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La riconquista di Monpracem

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Ciò fatto, il portoghese si appoggiò ad un argano, continuando a fumare e a sorvegliare anche il salvataggio.

I malesi erano sempre intorno a lui per prestargli man forte.

Già a bordo non rimanevano che poche persone, le quali si affrettavano a portare i loro bagagli, quando si mostrò il capitano della nave, che fino allora non si era fatto vedere, occupato probabilmente a mettere in salvo le carte di bordo e la cassa.

– Spero, signore, – gli disse, affrontandolo iratamente, – che noi ci rivedremo.

– E perché no, capitano? – rispose Yanez.

– Non trascinerete continuamente per il mare la vostra flottiglia senza prendere qualche volta terra: guai a voi, se vi trovo in qualche porto!

Sapete come si trattano i pirati?

– Si appiccano – rispose il portoghese, continuando a fumare.

– Ricordatevi del capitano John Foster.

– Ho già marcato il vostro nome. —

Il comandante si morse le pugna, poi volse bruscamente le spalle bestemmiando.

Raggiunse la scala e si fermò ancora un istante per urlare contro Yanez impassibile:

– Ladro! tre volte ladro! —

La risposta fu un’ironica risata.

Le scialuppe ben cariche di passeggeri si allontanavano frettolosamente, tentando di raggiungere l’isola di Mangalum, la quale non distava più d’una quindicina di miglia verso levante.

– È pronto tutto? – gridò Yanez imboccando il porta-voce della sala macchine. – Salite subito ed accendete la miccia. —

Un momento dopo quattro uomini s’arrampicavano lestamente su per la scala di ferro e si slanciavano in coperta.

– Presto, capitano, brucia! – disse uno dei quattro.

– In ritirata!– comandò Yanez.

Lo yacht si trovava sempre ormeggiato contro la scala di babordo ed aveva i fuochi accesi.

I trenta malesi ed il loro capo salirono a bordo.

La sirena lanciò un fischio acuto e la piccola nave s’allontanò passando fra i prahos i quali avevano allargate le loro linee.

Il grosso piroscafo abbandonato a sé stesso, sempre pieno di luce, fluttuava lentamente, scotendo le catene delle àncore.

Yanez aveva fatto arrestare il suo yacht a cinquecento metri e si era collocato a poppa, per non perdere nulla dello spettacolo.

Accanto a lui era comparso un vecchio malese, tutto rugoso, coi capelli completamente bianchi.

– È guerra questa? – chiese Yanez al vecchio.

– Cominciamo bene, signore. Io per altro avrei conservato quella bella nave.

– E che cosa ne avrei potuto fare? In qualunque porto io l’avessi condotta mi avrebbero arrestato, perciò preferisco distruggere tutto.

Mi accusino pure i passeggeri, se lo vorranno: non li temo.

È solamente da quel John Foster che può giungere il pericolo, ma noi saremo a Varauni ben prima di lui se… —

Un lampo accecante squarciò in quel momento la nave, seguìto da un rimbombo assordante.

Il barile era scoppiato e la nave affondava.

Per alcuni istanti una pioggia di rottami cadde sul mare, per un giro larghissimo, poi la massa che beveva acqua in quantità enorme dai suoi fianchi squarciati, affondò da poppa, alzando la prora come una lama mostruosa.

Rimase un momento in quella posizione, poi affondò rapidamente, formando un gran gorgo.

– Assestiamo ora i nostri affari, caro Sambigliong. In questo momento io non ho bisogno della flottiglia che hai assoldata, quindi per ora puoi metterla al sicuro nella baia d’Ambong.

Se le cannoniere inglesi od olandesi la incontrano, non la lasceranno tranquilla ed io ci tengo ad aver sotto mano questi legni.

– E come farete a trasmettermi i vostri ordini?

– Manderai a Varauni il praho di Padar, che è il più leggero e il più rapido e che ha l’aspetto d’un onesto veliero.

Di Mompracem in questo momento non occuparti. Non è ancora suonata l’ora di prenderla d’assalto; e poi agirà ora più la diplomazia che la forza.

– Avete null’altro da dirmi, signor Yanez?

– Cerca di guardarti dalle cannoniere e di non lasciare la barca senza mio ordine.

– E Sandokan?

– Veglia sulle frontiere del Sultanato insieme coi suoi dayachi ed è pronto a varcare le montagne di Cristalli.

Metteremo il Sultano fra due fuochi e giacché gl’inglesi hanno commessa la sciocchezza di cedergli Mompracem, avrà da fare con noi.

Parti, Sambigliong: ho fretta di rivedere Varauni dopo tanti anni. —

Fu calata in mare una scialuppa ed il vecchio fu trasbordato sul veliero più grosso.

I capi, avvertiti degli ordini dati da Yanez, fecero spiegare quanta tela avevano, essendo il vento favorevole e dopo dieci minuti s’allontanavano verso il settentrione per rifugiarsi ad Ambong.

Sul posto non era rimasto che il praho di Padar, un magnifico veliero lungo e sottile come una feluca, che con una buona brezza poteva ridersene anche delle cannoniere-tartarughe che l’Olanda e l’Inghilterra andavano laggiù per impedire, sempre con scarso profitto, la pirateria.

– Forza in macchina! – gridò Yanez.

Lo yacht balzò sulle onde come un puro sangue che per la prima volta sente lo sprone del cavaliere, e si slanciò verso il sud-est, lasciandosi dietro una superba scia fosforescente, in mezzo alla quale le belle meduse, simili a globi di luce elettrica, danzavano.

Il piccolo praho si era pure messo in corsa, scivolando silenziosamente sulle acque illuminate.

– Benissimo! – disse Yanez quando la flottigla non fu più visibile. – Non credevo che i nostri affari cominciassero così bene.

Andiamo a scambiare due parole con quel caro Sir William Hardel.

Sarà certamente di pessimo umore: ho però del thè da offrirgli e si calmerà.-

Prese un canocchiale, che in quel momento un malese aveva portato in coperta e lo puntò verso tutte le direzioni.

Nulla: solo il gran mare d’argento, senza una macchia oscura che potesse far sospettare la presenza d’una cannoniera o d’un incrociatore.

– La fortuna sorride sempre agli antichi pirati di Mompracem – mormorò. – Ma mi sono imbarcato in un’avventura che non so dove finirà, poiché gl’inglesi di Labuan non mancheranno di appoggiare il sultano.

D’altronde che cosa può fare un principe consorte alla corte dei rajah d’Assam? Far saltare sulle mie ginocchia mio figlio per farmi ridere dietro da quei grandi nababbi maleducati e invidiosi?

Surama d’altronde sa che io sono un uomo d’azione, incapace quindi di addormentarmi fra i profumi ed i balli delle bajadere.

Ehi, cuoco, è pronto il thè?

– Si, signor Yanez, – rispose il cuciniere, avanzandosi con un gran vassoio d’argento cesellato e relativo servizio di chicchere, di terrine e di zuccheriere.

– Allora seguimi: andiamo ad addomesticare John Bull. —

Scese la scaletta ed entrò nel quadro, ammobiliato con molto buon gusto ed attraversato il salotto, ampio, spazioso e bene illuminato, aprì la porta d’una cabina segnata col numero 3. Due malesi vegliavano coi parangs in mano e le carabine in ispalla, pronti a mandare all’altro mondo il disgraziato ambasciatore, se avesse tentata la fuga.

– Buon giorno, Sir William, – disse famigliarmente Yanez entrando.

La risposta fu un urlo da belva.

Il portoghese lo guardò con finto stupore.

– I miei uomini vi hanno usata qualche scortesia per ritrovarvi così eccitato? Parlate ed io li farò fucilare.

– È voi che io vorrei far fucilare, canaglia!

– Forse le palle che devono togliermi dalla terra non sono ancora state fuse – rispose Yanez alzando le spalle.

Su via calmatevi, Sir William, e prendete il thè con me, un thè squisito, perché io uso solo quello che i cinesi chiamano polvere di cannone.

– Andate al diavolo! – urlò l’inglese.

– Vi calmerà i nervi: voi, come inglese, lo dovete sapere meglio di tutti gli altri.

– Bevetevelo voi, il vostro thè; e poi io non mi fido.

– Mi credereste capace di avvelenarvi?

– Dopo quello che avete fatto, io vi credo capace di assassinare freddamente un gentiluomo.

– Voi non mi conoscete.

– Molti anni or sono s’è parlato a lungo su questi mari di due audaci malandrini, che si facevano chiamare, uno la Tigre della Malesia e l’altro il signor Yanez de Gomera.

– Io non sono mai stato né l’uno, né l’altro.

– Eppure dal capitano del piroscafo ho udito pronunciare il vostro nome e Domeneddio mi ha dato due buoni orecchi per udire.

– Perfino troppo larghi! – stava per aggiungere Yanez insolentemente.

Ma si trattenne a tempo per non far uscire completamente dai gangheri il discendente di John Bull.

Prese una sedia e si sedette dinanzi al tavolino, su cui fumava il thè, spandendo un delizioso profumo.

– Sir William, fatemi compagnia – disse il portoghese.

L’ambasciatore, che fiutava avidamente l’aroma della bevanda preferita dagli inglesi, increspando di quando in quando il naso come un gatto in collera, non seppe più resistere alla tentazione.

– Berrete anche voi con me? – chiese.

– Sarò anzi il primo, se ciò non vi farà dispiacere. Così sarete completamente al sicuro da un avvelenamento che io non ho mai sognato. —

L’inglese, che non poteva più resistere, prese a sua volta una sedia e si mise in faccia a Yanez con un gomito appoggiato sul tavolino.

Prese la tazza che il portoghese gli porgeva e la vuotò tutta d’un fiato, a rischio di bruciarsi la gola.

La bevanda cinese produsse in quel momento sull’ambasciatore l’effetto contrario di calmare i suoi nervi, poiché si rizzò di colpo picchiando un terribile pugno sul tavolo e urlando:

– Ed ora mi spiegherete che cosa volete fare di me, malandrino!

– Vi ho già detto dieci volte che io sono un rajah indiano. Come chiamo voi Sir, chiamate me Altezza.

– Quando sarete appiccato.

– Allora aspetterete un bel po’, Sir William.

– Ho della pazienza da vendere.

 

– Aspettereste troppo, Sir.

– Insomma volete dirmi perché mi avete fatto rapire da quel piroscafo? Che intenzioni avete voi a mio riguardo? —

Yanez aprì tranquillamente il suo astuccio, sempre pieno di sigarette e lo porse all’inglese, dicendogli:

– Dopo il thè una buona sigaretta fa bene.

– E vi sarà dentro probabilmente qualche narcotico.

– Scegliete a vostro piacimento la mia e la vostra: così sarete perfettamente sicuro.

– Se fossi un cattolico, vi crederei il diavolo – disse Sir William dopo d’aver aspirato qualche boccata.

– Non ho tanto onore – rispose Yanez ridendo.

– Allora spiegatevi.

– Subito, signor ambasciatore.

Come vi ho detto io sono un rajah indiano e non sono mai stato capace di poter ottenere nemmeno un semplice console, che vegliasse sull’andamento del mio Stato.

Avendo appreso, per una strana combinazione, che l’Inghilterra mandava nientemeno che un ambasciatore a quell’imbecille di Sultano, vi ho portato via.

– E che cosa farete di me?

– Vi condurrò in India, dove vi offrirò un posto principesco alla mia corte, con dodicimila rupie all’anno.

Siete contento, Sir William?

– Credo ben poco alle vostre parole.

– Allora non parliamone più.

– Io so che mi trovo prigioniero, mentre dovrei esser libero.

– Mi avete detto poco fa che avete della pazienza da vendere: aspettate dunque, Sir William.

– Che cosa? Qualche morte violenta?

Yanez si era alzato.

Dai sabordi bene sprangati di ferri entravano le prime luci dell’alba.

– Sir William, – disse – sarà meglio che prendiate un poco di riposo. Spero di rivedervi più tardi. —

Si toccò colla destra l’orlo del sombrero, senza che l’inglese si degnasse di rispondere ed uscì dalla cabina, mentre i due malesi riprendevano il loro posto dinanzi alla porta.

3. Uno spettacolo selvaggio

Quarant’otto ore più tardi lo yacht, sempre seguìto a breve distanza dal praho di Padar, entrava a tutto vapore nell’ampia baia di Varauni o di Brunei colla bandiera inglese inalberata sulla maestra.

Varauni è la Venezia delle isole della Sonda, perché costruita su palizzate e tagliata da un gran numero di ponti di bambù di aspetto pittoresco.

È una graziosa cittadina di diecimila abitanti, che talvolta salgono a quindici, con pochi palazzi di stile arabo-indiano, abitati per lo più dai ministri e dai grandi della Corte.

D’interessante ha quello del Sultano, con vari ordini di logge tutte di marmo bianco scolpito e vaste terrazze e giardini e giardini splendidi, dove passeggiano le sue duecento mogli.

La vecchia batteria del forte di Batar, vedendo la bandiera inglese sventolare sulla maestra dello yacht, sparò due colpi coi suoi vecchi cannoni di ferro, i quali fortunatamente non scoppiarono.

Era il saluto che dava alla nave.

Un momento dopo lo yacht rispondeva con altri due colpi e dopo d’avere sfilato in mezzo a due fitti ranghi di prahos e di giongs, si ancorò ad una delle boe riservate alle navi a vapore, attendendo che l’ufficiale di porto facesse la sua visita.

Il praho di Padar intanto aveva continuata la sua marcia per ancorarsi presso le calate.

Non erano trascorsi dieci minuti, quando una barca coi bordi dorati ed i remi scolpiti e montata da un personaggio importante, a giudicarlo dalla ricchezza del suo sarong e dalla mole del suo turbante, e spinta da otto robusti rematori, abbordò lo yacht.

La scala fu subito abbassata ed il funzionario del sultano salì a bordo, nel medesimo tempo che Yanez compariva con una fiammante giacca rossa ad alamari d’oro, calzoni bianchi, stivali alla scudiera, un elmo di tela sul capo circondato da un nastro azzurro.

In una mano teneva il pacco delle credenziali.

– Chi siete? – chiese, muovendo incontro al bornese.

– Il segretario particolare di S. M. il Sultano del Borneo.

– E perché siete venuto voi invece dell’ufficiale di porto?

– Per portare più presto all’ambasciatore che la grande Inghilterra ci ha destinato, i saluti del mio signore.

– Chi vi ha detto che io sarei giunto oggi?

– Vi attendevamo da parecchi giorni, milord; e vedendo entrare il vostro yacht colla bandiera inglese, ci siamo subito immaginati che voi dovevate trovarvi qui.

– A che ora potrò presentare al Sultano le mie credenziali ed i miei omaggi?

– Vi riceverà, milord, nell’aloun-aloun, dove oggi avremo uno splendido combattimento fra tori selvatici e tigri.

– Volete far colazione con me?

– No, milord: il mio Signore mi aspetta con impazienza, e la mia testa potrebbe correre qualche pericolo.

– Chi verrà a prendermi?

– Io, milord.

– Potete andare. —

Il segretario fece un profondo inchino e ridiscese nella barca, mentre Yanez si volgeva verso un dayaco di statura quasi gigantesca, chiedendogli:

– Tu conosci la città, Mati?

– Come il vostro yacht, padrone.

– Io ti apro un credito illimitato, affinché tu mi acquisti prima di questa sera qualche palazzotto, ove possa dare delle feste e dei ricevimenti.

– M’incarico io, padrone.

– Allora possiamo far colazione – concluse Yanez.

Due barche, cariche di frutta d’ogni specie: banane, noci di cocco, durion, mangostani ecc. erano in quel momento giunte.

Venivano da parte del Sultano, al quale premeva di tenersi caro l’ambasciatore del potente leopardo inglese.

Stavano per allontanarsi, dopo d’aver scaricato, quando un grido colpì i remiganti.

– Help! Help! —

Le due imbarcazioni si erano fermate, e i battellieri guardavano verso i sabordi di poppa. Yanez che aveva pure udito quel grido fece loro un cenno imperioso di allontanarsi.

– Per Giove! – esclamò il portoghese – Questo Sir William minaccia di darmi già dei grattacapi.

Bisogna che dia l’ordine d’ora in poi che nessuna scialuppa si avvicini alla mia nave. —

La tavola era stata preparata sul ponte sotto una tenda. Un buon cuoco indiano aveva preparata una colazione eccellente all’inglese.

Yanez, che non era mai privo di appetito, fece la sua parte d’onore al pasto; poi dopo d’aver sorbita una buona tazza di caffè, andò a sdraiarsi su un seggiolone a dondolo collocato sul castello di prora, in attesa del ritorno del segretario.

La magnifica baia di Varauni si svolgeva dinanzi ai suoi occhi nitidamente e così pure la città, essendo i vari quartieri costruiti in prossimità del mare.

Un gran numero di barche solcava le acque, montate da malesi, da dayachi, da bornesi e da cinesi, i quali si recavano a sbarcare le merci di numerosi velieri schierati in buon ordine di fronte alla città.

Di quando in quando qualche grossa e massiccia giunca cinese, dalla prora quadra e la velatura a stuoie, usciva verso il largo accompagnata da non pochi prahos i quali spiccavano magnificamente, colle loro vele variopinte, sul luminoso orizzonte.

Gli equipaggi cantavano allegramente, lanciando delle note poderose che sfondavano gli orecchi, lieti di tornarsene al mare.

La baia di Varauni non era ormai più quella di una volta.

Nella sua profonda insenatura i pirati si erano radunati in buon numero per dare la caccia ai velieri che passavano al largo o che tentavano di entrare in relazioni amichevoli.

Si ricordano ancora le stragi orrende commesse da quei formidabili predoni del mare che non avevano per capo un Sandokan per frenarli.

Nel 1769 il capitano inglese Padler aveva tentato di ottenere un sicuro asilo dentro la baia, infuriando al di fuori una tempesta spaventevole.

La sera stessa tutto l’equipaggio, compresi gli ufficiali, veniva trucidato a colpi di parangs e di kriss.

Nel 1788 era stata purtroppo la volta d’un altro comandante inglese. Ancoratosi nella baia, vi era stato assalito da centinaia di prahos.

Malgrado la disperata difesa dell’equipaggio, nessun marinaio era stato risparmiato da quei sanguinari predoni.

Nel 1800 fu al capitano Panien che toccò egual sorte. La strage fu completa, e la nave data alle fiamme per levarle le ferramenta e le lastre di rame, e formarne chiodi atti a caricare le loro spingarde.

Fra il 1806, il 1811 e il 1814 la pirateria ebbe un terribile risveglio.

Le navi che entravano nel porto venivano prese d’assalto con ferocia inaudita e poi arse.

Ma una delle più grosse che fecero quei malandrini è la seguente. L’Inghilterra fino dal 1734 aveva stabilita una colonia all’estremità dell’isola di Balembang.

I pirati malesi vi piombano sopra e distruggono ogni cosa, aiutati dai sululiani.

Ben pochi coloni furono quelli che ebbero il tempo di salvarsi a Pulo-Condor, un’isola mezza francese e mezza cinese, che si faceva ancora temere.

Nel 1809 gli scorridori del mare, furibondi di vedere la colonia ristabilita, piombano ancora su Balembang, trucidando inesorabilmente uomini, donne e fanciulli.

Quasi nello stesso tempo un maggiore olandese, certo Maller, che esplorava l’interno del Borneo, veniva barbaramente assassinato dai cacciatori di teste fra le impenetrabili boscaglie di quella grande terra.

La pazienza dell’Inghilterra e dell’Olanda, che aveva fiorenti colonie lungo le coste meridionali ed occidentali dell’isola, era esaurita.

Era tempo di mettervi rimedio.

Le cannoniere vecchie e scarse di velocità incaricate d’impedire la pirateria, giungevano troppo tardi per sorprendere gli agilissimi prahos malesi che filavano col vento.

La finissima diplomazia inglese, d’accordo col governo dell’Aja, aveva avuto, come sempre, un tratto di genio.

Giacché i pirati si professavano, a loro modo, mussulmani convinti, manda a prendere a Mascate un non si sa se vero discendente degli imani o se falso, e lo scaraventa fra quelle tribù di malandrini, col suo bravo turbante verde sul capo, come uno stretto parente del grande Maometto.

Pare impossibile, il Corano fa più effetto dei pezzi delle cannoniere inglesi ed olandesi!

Alla foce del cristallino Varauni, che scende dalle montagne dell’interno, si costruisce una città per ospitare degnamente il figlio del turbante verde, reduce dalla Mecca, che probabilmente non aveva mai veduta.

L’apparenza aveva salvato capra e cavoli. Il primo sultano, sapendo di aver per sudditi dei pirati impenitenti, dapprima aveva tollerato certe scorrerie.

L’impiccagione dell’equipaggio di un praho, che aveva assalito uno yacht di piacere nelle acque di Mangalum, aveva prodotto su quei feroci scorridori una certa impressione.

Il veliero era entrato in porto con grappoli di appiccati, pendenti dai pennoni.

Vi era stata una sosta, ma durata pochissimo. La razza malese è prolifica come i vermi; non coltiva le sue terre d’una fertilità meravigliosa e preferisce montare all’abbordaggio.

Le distruzioni dei velieri continuarono negli anni seguenti, finché il figlio del Sultano, appoggiato dalle cannoniere di Labuan e di Pontianak, aveva posto rimedio ad uno stato di cose intollerabile, che poteva attirargli addosso i fulmini di quelle nazioni europee che avevano laggiù delle colonie.

La punizione era stata terribile. Il figlio del Sultano, sentendosi appoggiato dalle artiglierie degli uomini bianchi, un brutto giorno aveva fatto entrare nella baia una mezza dozzina di velieri pieni di appiccati.

La terribile azione servì.

A poco a poco la pirateria scomparve, tranne che al nord della grande isola bornese, dove i sultanelli si tenevano annidati in fondo alle loro profonde baie coperte di banchi di sabbia che rendevano inaccessibile l’entrata alle cannoniere.

Ad ogni modo quel tratto di energia di Selim-Bargasci-Amparlang, il quale aveva creduto bene di aggiungere un nome malese al suo mussulmano, aveva dato maggiori frutti di prima.

Gli abbordaggi erano cessati e pochissimi se ne contavano nel 1848, quando fu conquistato Labuan da parte degl’inglesi, sempre ferocemente invadenti.

Varauni, come tanti altri porti della Malesia, era diventato un asilo sicuro ai velieri che giungevano dall’Indocina o da Canton o da Calcutta.

Ma quella calma poteva essere più apparente che reale, poiché il malese non può vivere senza montare all’abbordaggio.

La polvere e il lampo dell’acciaio lo inebriano; le grida di guerra e di morte lo entusiasmano al massimo grado.

Un uomo di grande volontà come Yanez avrebbe potuto scatenare un uragano e mettere Varauni a ferro ed a fuoco…

Il cronometro di bordo segnava due ore meno dieci minuti, quando il gigantesco Mati fece la sua comparsa a bordo.

– Dunque? – chiese Yanez.

– Tutto combinato, signore: vi ho preso in affitto una palazzina che somiglia al palazzo del Sultano, ammobiliata tutta in stile cinese.

 

– Quando potrò prenderne possesso?

– Questa sera stessa.

– Chiama il mio chitmudgar. —

Un momento dopo un indiano saliva sul ponte, dicendo:

– Sono ai vostri ordini, Altezza.

– Quando io sarò sbarcato, tu seguirai Mati, visiterai la palazzina che mi ha preso in affitto e preparerai tutto il necessario per dare domani sera una gran festa.

– Sì, Altezza. Nient’altro? —

Yanez non rispose. Aveva veduto staccarsi dalla riva la barca dipinta in rosso colle bordature d’oro, montata da dodici remiganti e dal segretario del Sultano.

Aprì una borsetta e levò diversi superbi gioielli.

– Qui vi è da accontentare una mezza dozzina di favorite – mormorò. – Questa spedizione costerà cara, ma siamo sempre ricchi e poi la corona dell’Assam non l’ho ancora impegnata. —

La barca si avanzava rapidissima. I dodici battellieri si accompagnavano in cadenza col remo una selvaggia canzone.

Giunse in un lampo sotto la scala, ormeggiandosi, ed il segretario salì a bordo, dicendo:

– Milord, il Sultano vi aspetta all’aloun-aloun ed è molto impaziente di vedervi.

– Veramente avrebbe potuto offrirmi un ricevimento ufficiale nel suo palazzo – rispose Yanez freddamente.

– Ormai lo spettacolo non si poteva rimandare, senza provocare, da parte della popolazione, dei disordini.

– Partiamo. —

Scese nella scialuppa, salutato dai battellieri da un urlo selvaggio identico a quello che usavano cento od anche cinquant’anni prima, quando si scagliavano all’abbordaggio e si sedette a fianco del segretario, il quale teneva il timone.

Sulla gettata una folla considerevole, composta di burghisi, di macassaresi, bornesi, malesi, dayachi, cinesi e negritos, si era radunata attorno ad un carro tutto dipinto in verde, con una cupoletta dorata sostenuta da sei colonnette e trascinato da due zebù, specie di buoi di piccola taglia, con molta gobba e che sono buonissimi corridori.

La curiosità di vedere il nuovo ambasciatore aveva trattenuto ancora sulle gettate molte persone, quantunque lo spettacolo dell’aloun-aloun, tanto caro a quelle popolazioni di istinti sanguinari, fosse imminente.

Yanez sbarcò a terra preceduto dal segretario, degnandosi appena di salutare i presenti collo stik di cui si era munito e salì tranquillamente sul carro, sedendosi su un larghissimo cuscino di seta cremisi con fiocchi d’oro.

Il cocchiere, un giovane malese, torse subito ferocemente la coda ai due animali, i quali partirono a corsa sfrenata, con grande pericolo di rompere le gambe ai viandanti, i quali erano costretti a gettarsi, alla lettera, dentro i negozi o dentro le case, senza osare di muovere alcuna protesta, poiché sapevano bene che il Sultano sarebbe stato inesorabile e delle teste ne avrebbe fatte tagliare senza nemmeno contarle.

Dopo dieci minuti di corsa rapidissima, attraverso vie sfondate e polverose, fiancheggiate per lo più da casolari malesi e dayachi, il carro giungeva sul luogo ove stava per svolgersi il grande spettacolo.

In una vasta prateria si ergeva una specie di anfiteatro, ma formato esclusivamente di canne bambù, le quali erano state intrecciate in forma di gabbia per impedire che le tigri si portassero via gli spettatori.

Migliaia e migliaia di persone, prementi, impazienti, avevano occupato tutte le gradinate, facendo un chiasso infernale.

In una piattaforma, abbellita da tappeti e da festoni di seta verde, insegna del potere, stava il Sultano del Borneo S. A. Selim-Bargasci-Amparlang.

Il signore del Borneo, come tutti i sultanelli delle isole Indomalesi, non era già un gigante e non aveva affatto un aspetto guerresco. Era un cosettino smilzo, color del pane bigio, cogli occhietti brillantissimi ed un po’ di barba al mento che cominciava già a brizzolarsi.

Indossava una lunga tunica di seta verde ricamata in oro, e portava sul capo un turbante di dimensioni monumentali.

Poteva tenersi per altro ben sicuro, poiché dietro di lui, altre ad un gran numero di malesi e dayachi, stavano ritti cento rajaputi indiani, sempre pronti ad un suo cenno a portare lo spavento nella capitale.

Yanez salì una scala coperta da un ricco tappeto persiano, giunto laggiù chi sa in seguito a quali vicende, e si presentò al Sultano, toccandosi appena con un dito la tesa dell’elmo, come si conveniva al rappresentante di una nazione così potente, da mangiarsi tutto il sultanato in ventiquattro ore.

– Siate il benvenuto alla mia corte! – gli disse il Sultano. – Il vostro arrivo mi era già stato annunciato.

Dubitavo che vi fosse toccato qualche spiacevole accidente. Sapete bene che i mari nostri, per quanto io faccia, non sono mai sicuri.

– Sono giunto col mio yacht, Altezza, – rispose Yanez – e la mia nave porta sempre dei buoni pezzi di cannone capaci di contrabbattere vantaggiosamente tutte le spingarde, i lilà ed i mirim dei pirati.

– Sedetevi presso di me, milord, non si aspettava che voi per cominciare lo spettacolo.

Se siete stato in India, ne avete veduti altri simili.

– E molti, Altezza.

– Ma io vi offrirò qualche cosa di più interessante: una battaglia di lanceri fra le tigri.

Abbiamo fatto molte grosse battute tutta la settimana scorsa e siamo ben provvisti di animali.

– Questi spettacoli sono sempre assai emozionanti e si vedono volentieri.

– Volete che dia il segnale? Tutto è pronto. —

Il Sultano alzò un braccio.

Tosto si udirono tre squilli sonori di tromba, i quali ottennero dalla parte degli spettatori un profondissimo silenzio.

Da un capannone costruito all’estremità del grandioso recinto si slanciò sull’arena un magnifico toro tutto nero, di forme vigorose, colla fronte ampia e le corna incurvate in avanti.

Doveva essere una bestia selvaggia, presa da poco nel fondo di qualche fossa, poiché aveva ancora gli occhi iniettati di sangue per la lunga prigionìa.

Appena fatta una corsa furiosa di quindici o venti passi, si arrestò di colpo fiutando l’aria, sferzandosi i fianchi colla coda e mandando dei sordi ed impressionanti muggiti.

Il povero animale sentiva certamente il pericolo.

Altri tre squilli echeggiarono e da un’altra capanna situata quasi sotto il palco del Sultano, si slanciò fuori una tigre, annunciandosi con un a-ou-ug che fece sussultare il toro.

Non era una di quelle magnifiche tigri reali che si trovano solamente nel Bengala.

Quelle che popolano le isole del mar della Sonda sono più basse di zampe, più tozze; ma non sono meno ardite delle altre.

La belva, che doveva aver capito di che cosa si trattava, invece di muovere direttamente contro l’avversario che l’aspettava ben piantato sulle zampe e colla testa bassa, si accovacciò al suolo lanciando un secondo a-ou-ug non meno impressionante del primo.

Urla feroci partivano dai dieci o quindicimila spettatori.

– Paurosa!

– Il toro ti guata!

– Saltagli addosso e provati a mangiarlo, se sei capace. —

La tigre riceveva filosoficamente le più atroci ingiurie e si guardava bene dall’assalire il poderoso avversario, il quale invece cominciava a dare segni d’impazienza.

– Attento, milord – disse il Sultano cacciandosi fra i denti, neri come i chiodi di garofano, un miscuglio d’areca, di betel e di calce viva. – Lo spettacolo diventerà interessante.

– Mi pare per altro che la tigre abbia poca premura di provare le corna del toro – rispose Yanez.

– Al momento opportuno assalirà, ve lo dico io. Guardate! Guardate! —

Non era la tigre che muoveva all’attacco bensì il toro, il quale pareva che fosse impaziente di finirla.

Fece a corsa sfrenata due volte il giro del recinto, sollevando un nuvolone di polvere, poi si arrestò dietro la belva, obbligandola a cambiar fronte.

Le grida e le invettive erano cessate. Tutti gli spettatori, in piedi sui banchi, assistevano all’impressionante lotta, senza quasi più respirare.

Il toro s’incolleriva.

Batté parecchie volte i larghi zoccoli, come per provocare uno scatto da parte dell’avversario, poi non avendo ottenuto alcun effetto, caricò all’impazzata colla testa quasi rasente al suolo.

La tigre, sorpresa nell’agguato, spiccò quattro o cinque salti, poi con una magnifica volata piombò fra le corna dell’avversario, mordendogli ferocemente la testa e strappandogli le spalle.

Il povero animale che perdeva sangue in gran copia, era partito a galoppo furioso, tentando di schiacciare la belva contro le palizzate del recinto.

Un nuvolone di polvere li aveva avvolti, togliendoli agli occhi degli spettatori, i quali apparivano in preda ad un entusiasmo veramente delirante.

Compì due volte il giro dell’aloun-aloun, poi si arrestò bruscamente sotto il palco reale e con una scossa irresistibile scagliò in aria l’avversario.