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La tigre della Malesia

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CAPITOLO XXI. Attraverso le foreste

Era tanto lo spavento e la sorpresa causati dal crepitìo della stufa che ruinava e dalla improvvisa comparsa del terribile pirata e del suo compagno, che questi, prima ancora che i soldati potessero riaversi, por mano alle armi e inseguirli, facendo salti da tigri, precipitandosi da un lato all’altro del sentiero e cacciandosi dietro gli alberi e i cespugli per evitare le palle, avevano di già varcato le palizzate del parco e si erano messi fuori di portata.

Avevano ritrovato le loro gambe da cervi e senza badare agli squilli di tromba che segnalavano la loro fuga e alle detonazioni inutili si gettarono sul primo sentiero che si parò loro innanzi, passando rapidi in mezzo ai cespugli, alle piante e agli alberi sradicati dall’uragano, varcando ruscelli e stagni, intenti a far perdere le tracce con frequenti ascensioni sui rami e manovre da scimie sui rotang che tenevano luogo di liane, e a mettere una notevole distanza fra essi e il nemico che doveva essersi lanciato dietro.

La tromba che risuonava sempre fragorosamente nel parco e le detonazioni che si seguivano a rapidi intervalli, bastavano per dare le ali ai piedi. Quei segnali dovevano essere intesi dai cacciatori, e poteva darsi che più tardi avessero alle spalle il grosso della truppa: bisognava guadagnar tempo finché ne rimaneva.

La fantastica corsa durò un’ora senza che l’uno né l’altro parlasse di arrestarsi, sempre internandosi nel più fitto dei boschi dove i passaggi diventavano difficili, poi rallentarono la fuga, dopo di aver percorso una distanza che Sandokan non stimò inferiore a quattro miglia. Un cavallo stesso non ne avrebbe fatto di più, e cominciarono allora a prendere quelle precauzioni che esige una fuga in mezzo al nemico che poteva improvvisamente sorgere dietro a ogni cespuglio, a ogni albero o in mezzo alle erbe, abbastanza alte per nasconderlo.

Ripigliarono fiato per un minuto, senza scambiar una parola per non consumare le forze così preziose in quei pericolosi momenti, poi gettate le carabine ad armacollo che diventavano di grave impaccio, si misero a trottare cercando di fare il menomo rumore possibile, cacciandosi fra tronchi d’albero così uniti dove sarebbe penata a passare una tigre, e continuando le evoluzioni aeree che diventavano ogni istante più indispensabili.

Man mano che si allontanavano dal parco, la foresta ripigliava la foltezza che caratterizza le foreste tropicali, dove riesce sommamente difficile trovare un sentiero e meno ancora radure, che scompaiono in breve tempo sotto l’invasione dei vegetali.

Dappertutto alberi e alberi riuniti, mescolati confusamente, gli uni alti, lisci, enormi, gli altri nodosi, contorti, bassi, che univano reciprocamente i loro rami e intrecciavano le frondi. Dappertutto fitti cespugli, incassati, stretti, fra quei bizzarri colonnati, dappertutto radici che potevansi scambiare a prima vista con giganteschi boa-constrictor, che sbarravano la via rasente terra, che s’incrociavano in mille guise, alcune descrivendo archi che un geometra non vi avrebbe trovato di che dire sulla loro esattezza, altre descrivendo spirali o serpentine o angoli, e in mezzo alle quali vagavano formiche verdi o nere di sproporzionata grandezza e con mandibole di ferro.

Una vera rete poi allacciava stretta stretta e cespugli e alberi e radici, formata da rotang calamus appartenenti alla famiglia delle palme, che si prolungano per più di cento metri, da gambir uncaria altri arrampicanti sproporzionati e preziosissimi, e da piper nigrum allo stato selvatico sulle cime dei quali urlavano battaglioni di feroci scimiotti.

I due pirati, in mezzo a quella fitta foresta che poteva chiamarsi ancora vergine, dovettero abbandonare la marcia a piedi per cominciare la marcia aerea. Aggrappandosi a tutti quei fili di rete, cominciarono la scalata con una sveltezza e agilità da invidiare le scimie, raggiungendo le più alte cime degli alberi, scendendo e poi tornando a risalire, moltiplicando così gli ostacoli per gli inseguitori, che certamente non sarebbero stati capaci di trovarli in quella porzione di foresta così intricata.

Percorsi un cinque o seicento passi, dopo di aver venti volte arrischiato di cadere da altezze che mettevano le vertigini, si arrestarono affranti in mezzo ai rami di un buà màmplam, le cui frutta, quantunque detestabili pei palati europei a causa del loro forte sapore di resina, potevano servir a loro di cibo, e che colle fibre di rotang saldamente intrecciate potevano a loro servire di amache comodissime e fresche.

– Di’ ora – disse Sandokan quando si fu accomodato – che gli Inglesi ci vengano a trovare. Sfido tutti i loro dannati cani a venirci scovare.

– Sfido io! – esclamò il Portoghese al quale pareva ancora un sogno di essere riuscito a svignarsela dal parco. – Sai, fratello mio, che noi siamo proprio fortunati? Trovarci in una stufa con una giacca rossa, venire scoperti e prendere il volo sotto il tiro di mezza dozzina di carabine, tutto ciò ha dell’incomprensibile. Ma dunque, hanno proprio tanta paura della Tigre?

– Bisogna crederlo e se vuoi, Yanez, un po’ troppo paura per eguagliarmi a uno spirito che succia sangue e che tiene relazioni collo spirito del male – disse Sandokan che rideva ancora sui discorsi degli Inglesi. – Non avrei mai creduto di mettere tanto spavento colla mia sola comparsa a degli uomini bianchi. Orsù, io son decisamente la Tigre, fino a che rimarrò solo e non manco di fortuna. Quando penso che mi hanno precipitato da una fenestra perché mi fratturassi le gambe, che sono sfuggito alle loro moschettate e che mi sono cacciato in una stufa per prendere il largo quando si preparavano ad assediarmi, incomincio a credere d’essere uno spirito.

– E io sarò il primo a crederlo, Sandokan, come lo credono le giacche rosse, che si sono lasciate sfuggire una sì bella occasione per guadagnare le mille sterline. Una bella somma, in fede mia, che non si ha torto di spendere per catturare un uomo della tua fatta, che si reca ad abboccamenti malgrado una cinquantina di carabine messe là per ispiarlo. Tu hai giuocato una magica carta, amico mio, coll’abilità di un giuocatore provetto. A proposito, che ne sarà mai della tua giovanetta? Vedi, colla tua audacia, hai accresciuti i timori da parte di essi e specialmente del lord che non si lascierà cogliere alla sprovveduta, e che circonderà ben bene di baionette la villa, se non gli salta in capo la malaugurata idea di prendere alla sua volta il largo e di fuggirsene a Vittoria.

– Lo credi tu, Yanez? – domandò il pirata che si fece cupo in volto e che rompeva convulsivamente i ramoscelli.

– Sicuro, potrebbe darsi che il valente uomo per precauzione vada a nascondere la graziosa nepote nel centro della colonia, sotto i cannoni del fortino e dei piroscafi. La cosa diverrebbe estremamente seria e cento volte più pericolosa.

– Pericolosa? Sia, giacché tu lo vuoi, ma non estremamente seria, poiché andrei a rapirla anche a Sarawak sotto i soldati di James Brooke. Ascoltami, Yanez, io sono tanto risoluto, che affronterei le forze riunite di Labuan, Sarawak e Varauni purché farla mia, e senza esitare un sol istante.

«Nessun ostacolo sarà tanto grande da arrestare la passione che arde nel mio cuore. Se occorre, arrischierò non solo le sorti di Mompracem ma anche la vita dei miei pirati.

– È cosa vecchia, amico mio, e la malattia non si vincerà che colla giovanetta. Ma hai calcolato, Sandokan, che noi a Labuan non abbiamo che quaranta uomini o sessanta se vuoi che mi tenga assai largo, e che a Mompracem non ve ne resta che un centinaio al più? Con simili forze non si sfida la potenza di Sarawak.

– Oggi, ma domani, da qui una settimana, un mese, due anche, si potrebbe sfidarla. Nella Malesia vi sono cento e cento tribù piratesche che proseguono il lavoro sanguinoso e distruttore da secoli; vi sono più di cinquemila tigri che conoscono la fama della Tigre della Malesia e che mi seguirebbero assieme a tutti i Dayacchi di Borneo, purché alzassi la voce promettendo oro agli uni e teste da sospendere come trofei alle loro capanne agli altri.

– Lo so, Sandokan, e la malattia che ti rode sarebbe capace di farti tentare anche questo mezzo terribile, e tentarne di maggiori. Del resto vedremo come andranno le cose prima, e se il lord penserà a prendere il largo. Sono supposizioni mie quelle che esposi e nulla di più. Se è vero che la giovanetta possiede quell’energia di cui mi hai parlato, non so se si lascierà sì facilmente portar via, sapendo che tu vegli e che aspetti l’arrivo dei tuoi uomini per liberarla.

– Sì, essa possiede tanta energia da pareggiarsi su questo punto forse alla Tigre della Malesia. Sono sicuro che, se fosse libera, tenterebbe la fuga e si caccerebbe nelle foreste malgrado le tigri e gl’indigeni. Oh!… Ma non vi starà a lungo fra le unghie di quel sinistro vecchio, che vorrebbe gettarla fra le braccia del dannato William. No, per Allah! Non vi rimarrà a lungo.

– Sogni tu, di già, di dare bravamente la scalata alla fenestra?

– E perché no? – disse con violenza Sandokan rizzandosi a metà sull’oscillante amaca.

– Uhm! – fe’ il Portoghese. – Credi tu che i nostri tigrotti sieno lì ad aspettarti? Non dimenticare che siamo in piena foresta.

– Andremo a trovarli al fiumicello.

– Tu corri come un piroscafo, Sandokan. Non hai pensato che il nemico ci cerca e che potrebbe sorprenderci?

– Bah! Due colpi di carabina saranno sufficienti per metterli in fuga. Io me ne rido di questo nemico. Vorrei un po’ vedere se sarebbe capace di trovarci. Gl’Inglesi, Yanez, non sono fatti per cercare le piste, né per girare su terre che non conoscono che sulle loro carte scarabocchiate, che chiamano geografiche. Un uomo dei boschi può passare sotto il loro naso, dondolarsi sopra le loro teste e scomparire senza che loro l’abbiano a vedere.

 

– Mi fido molto poco, Sandokan, delle tue parole.

– Hai torto. Ne vuoi una prova?

– Una prova? Che vorresti far tu?

– Passare in mezzo alle loro carabine e raggiungere i prahos senza che se ne accorgano.

– Tu ti cacci in un ginepraio. Hai troppa fretta per tentare l’attacco della villa, che si dovrebbe fare senza troppo rumore e con un mondo di precauzioni.

– Non ho fretta, ma seguo il destino che mi guida. Io leggo nel libro dell’avvenire.

– E credi tu di veder del chiaro nel libro dell’avvenire? – chiese Yanez, crollando il capo come uomo che creda assai poco.

– No, al di là del chiaro vedo oscuro, vedo delle tenebre fitte, fitte, più nere di quelle che io abbia mai veduto in vita mia, ma nel fondo vedo una stella, Yanez, vedo un punto luminoso che brilla più vivo che mai.

– Ti crederò.

– Ne dubiti?

– Chi sa. Forse credo del tutto.

– Ebbene vieni allora, andiamo a passare in mezzo alle carabine delle giacche rosse.

– Tu vuoi commettere qualche pazzia. Restiamo in questo nostro nido giacché abbiamo avuto la fortuna di trovarlo e lascia che le giacche rosse si allontanino.

– Non commetterò pazzie; vieni, Yanez! Prima che il sole sia del tutto tramontato noi giungeremo sulle rive del fiumicello. Non si ode rumore alcuno, la foresta è fitta, abbiamo le nostre armi e sappiamo strisciare come serpenti. Di chi puoi aver paura?

Il Portoghese, quantunque avesse le sue paure, curioso da una parte di sapere qualche cosa sui prahos si arrese. Dissetatisi col succo buà màmplam che sapeva maledettamente di resina, s’aggrapparono ai rotang e ai gambir uncaria che serravano l’albero e si calarono fino a terra.

Il bello era uscire da quella foresta e guadagnare il fiumicello. Sandokan stesso si trovava smarrito e non sapeva qual via prendere.

– Io credo che noi ci troviamo in bell’impiccio, Sandokan – disse Yanez che non era capace di vedere nemmeno il sole per potersi orientare. – Da qual parte si andrà?

– Ti confesso, che mi trovo smarrito – rispose Sandokan. – Ma presto o tardi usciremo di qua e troveremo il fiume. Ecco qua un passaggio che una volta deve essere stato un sentiero. Le piante lo hanno coperto e sono sì unite da non lasciar passare un piccolo babirussa, ma passeremo con un po’ di pazienza. Orsù, andiamo avanti, e bada bene di non schiacciare la coda di qualche serpente e di prepararti a fare delle ascensioni meravigliose.

– Avanti allora!

I due pirati si cacciarono come due serpenti in mezzo alle piante, cercando seguire il sentiero tagliato ogni istante da lunghe liane rampicanti e da immense ragnatele dal grosso filo setoso, procedendo ora coll’occhio rivolto a terra per non incespicare nelle radici o per non calpestare incautamente qualche velenoso rettile e ora rivolto sugli alberi per non ricevere sulla testa qualche frutto pericoloso, e movendo con precauzione i rami e le foglie per non destar all’armi. Ben presto ripresero le salite sui rotang o sui gambir, mettendo in fuga o irritando i semnopithecus maurus, scimie dal pelame nero e dalla coda lunga, chiamate comunemente in Malesia bigit, le quali, facendo ridicole smorfie e salti con una destrezza meravigliosa, vedendo turbati i loro recessi, si vendicavano scagliando frutta e ramoscelli sui due intrusi.

Camminando così a casaccio, mettendo in fuga colle loro ardite manovre di clown nubi di uccelli che aveano piantato in mezzo a quei fitti alberi i loro nidi sicuri che nessun essere umano sarebbe giunto sin là e calpestando qualche serpentello o qualche dozzina di sanguisughe dei boschi, i due pirati poterono uscire da quell’imbroglio dopo qualche ora e raggiungere un torrentello che pareva segnare la fine di quella gigantesca macchia. Al di là estendevasi una radura verdeggiante, solcata da fiorellini di vari colori, circondata da boschi ma meno fitti, dove si poteva camminare più rapidamente

e forse con meno pericolo. Fecero una sosta dissetandosi nelle fresche acque e discutendo sulla via da tenersi.

Sandokan non tardò a orizzontarsi dopo di aver osservato attentamente i dintorni dei quali conservava un vago ricordo.

– Io devo esser passato di qui – disse egli ritornando presso il Portoghese che, sdraiato sulla riva del torrente, si occupava a masticare dei buà màmplam di miglior sapore dei precedenti. – Ecco qua un’impronta che si adatta a meraviglia alle mie scarpe lasciata su questo terreno umidiccio, ed ecco là sul tronco di quel mango selvatico le traccie di una scalata che devono esser state fatte da me. Sarebbe forse il luogo ove ho atterrato il sergente Willis?

– Mi sembra che questi luoghi ti sieno famigliari, Sandokan. Bada bene a non condurmi in bocca al leone.

Il pirata anziché rispondere si mise a frugare fra le macchie; vide un ramo rotto a terra, poi traccie distinte e delle macchie di sangue ancora visibili sulle erba e sulle radici. Continuò le indagini e non andò a lungo che trovò dei brandelli di stoffa bianca che riconobbe subito per suoi. Egli li mostrò al Portoghese.

– Che diavolo hai trovato tu, fratello mio, che vai osservando tanto quelle striscie come fossi diventato un mercante?

– Le robe mie, Yanez, che hanno servito a legare il povero sergente che hai così bene spacciato sulla porta della villa. Vedi, ecco qua un ramo rotto che mi aveva servito d’appoggio, là delle traccie di sangue che è mio, uscitomi dalla mano appena ferita dalla palla di lui. Il povero uomo se fosse qui se ne ricorderebbe bene anche lui.

– Un luogo propizio per le imboscate, adunque? – disse il Portoghese che si guardò istintivamente all’intorno.

– Forse, ma non ci arresteremo – rispose Sandokan. – Io sì che conosco la via che ho percorso vestito da sergente inglese, una bella truccatura, Yanez, che mi ha aiutato a meraviglia per trarmi d’impiccio facendo viaggiare tutti i soldati nei luoghi ove era impossibile trovarmi; vieni con me che io ti guiderò, se non al fiumicello, almeno alla capanna di Giro Batoë.

– Andiamo, ma non aver furia, Sandokan. Scandagliamo il terreno prima.

Dopo aver ascoltato attentamente e di essersi assicurati che fra le grida dei semnopithecus maurus, le grida dei pappagalli e lo stormir delle foglie agitate dal venticello non udivasi né grida. di cacciatori, né detonazioni di moschetti, attraversato con un salto il torrente, tornarono a cacciarsi sotto gli alberi che andavano diradandosi sensibilmente.

Malgrado che il sole calasse rapido all’occidente e l’oscurità andasse facendosi sempre più fitta nei boschi, Sandokan un’ora dopo giunse ad una piccola spianata in fondo della quale rizzavasi qualche cosa di nero, che aveva una forma accuminata ben differente dai cespugli che la dominavano.

– Che è? – chiese Yanez sorpreso.

– La capanna di Giro Batoë – rispose Sandokan.

Fece venti passi, poi si arrestò bruscamente armando la carabina. Aveva visto un’ombra rizzarsi improvvisamente fra le macchie e scivolare rapida all’interno della capanna. Per quanto fosse buio, riconobbe in quell’ombra una creatura umana.

– Fermati, Yanez – diss’egli. – Ho veduto un uomo entrare nella capanna.

– Che sia un Inglese?

– È passato troppo rapidamente perché io lo avessi ben a distinguere. Mi aveva però più l’aria di un indigeno o per lo meno di un orang-utang che d’Inglese.

– Che facciamo adunque? Per conto mio, direi di prendere il largo prima che abbiano a capitarci malanni.

– Io penso invece di tirar innanzi, Yanez – disse Sandokan. – Giro Batoë mi aveva detto esservi degli indigeni nelle vicinanze della sua capanna. Prendi la carabina e andiamo un po’ a vedere.

I due pirati si avvicinarono cautamente a quella baracca di foglie e di bambù e s’arrestarono dinanzi la porta spingendo entro lo sguardo. Quasi nel medesimo istante un uomo si precipitò in mezzo a loro gettando un urlo di pazza gioia.

– Mio capitano! Signor Yanez! – e il malese Giro Batoë in persona cadde alle loro ginocchia.

CAPITOLO XXII. L’ussaro

La comparsa del bravo Malese fu accolta dai capi della pirateria con un vero urlo di gioia. Tutti i timori che cominciavano ad assalirli sulla sorte dei prahos svanirono in un lampo.

– Sei tu, proprio tu, proprio il mio Giro Batoë? – disse Sandokan, sollevandolo da terra. – Credevo proprio che la fatalità me lo avesse rapito. Di’ su, Malese mio, dove sono i prahos?

Il Malese lo sguardo con occhi spaventati, senza aprir bocca.

– Sei diventato muto? – chiese Yanez.

– Zitto, non qui, nella capanna – balbettò Giro Batoë. – Possono udirci.

I tre pirati si affrettarono ad entrare nell’abituro e a rinchiudere prudentemente la porta per non attirare l’attenzione di qualche cacciator di piste, che potevasi trovare nei dintorni. Il Malese accese un po’ di fuoco.

– Ebbene, Giro Batoë? – chiese Sandokan, che ardeva di impazienza. – Dove sono i prahos? Spicciati, per l’inferno che sento gravitarmi una pietra sullo stomaco.

Il Malese mandò un sospiro e per la seconda volta fissò il capitano con occhi smarriti e la faccia sconvolta. Sembrava spaventato.

Sandokan e il Portoghese gli si slanciarono addosso. L’ansietà era dipinta sulle loro faccie.

– Giro Batoë!…

– Capitano! – rispose il Malese con un filo di tremula voce.

– Per Giove! Che hai tu? Che ti è accaduto? Dove sono i tuoi uomini?

– I miei? Sono in vista della costa, i miei, quelli del mio prahos.

– E gli altri?

– Disgrazia! Disgrazia!… – gemette Giro Batoë.

– Che ne fu degli altri legni? Tu sei partito con più di un prahos.

– Sì, ma sono perduti.

La Tigre mandò un ruggito straziante e si cacciò le mani nei capelli. Il Portoghese indietreggiò.

– Chi hai incontrato? – chiese con truce accento Sandokan. – Degli incrociatori forse?

– No, non ho veduto navi nemiche.

– E allora?

– Fu la tempesta!

La Tigre mandò una bestemmia.

– Ah! La tempesta! La tempesta! – muggì egli. – Fu la mia sventura, il mio ultimo colpo di grazia.

Egli si prese la testa fra le mani e stette qualche minuto così, cogli occhi torvamente fissi a terra.

– Narra, Giro Batoë, narra – disse Yanez che non aveva più sangue nelle vene. – Come andò la cosa?

– Sono partito da Mompracem con tre legni e sessanta uomini.

– Ebbene?

– La tempesta infuriava. A mezza via fra Labuan e Mompracem un prahos fu inghiottito dalle onde. Ah! maledette onde!

– Tira innanzi – comandò Sandokan.

– Tentai salvare gli uomini che lo montavano, ma mi fu impossibile. Fui trascinato verso Labuan e perdetti di vista l’altro legno che sparve fra le tenebre. Mi parve vederlo disalberato.

– E poi?

– Poi sono giunto a Labuan dove approdai mettendomi in cerca di voi. Capitano, se credete che io sia colpevole, arresterò la prima palla di cannone, come la arrestò Patau.

Sandokan non rispose. Incrociò le braccia, la sua faccia si fe’ cupa, lo sguardo torvo diventò sfavillante. Un singulto, uno straziante singulto gli lacerò la gola, una bestemmia uscì dalle frementi labbra, ma fu tutto.

Fece due volte il giro della capanna con agitazione nervosa, poi si arrestò dinanzi a Giro Batoë e, guardandolo fisso, con voce grave gli disse:

– Lo sapeva, Giro Batoë, che tu saresti venuto e che la tempesta che mi rapì Paranoa e tutti i suoi, avrebbe egualmente rapito qualche altro prahos. È una fatalità, ma che si romperà dinanzi al ruggito della Tigre della Malesia; sì, io romperò questa fatalità che si libra al disopra di Mompracem minacciando la nostra potenza. Via, quanti uomini hai tu?

– Venti – rispose il Malese guardando il pirata la cui faccia cupa si rasserenava a poco a poco.

– Venti uomini! E sono tutti questi degli ottanta che sono partiti dalla mia… Mompracem!

– Ma Paranoa, dov’è egli?

– Dov’è? Al nord se non ha naufragato – rispose Sandokan che piegato un istante si rialzava più indomito di prima. – Tutto volge alla peggio, Giro Batoë, ma se la tempesta ci ha battuto e se gl’Inglesi si armano e accrescono di numero e di potenza, noi li sfideremo entrambi. Sì, diverrò la Tigre e guai ad essi se oseranno opporre il ferro al ferro!

– Ma che vuoi far tu con venti uomini? – domandò il Portoghese, che credeva di già la spedizione andata a male.

– Che voglio fare? – esclamò Sandokan con violenza e interrompendo la passeggiata. – Ascolta, Yanez, tutti i nostri progetti di assalti sono crollati dinanzi alla fatalità, dovrò cangiar giuoco ora che le forze son venute meno quando più io sperava e che ne aveva bisogno, ma riusciremo. Ho giurato che io la strapperò la mia Marianna dalle mani di quel mostro che si chiama suo zio. Ho giurato che la farò mia, che la porterò meco nella mia isola, e tu sai che io sono uomo da mantenere la parola. Lascia che io abbia compiuto questa grand’opera, che io sia guarito da questa malattia che mi abbrucia e poi vedrai la stella di Mompracem brillare più viva di prima. Poveri tigrotti!…

 

Il pirata si mise a camminar con passo agitato per la capanna, colle braccia incrociate, la testa china, gli occhi torvi e le labbra contratte che lasciavano vedere i denti stretti. Si vedeva lo spasimo di un atroce dolore dipinto sul suo maschio volto. Egli divenne cupo come la notte più cupa conficcandosi le unghie nella carne, rattenendo un singulto che gli montava a intervalli alla gola uscendo dal cuore che in quei momenti doveva sanguinare, pensando e ripensando a quegli uomini, ai suoi tigrotti che il formidabile pirata riguardava come carne delle sue membra, come il mare era sangue delle sue vene, e sui quali non doveva più mai contare. La Tigre mirò con ispavento la minaccia che balenava su Mompracem, la ruina della sua isola che si approssimava, e forse in cuor suo, maledì l’istante in cui si era invaghito della giovanetta.

– Poveri compagni! – mormorò egli con voce rauca e l’esclamazione gli si soffocò fra le labbra con un basso ruggito.

Ma l’emozione, il dolore per i suoi uomini inghiottiti senza gloria fu un lampo. La passione riprese il sopravvento e rialzando il capo con orgogliosa fierezza, si fermò dinanzi a Giro Batoë che lo contemplava assieme al Portoghese, tristamente.

– Dov’è il tuo prahos? – domandò egli con quella calma e con quell’accento imperioso che adoperava in altri tempi.

– A sei o sette miglia al largo; non attende che il mio segnale per approdare – rispose il Malese.

– Bisogna che approdi questa notte stessa. Gl’incrociatori potrebbero scoprirlo e rubarmi quest’ultima speranza.

– Sandokan – disse il Portoghese avvicinandosi al suo amico sempre cupo e pensieroso. – Sentiamo: sogni ancora di rapir la giovanetta?

– Se sogno? Credi tu, Yanez, che la malattia sia guarita o che la Tigre vinta la seconda volta abbandoni l’impresa? Vedi, Mompracem, io lo so, è perduta forse per sempre, ma lei vive, lei è sempre là ad aspettarmi e io l’avrò. Che importa se le forze sono venute meno alla Tigre? Che importa se gli Inglesi sono cento volte più forti di noi? Alla forza noi opporremo l’astuzia, al ruggito del leone l’agilità della Tigre. Andiamo a far approdar il prahos, è d’uopo che salvi almeno coloro che ancor mi restano.

– Ma che vuoi mai fare? Siamo deboli, Sandokan, non lasciarti guidare dalla passione che potrebbe perderti.

– Perdermi? Che io voglio fare? – disse il pirata che si sentì ingigantire invece di spaventarsi. – Credi tu che gli ostacoli sieno capaci d’arrestarmi Yanez? Vieni, tu mi vedrai domani stesso all’opera.

«Ci imboscheremo sfidando le forze del prepotente che crede spaventare i pirati di Mompracem, spieremo l’istante in cui meno veglierà per piombargli addosso come tante aquile e schiacciarlo. Mi basterà un momento per rapir Marianna, lo capisci fratello mio?

– Tu vuoi ancora rapirla, Sandokan – disse il Portoghese che non approvava la violenza del suo compagno.

– È l’unica risorsa che mi rimane. Lascia che io la veda un sol istante nel parco e sarà mia. Vieni ora, andiamo al prahos.

I tre pirati uscirono dalla capanna nel più profondo silenzio. Giro Batoë, il più pratico di quei luoghi, si mise alla testa, e facendoli passare per certi sentieri noti ai soli indigeni e a lui, attraversando numerosi torrentelli di cui Labuan pare che abbondi, facendoli scalare alberi e passare fra cespugli spinosi, li condusse al mare senza avere incontrato anima viva. Egli si mise a guardare attentamente all’ovest scrutando il fosco orizzonte e mostrò ad essi un punto luminoso appena distinto, che si poteva facilmente scambiare con una stella, ma che lentamente scivolava sui neri flutti.

– È il fanale sospeso al pomo della maistra – diss’egli. – Possiamo andare alla foce del fiumicello, che è poco lontana.

– Qual segnale devi fare perché si avvicini? – domandò il Portoghese guardando il punto luminoso che continuava a camminare.

– Accendere due fuochi sulla spiaggia. Un fuoco solo era segnale di allontanarsi maggiormente – rispose il Malese.

Essi percorsero un mezzo miglio camminando sulla sabbia in mezzo a numerosi gusci d’ostriche, di crostacei e ad ammassi di alghe, gettando di tratto in tratto qualche occhiata verso la foresta oscura e il fanale. Essi giunsero verso la mezzanotte alla foce del fiumicello, le cui acque, scorrendo con lieve mormorìo fra le rive ristrette e boscose, si mescevano con quelle del mare che andavano ritirandosi per la bassa marea. Con un colpo d’occhio, i pirati si assicurarono che era perfettamente deserto.

– Non vedo luoghi troppo propizi per nascondersi – disse il Portoghese, dopo di aver esaminato le rive. – Se gl’Inglesi vengono a perlustrare i dintorni, lo vedranno senza dubbio, anche se si tirasse a secco in mezzo alle erbe e gli alberi.

– Non lo scopriranno, Yanez – disse Sandokan. – Noi lo nasconderemo in mezzo alle canne della piccola palude, coprendolo ben bene di rami e di foglie dopo di aver levati gli alberi e tutte le manovre. Giro Batoë, fa il segnale.

Il Malese non perdette tempo. Radunò un fascio di legne che raccolse sul limite del bosco e accese due fuochi a una certa distanza l’un dall’altro. I tre pirati videro da lì a poco il fanale del prahos sparire per dar luogo a un fanale rosso. Giro Batoë spense i due fuochi.

– Fra mezz’ora saranno alla spiaggia – diss’egli. – Ho raccomandato di tenersi sempre sotto vela per poter avvicinarsi o prendere il largo al menomo pericolo.

I tre pirati si sederono sulla spiaggia cogli occhi fissi sul rosso fanale che andava a poco a poco avvicinandosi. Dopo dieci minuti il prahos era visibile.

Aveva le sue immense vele spiegate e fendeva le onde rapido come un lampo e senza rumore: si sarebbe potuto scambiarlo per un gigantesco uccello dalle ali lunghe quaranta e più metri.

Arrivò presto alla costa, imboccò senza arrestarsi il fiumicello e gettò l’âncora di fronte alla piccola palude. I tre pirati lo raggiunsero e salirono a bordo accolti da fragorosi battimani.

Sandokan con un gesto li fe’ tacere.

– Silenzio – diss’egli. – Fatevi a me d’intorno.

L’equipaggio lo circondò.

– Siamo soli – continuò egli senza lasciar trapelar commozione veruna dalla voce. – Tutti gli altri sono morti, uccisi dalla fatalità che gravita tremenda su di noi; che nessuno parli, che nessuno si lamenti, che nessuno faccia la minima obiezione. La Tigre della Malesia lo vuole.

– Bene – risposero in coro i marinai con ferma voce. – Nessun parlerà.

– Siamo forse spiati, forse dei nemici vagano in questi dintorni; silenzio assoluto adunque e prudenza! Io lo comando. Giro Batoë, fa ammainare gli alberi e le vele, fa scomparire ogni manovra elevata e caccia il prahos sulla riva sinistra in mezzo ai canneti. Fallo scomparire sotto un ammasso di fogliame e di rami in modo che alcun occhio possa riconoscerlo e getta l’imbarcazione in acqua. Fra poco io partirò.

Non aggiunse una parola di più, e scese col Portoghese nella cabina mentre che i suoi uomini, ciechi strumenti dei suoi voleri, senza emettere né un lamento né un sospiro, si mettevano febbrilmente al lavoro sotto la direzione di Giro Batoë.

Dato il sacco alle provvigioni, il Portoghese e la Tigre si stesero sulle brande per dormire, ma per quanto quest’ultimo lo cercasse, non gli fu possibile.

Tetri pensieri, paure, inquietudini, lo assalivano e gli strappavano, suo malgrado, imprecazioni, ruggiti e forse forse dei singhiozzi.

Per quanto forte, feroce, fatalista fosse, il terribile uomo non riusciva a rassegnarsi alla perdita di quei cari compagni, di quei cari tigrotti, fautori della sua gloria, che aveva per tanti e tanti anni tratto di vittoria in vittoria, né sapeva rassegnarsi alla perdita completa della sua cara Mompracem, della sua temuta isola, che ormai, sprovvista di difensori, potevasi chiamare morente.