qui la pelle!»

 

«Ripiegatevi nella scialuppa!» comandò il mastro. «Forse questa scimmia rossa non è sola.»

I tre naufraghi scesero a salti la riva e guadagnarono l’imbarcazione. L’Indiano li aveva intrepidamente seguiti, sempre minacciandoli col suo lunghissimo dardo.

«Ehi, Testa di Pietra,» disse il giovane gabbiere. «Che i Bretoni abbiano paura delle scimmie rosse?»

«Te lo mando nel paradiso degli indios,» rispose il mastro imbracciando la carabina. «La commedia ha durato anche troppo. Basta, buffone!»

L’Indiano scendeva la costa, per nulla spaventato, sempre minacciando e gridando:

«Io sono To-Co-To!»

«Ed io sono Testa di Pietra, mastro della Tuonante!» urlò il Bretone furibondo. «Io non tiro frecce, ma regalo invece di questi dolci… Prendi e manda giù.»

Il colpo partì e, come sempre, il Bretone non mancò il bersaglio; sicché l’Indiano, colpito in qualche organo vitale dalla grossa palla di piombo della carabina, girò due volte su se stesso gettando l’arco, poi stramazzò in mezzo alle erbe, gridando un’ultima volta:

«Io sono To-Co-To!»

La detonazione rumoreggiava ancora sotto le volte frondose del palmeto, propagandosi a grande distanza, quando trenta o quaranta Indiani balzarono improvvisamente fuori dai cespugli, mandando terribili grida di guerra. Erano quasi tutti di alta statura, adorni di grandi ciuffi di penne variopinte ed armati parte d’archi e parte di clave, ossia delle terribili rompicostole, che in un corpo a corpo, producono sempre delle grandi stragi.

Fortunatamente i naufraghi erano già giunti presso la scialuppa. L’Assiano sparò un colpo per trattenerli un momento, colpo che tolse la vita, o ferì un sakem, poi tutti s’imbarcarono precipitosamente afferrando i remi.

«Via! via!» gridò Testa di Pietra, mentre Piccolo Flocco orientava rapidamente la vela, ché soffiava in quel momento un vento abbastanza fresco.

Delle frecce cominciavano a sibilare in alto, ma non a buona portata, avendo lasciato gl’Indiani troppo tempo ai naufraghi per svignarsela. Così la scialuppa, preso vento, bordò a tribordo e si inoltrò nel canale, mentre l’Assiano sparava un secondo colpo di carabina, seguito da urli altissimi.

«Dove scappiamo, mastro?» chiese il giovane gabbiere.

«Prendiamo il largo per non farci lardellare da quelle canaglie. Poi ci occuperemo della fregata.»

Spinta da una brezza che aumentava sempre, non essendovi più la costa ad interromperla, l’imbarcazione si avanzava con una velocità di sette od otto nodi all’ora, filando fra dei veri banchi di diodon, pesci strani che navigano col ventre in aria e che hanno l’abitudine di gonfiarsi fino a diventar rotondi. Tutto il loro corpo è irto di corte spine di colore biancastro, ed ha macchie nere e violacee, sicché somigliano a dei veri ricci di dimensioni enormi, specialmente se vengono irritati.

Gl’Indiani, dopo d’aver messo a dura prova la robustezza dei loro polmoni e delle gole, non avendo nei dintorni delle canoe, si ricacciarono nella foresta.

«Speriamo che quelle canaglie non ci secchino più,» disse Piccolo Flocco.

Testa di Pietra crollò il capo.

«Uhm!» disse poi. «Fidati di quella gente!… Alla foce delle loro riviere tengono sempre delle grosse scialuppe scavate nel tronco d’un bombai. Non vorrei vedermeli venire addosso stasera! La costa è difesa da altissime scogliere, che impediscono alla vista di spaziare. Farete bene perciò a caricare le carabine e con della buona mitraglia.

Il sole cominciava a tramontare, e l’oscurità si addensava rapidissima, come avviene in quelle regioni tropicali. Turbini di uccelli fuggivano in tutte le direzioni per raggiungere i loro covi prima che la luce sparisse completamente.

Erano in massima parte fetonti, uccelli che non si allontanano mai dai tropici, con lunghe ali forcute e le code corte ma fornite di certe penne che danno a quei volatili, quando solcano l’aria, un aspetto stranissimo. Abilissimi pescatori, si precipitano sui pesci, specialmente su quelli volanti, con una ferocia inaudita, facendone delle vere stragi.

L’Assiano, che pensava sempre alla colazione, voleva far fuoco, ma il mastro glielo impedì.

«Forse noi siamo vicini alla fregata più di quello che supponiamo, e un colpo di fucile potrebbe allarmare il suo equipaggio. Lascia andare questi uccelli per ora, mio bravo Hulbrik, che valgono poco.»

«Sì, patre,» rispose prontamente il Tedesco. «Io ti obbedire come essere tuo figlio.»

«E allora, mastro,» disse il giovane gabbiere, «se non fa bene, prendilo a scapaccioni nella tua qualità di padre.»

«Questo bravo ragazzo non avrà mai bisogno delle correzioni dei marinai Bretoni.»

«Che sono così brutali!» disse Piccolo Flocco. «Ne ho prese delle busse quand’ero mozzo!…»

«Perché non c’ero io.»

«È vero. Quando tu giungesti sulla Tuonante, mettesti a posto quei banditi…»

«A suon di pugni.»

«E che pugni! Ne mandasti sette od otto all’infermeria, dopo mezz’ora di pugilato.»

«Silenzio!» disse in quel momento l’Assiano.

La notte ormai era piombata, e la costa non si scorgeva che vagamente ad una distanza di due tiri di carabina. Testa di Pietra sempre inquieto, si alzò interrogando ansiosamente le tenebre.

«Afere udito tu, patre?»

«Sì: un segnale.»

«Che prutti cani rossi ci dare la caccia sul mare?»

«Lo vedremo, Hulbrik: sono cariche le armi?»

«Sì,» rispose il giovane gabbiere.

«Allora via, in cerca della fregata! » rispose il mastro. «Vò sapere che n’è successo di quel maledetto bastimento.»

Si era rimesso alla barra e guidava la scialuppa lungo il canale, il quale pareva non dovesse terminar più. A babordo e a tribordo si stendevano sempre banchi sabbiosi interrotti da scogliere, contro le quali il mare rumoreggiava cupamente.

Un colpo di barra mal dato, e la svelta scialuppa poteva subire l’egual sorte del brick-goletta. Ma Testa di Pietra era troppo buon marinaio per lasciarsi sorprendere da qualche onda traditrice, e continuava la sua corsa, come se avesse percorso cento e cento volte quel canale. Ad un tratto un grido gli sfuggì:

«Ah, i cani rognosi!… Ero certo di rivederli!»

La scialuppa passava in quel momento davanti ad una profonda squarciatura della costa tutta illuminata da giganteschi falò resinosi. Tronchi interi di pini avvampavano spandendo in alto una nuvolaglia di fumo acre, attraversata da lunghi getti di scintille. Delle ombre umane si agitavano dinanzi a quella cortina di fuoco, spiccando dei gran salti e dimenando furiosamente le braccia.

Ben presto una canoa lunga una quindicina di metri, montata da una ventina di selvaggi, uscì dalla spaccatura avanzandosi rapidamente sul mare.

«Patre, gli indios!» disse l’Assiano.

«Li vedo anch’io!»

«Noi aspettare?…»

«Noi scappare! Piccolo Flocco, incaricati delle vele. Se vorranno prenderci dovranno ben correre.»

La canoa, spinta da un gran numero di remi, si avanzava con furia, appena sfiorando le acque, essendo quelle scialuppe leggerissime; ma i naufraghi avevano un vantaggio d’un buon mezzo miglio ed il vento in favore, che aumentava sempre. Il mastro, vedendo una linea di scoglietti, li tagliò in un passaggio non pericoloso, per cercar d’ingannare gli inseguitori, poi riprese la rotta verso il sud, orientandosi benissimo anche se non aveva più la bussola.

«Questa manovra si chiama rotta falsa,» disse all’Assiano, che pareva cercasse d’interrogarlo. «Ora vedremo se riuscirà. Quei cani rossi avrebbero fatto meglio a starsene tranquilli nelle loro capanne fumando e dondolandosi sull’amaca, invece di venire a guastare i nostri affari, e proprio in questo momento.»

Un’altra fila di scogli si alzò dinanzi alla scialuppa, e molto più alta della prima. Testa di Pietra guardò la canoa, la quale non era riuscita a guadagnare nemmeno duecento metri, e lanciò un sonoro «Corpo d’un campanile!». Invece di cercare un altro passaggio, si era mantenuto nel vasto canale contentandosi per il momento di bordeggiare.

Doveva aver fatto il suo progetto, il furbo marinaio, perché appariva tranquillo.

«Sparare?» chiese il Tedesco, vedendo la canoa avvicinarsi.

«Ma che! Lascia fare a me. Questi scogli e queste secche si prestano meravigliosamente a delle bellissime manovre per chi sa tenere ben saldo il timone.»

«E le frecce?» chiese Piccolo Flocco.

«Gettatevi sui banchi e vi passeranno sopra senza danno. E poi di notte gl’Indiani si servono poco bene dei loro archi.»

La scialuppa continuava a correre piccole bordate quasi addosso alla scogliera, con una sicurezza straordinaria, mentre la canoa, continuava il suo fulmineo attacco a fondo per venire all’abbordaggio. Già alcune frecce avevano cominciato a fischiare, ed il buon Tedesco aveva cominciato ad inquietarsi.