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La tigre della Malesia

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– Ah! Ah! – esclamò questi che fremette d’ira. – Tira, maledetto da Dio, tira che io non ti temo. Quando la Tigre sarà irritata, verrà a far saltare le tue ruote. Vedrai! Ti arresterò al volo!

Altre due fiamme scattarono dai sabordi di tribordo accompagnate da una doppia detonazione. Una delle palle venne proprio a investir la culatta del cannone sul quale Sandokan posava un piede. Il pirata non si mosse, non fiatò, non batté nemmeno ciglio: solo continuò a sogghignare beffardamente.

Successe una breve tregua, prahos e vascello continuarono la loro rotta colle prue all’ovest, l’uno perdendo via e l’altro avvantaggiandosi sempre più, poi questi ricominciò il cannoneggiamento più rapido, più forte, più preciso.

Una grandine di palle cominciò a piovere e fischiare attorno al prahos, rimbalzando e scrosciando contro i bordi corazzati, smussando o spezzando i pennoni, frantumando o schiantando le murate, e strisciando o saltando sul ponte.

La Tigre a quel tempestar di proiettili si scosse tutto. Si raddrizzò fieramente mostrando i denti, tese minacciosamente le mani verso il piroscafo e parve che fosse lì per slanciarsi in coperta, ma si frenò ancora e ripigliò l’immobilità truce di poco prima.

– Non ancora, non ancora – mormorò egli. – Non vedrebbero mia moglie.

Per dieci minuti il piroscafo cannoneggiò il piccolo legno che non faceva alcun sforzo per mettersi fuori di portata, poi le detonazioni scemarono a poco a poco fino a che cessarono del tutto. Allora una bianca bandiera salì sbattendo vivamente sul picco della randa.

A quella vista s’udì un mormorìo minaccioso sul ponte del prahos.

– Ah! – esclamò Sandokan ghignando. – Mi invitano d’arrestarmi, d’arrendermi, io, la Tigre!… Yanez, fa issare la mia rossa bandiera sull’alberetto di maistra!

– Ma… – azzardò il Portoghese.

– Silenzio! – tuonò la Tigre. – Io voglio vedere il fuoco!

Giro Batoë, a un cenno di Yanez, fe’ salire la rossa bandiera della pirateria, in mezzo alla quale campeggiava lugubremente un teschio umano. Un colpo di vento la sciolse e si mostrò spiegata al piroscafo.

– Tira ora, tira! – urlò Sandokan. – Fa ruggire i tuoi cannoni, arma i tuoi uomini, empi la tua macchina di carbone, fatti innanzi, che non ho paura! Voglio vedere il tuo fuoco e mostrarti mia moglie illuminata al baleno delle tue artiglierie!

Il vento andava allora crescendo man mano che avvicínavasi l’alba, raddoppiando la celerità del prahos. Il piroscafo che s’accorse di questo, ricominciò furiosamente il cannoneggiamento, sforzandosi di guadagnar il più presto che fosse possibile via, temendo che il piccolo legno gli sfuggisse. Il suo camino eruttava fumo e scorie come un vulcano e le sue ruote turbinavano fragorosamente, e la macchina fischiava e ruggiva in tal modo da temere che fosse sì li per iscoppiare davvero.

Ma ben presto dovette comprendere che perdeva via. Il piccolo legno piratesco, coperto dalle sue immense vele, poco a poco prese un’andatura più celere, non più guizzando ma volando sulle acque, di maniera che dopo dieci minuti le palle del vascello non giungevano più che a intervalli, e una parte di queste giungevano sulla scia.

Sandokan con tutto ciò non si mosse, né staccò gli occhi dal vascello. Il Portoghese che non capiva gli si avvicinò.

– Ma che vuoi tu fare, fratello mio, vuoi che una palla ti faccia saltare? – domandò Yanez.

– Aspetta, Yanez, e poi lo vedrai – rispose il pirata. – Non è ancor tempo, ma non sarà lontano: ecco la mia luce che segna l’alba.

– Vuoi trascinare questo legno sino a Mompracem per poi abbordarlo, coll’aiuto degli altri prahos?

– No, non vedrà Mompracem quel legno. Io lo arresterò al volo appena che il sole gli permetterà di vedermi. Essi ignorano che io l’abbia rapita, essi ignorano che ci troviamo assieme su questo prahos: voglio che ci veggano. Yanez, fa portare sul ponte un mortaio. Se non frantumerò le sue ruote al primo colpo, io non sarò più Sandokan! Sarà l’ultima impresa della Tigre della Malesia, che poi morrà per sempre! Mi comprendi, Yanez, per sempre!

Il Portoghese lo guardò in silenzio, mandando un sospiro, poi si affrettò a ubbidire, nel mentre che una palla strisciando sul ponte dopo di aver scavato un solco sfondava di rimbalzo le murate di prua perdendosi in mare. Sandokan non si mosse.

Nella stiva, fra il ferraccio che formava la zavorra, eravi un mortaio, pezzo della portata di otto che solevano avere i più rapidi prahos corazzati, quando si trattava di qualche ardua impresa dove le bombe potevano essere necessarie. Esso fu portato sul ponte e assicurato saldamente agli anelli di esso. Il Portoghese lo caricò, con una di quelle bombe di otto pollici, del peso di 21 chilogrammi, che con una carica di 2.21 forniscono ben 28 scheggie, il cui effetto può diventare funesto anche per uno dei più grossi piroscafi. Dopo di che, volgendosi a Sandokan che non perdeva di vista le mosse dell’incrociatore:

– Tocca a te, fratello mio, compi la tua impresa da vera Tigre di Malesia! – disse egli.

– Aspetta ancora! Aspetta! – rispose Sandokan. – È d’uopo che egli mi veda a fianco di lei!

Il vento che cresceva faceva volare il prahos che pareva sfiorare appena l’acqua, allontanandolo sempre più dal piroscafo che si sforzava di dargli ancora la caccia o di arrestarlo a colpi di cannone. Il legno da guerra avvampava a ogni istante e tuonava con crescente furia; pareva un vulcano erompente, vomitante palle e mitraglia.

La corsa durò da entrambe le parti ancora un’ora, durante la quale la luna e le stelle impallidirono sotto i primi albori.

Poco dopo un raggio di sole, il primo, guizzò attraverso due nubi illuminando il mare.

– E ora a me! – gridò Sandokan con un sorriso indefinibile. – Vo mostrarti le mie bombe e mia moglie!

A un suo cenno il prahos si mise a bordeggiare lasciando così il piroscafo avvicinarsi, poi si mise dietro il mortaio con la miccia in mano, calcolando la distanza, tracciando di già coll’occhio la via che doveva tenere il proiettile.

Il legno da guerra approffittava. Si avanzava rapido sbuffante, fumigante. Ricominciò il cannonneggiamento con novella furia, senza, perdere un sol istante, a palla e a scaglia.

Il ferro turbinava sul prahos che continuava impassibilmente le sue bordate, faceva saltare gli ultimi resti delle murate, forava le vele e troncava gomene, saltava sul ponte strappandone le tavole, scivolava sulla corazza, fischiando attorno all’equipaggio riparato dietro ai cannoni. Sandokan mirava sempre, impassibile, incrollabile fra la pioggia di palle.

– Fuoco! – urlò d’un tratto egli facendo un salto indietro, mentre che il mortaio avvampava tuonando.

Si curvò sul famigerato pezzo, rattenendo il respiro, colle labbra strette, la fronte abbuiata e gli occhi fissi innanzi a sé come volesse seguire l’invisibile proiettile che s’allontanava ratto ratto, sfiorando le onde. S’udì una seconda detonazione: respirò.

La bomba scoppiò con inaudita violenza fra i raggi di una delle ruote del vascello, facendone saltar le ferramenta e la tambura.

Il piroscafo s’inchinò sul fianco lacerato e si mise a girare su sé stesso sotto le battute dell’altra ruota che mordeva ancora le acque. Quasi subito una densa colonna di fumo sfuggii dall’enorme falla per la quale si precipitava, fischiando, l’acqua.

– Marianna! Marianna! – urlò Sandokan slanciandosi verso il boccaporto nel momento che Yanez e i tigrotti saltavano sui cannoni.

Egli afferrò la giovanetta, la trascinò a poppa, la sollevò fino al capo di banda e nel mentre che il ferro turbinava ruggendo a lui d’intorno la mostrò superbamente al piroscafo gridando:

– Ecco la moglie della Tigre!…

Quasi nel medesimo istante il prahos virava di bordo.

CAPITOLO XXVI. Il ritorno a Mompracem

Punito l’insolente, libero ormai da ogni impaccio, quantunque mezzo ruinato, colle murate cadenti, il ponte qua e là schiantato, le vele in più parti forate e lacerate e le manovre danneggiate dai turbini di mitraglia, il prahos riprese la corsa verso Mompracem colla velocità propria di quei leggeri legni che sfidano i più rapidi clipper della marina dei due mondi. La giovanetta dopo di essere stata presentata ai suoi compatrioti qual moglie della Tigre fra il ruggito dei cannoni, affranta dalle fatiche fisiche e morali, erasi affrettata a ritirarsi nella sua cabina e gustarvi un po’ di sonno, e tutti i pirati, passato il pericolo, ne avevano seguito l’esempio guadagnando le oscillanti loro amache.

Sul ponte eran rimasti soli tre uomini: Giro Batoë che fumava nella sua pipa seduto a poppa colla barra del timone in mano, e Yanez e Sandokan che passeggiavano pel ponte, l’uno tranquillo come il solito e l’altro invece cupo, malinconico, colla faccia scomposta e gli occhi che rifulgevano come carboni accesi, fissi sul mare che brontolava spumeggiando al largo.

– Orsù, Sandokan – disse improvvisamente il Portoghese, urtandolo. – A che diavolo vai pensando che sei tetro? Rimpiangi forse quello che hai fatto per la giovanetta?

– No, Yanez – rispose Sandokan, sussultando e con aria che invano sforzavasi far parere tranquilla. – No, rimpiango il passato, ecco tutto. Credi tu che un pirata non abbia un cuore per rimpiangere ciò che dovrà abbandonare per sempre? Guardando questo mare che solcherò per l’ultima volta in questi luoghi, mi sento commosso; guardando questo prahos che fra poco non rivedrò più mai mi sento il cuore sanguinare, pensando che la Tigre morrà per sempre mi sento invadere dallo spavento come seppellissero me stesso. È l’ultimo sospiro, l’ultimo rimpianto di un cuore che si sente straziare. Ma ho giurato che morrò, ho giurato che i pirati scompariranno da questi luoghi, che sarò tutto suo: manterrò ciò che promisi.

– Ma dei tuoi uomini che ne succederà, Sandokan? Senza la Tigre che li guidi, che sarà di Mompracem, della nostra isola?

 

– Succederà ciò che il destino aveva disposto. Essi abbandoneranno il mestiere, dimenticheranno il passato come lo dimenticherò io, e Mompracem ritornerà muta come lo era prima che la Tigre comparisse sulle sue coste: ecco tutto.

– Povera Mompracem! – esclamò Yanez con profondo rammarico. – Io cominciava ad amarla come fosse la mia vera patria.

– E io, credi tu che non l’amassi? Credi tu che non amassi questo mare, questi legni, quegli uomini che mi chiamavano con orgoglio la Tigre? Se io fossi capace di piangere, piangerei, ma non ho mai saputo che sia lagrimare. Orsù, Yanez, il passato è morto, un altro avvenire ben differente ci aspetta: quello preparatoci dal destino, seguiamolo. I pirati scompariranno!

– Lo so. È pur triste abbandonare questi luoghi ove noi eravamo i padroni, sparire pezzo a pezzo, disperderci dopo tanti anni.

– Triste! Triste! – ripeté il pirata con voce sorda e con una commozione di cui non si sarebbe mai creduto capace.

– Ascolta, fratello mio, quando noi giungeremo a Mompracem che pensi di fare tu? Non vi rimarrai, lo so, ma dove andrài con lei?

– No, non vi rimarrò più, io l’ho giurato a lei. Ah! se lei lo volesse, Mompracem tornerebbe a brillare e tanto da offuscar per sempre Labuan che ora sta ingigantendo sulle nostre ruine. Non lo vuole, ha paura del sangue, trema al fragor del cannone, e sia. I pirati morranno per sempre nella mia isola. Se fosse un’altra donna, l’abbandonerei, la sfuggirei dopo di averla ricondotta a Labuan, ma con lei non saprei farlo, io l’amo troppo, tanto da anteporla a ogni cosa, tanto da sacrificare i miei uomini e tanto che senza di lei, sarei capace di morire.

«Rivedrò ancor una volta Mompracem, poi, quando il mare sarà libero, quando ogni tema che si abbia a rapirmela sarà scomparsa, c’imbarcheremo e faremo vela…

– Per dove?

– L’ignoro, Yanez: andrò dove lei vorrà; sia su di un’isola, sia nella lontana sua patria, per me sarà lo stesso, purché andiamo lontani da questi luoghi che non sono più per noi. Non credere, fratello, che io ciò faccia perché sia stregato. No, gli è solo perché sono diventato un altro uomo, perché sento d’amarla furiosamente, e accanto a lei mi pare d’essere felice, oh! sì, mille volte felice. Tutto il mondo, per me, sta rinchiuso in lei, e in lei sola.

– Ti comprendo, Sandokan. Guarda, pur io che non ho mai amato, mi sentirei capace di fare per lady Marianna quanto sei capace di far tu.

– Lo sapevo, Yanez, che anche tu l’avresti adorata. Ella affascinerebbe Dio e il diavolo.

Il pirata abbandonò bruscamente il Portoghese, fece alcuni passi pel ponte, guardandolo fisso verso l’est, poi tornando verso di lui,

– Yanez – disse, cangiando tono. – Credi tu che le giacche rosse verranno ad assalirmi nella mia isola? Guarda, ho delle idee sì strane quest’oggi che la tengo stretta nelle mie braccia quell’adorabile fanciulla, che mi sgomentano in un modo nuovo. Io che non ho mai avuto paura, si direbbe che quest’oggi provo un sentimento di timore. Non so, forse saranno ubbie, ma mi sembra di veder buio e molto buio a me d’intorno.

– E non ti nasconderò che anch’io ho i miei timori, Sandokan – rispose Yanez. – Non voglio credere che il lord abbia a rassegnarsi a lasciare l’unico rampollo dei conti Guillonk nelle mani di un pirata, quale sei tu. Temo che egli abbia a tentare un disperato assalto contro Mompracem, e probabilmente fra non molto.

– Credo che tu abbia ragione, ma la tana della Tigre sarà inespugnabile! Giammai Olandese, o Inglese, Spagnolo, o Bornese, ardì approdare alle temute coste della mia Mompracem, e voglio sperare che il maledetto da Dio, per quanto l’ira lo spinga e gl’infonda coraggio, non lo tenterà. Aspetta che noi giungiamo all’isola e mi vedrai all’opera. Io fortificherò tanto il villaggio, da far dare indietro anche la flotta riunita dell’Inghilterra e dell’Olanda.

– Avresti per caso cangiato idea?

– Che vuoi dire?

– Tu parli di trincerarti così bene, da credere che tu abbia abbandonato il progetto d’abbandonare Mompracem.

Un amaro sorriso sfiorò le labbra della Tigre.

– No – diss’egli – non rimarrò nel mio nido per sempre. La Tigre della Malesia, te lo dissi ancora, non è più l’uomo d’una volta. Me ne starò a Mompracem in attesa degli Inglesi, e quando li avrò battuti, quando avrò fatto saltare le ruote dei loro ferrati vascelli, in modo che non sieno capaci di inseguirmi e d’abbordarmi in alto mare, spiegherò le ali e me ne andrò.

– E se gli Inglesi fossero di già sbarcati, a Mompracem? Ti ricordi ciò che disse quell’ufficiale, dietro le palizzate del parco?…

Sandokan lo guardò fisso, mostrando i denti.

– Ebbene – diss’egli – m’avvicinerò all’isola colle dovute precauzioni. Se l’hanno presa, veleggerò al sud. Guai al vascello che ardirà seguirmi. Guai a lui!…

Volse improvvisamente le spalle al Portoghese e andò a prua, appoggiandosi alla murata, guardando fissamente il mare che gorgogliava quasi ai suoi piedi. Un rauco gemito gli uscì dalle labbra e si strinse il capo fra le mani.

– Ah! – esclamò egli, quasi ferocemente. – È atroce abbandonare questo mare nel quale vissi tanti anni, questo mare che amava come fosse sangue delle mie vene, che idolatrava, che chiamava mio, mio! Povero mare, dovrò lasciarti per sempre!

«Non udrò più mai il tuo ruggito che era la voce a me più cara dopo il rombo del cannone, non affronterò più le tue tempeste che erano simili alle ire della mia anima, non ti darò più sangue delle mie vittime, perché io sono stregato, perché io sono come morto! Eri mio e diverrai di loro, perché il nodo che ci univa si è spezzato sotto il sentimento dell’amore e un abisso senza fondo fu dischiuso fra di noi due!

«Va! presto non ci vedremo più! Questi luoghi saranno morti perché il ruggito della Tigre si soffocherà, perché i suoi prahos non solcheranno più le tue onde, perché il cannone tacerà per ogni dove, perché i pirati saranno scomparsi. Diverrai un pacifico mare senza furore, senza fragori, bagnando le coste di Mompracem domate; non avrai più quei fumiganti rottami che io ti dava un tempo quasi ogni dì, non sarai più accresciuto dal sangue delle vittime, non sarai più il mio mare, perderai il tuo amico, il tuo fratello, rimarrai solo! Tu piangi, tu spumeggi dinanzi la prua del mio ultimo prahos piratesco, ti lamenti, i pesci come te si lamentano, il vento geme e io credi tu che non pianga al pensiero di non vederti più mai? Guarda, io soffro più che mi si strappasse la carne a brani!

«È deciso che io abbia a morire fra le braccia della fanciulla che mi ha strappato dalle tue, che abbia a morire lontano lontano dai tuoi amplessi, senza più udire la tua voce che allettava la mia anima nei tempi che ero il signore di Mompracem, e chi sa in quali terre straniere, ove mi avranno trascinato i sentimenti dell’amore. Vi ha qualche cosa che mi si arresta alla gola, del dolore che empie il mio cuore, qualche lagrima che bagna gli occhi dell’antico pirata.

«Le gioie che ho provato accanto a te, quelle gioie che mi rendevano qualche volta felice in mezzo ai miei trionfi di sangue, non le proverò più, mai più! Morrà la mia potenza, come morrà la mia e tua voce e per sempre! E tutto per lei!…

Il pirata si curvò verso le onde, che continuavano a spumeggiare dinanzi alla prua del prahos, guardandole con occhio intenerito, ascoltando i gorgoglii di esse, e sospirò. Forse in quel momento rimpiangeva l’istante il cui destino l’aveva trascinato sulle spiaggie di Labuan e l’istante in cui aveva amato la fanciulla. Egli si passò la mano sulla fronte come per iscacciarsi i neri pensieri che l’assalivano e qualche cosa di umido brillò nei suoi occhi.

– Tutto per lei! – continuò egli. – Per la fanciulla abbandonerò ogni felicità del passato, dimenticherò questi luoghi pur cari anche pel cuor di un pirata, i miei legni che amava come fratelli, Mompracem che riguardava come la mia gloria, la mia potenza, dimenticherò la mia isola, il mio nome guadagnato a prezzo di cento vittime e di fiumi di sangue, dimenticherò i miei poveri tigrotti che tanto mi amarono, e infine troncherò la mia tremenda vendetta contro coloro che assassinarono e mia madre, e i miei fratelli e le mie sorelle, contro coloro che mi precipitarono dal trono al fango!…

«Non più vita agitata, non più lotta, non più massacri e sangue da bere, non più armi, non più ruggiti di cannoni, né odor di polvere. Una capanna nel fondo d’una foresta, un sorriso per le gioie, un bacio pei deliri!…

La sua fronte s’aggrottò, poi si spianò e lo sguardo poco prima fiammeggiante si spense. Egli portò le mani agli occhi, girò su sé stesso per qualche istante, poi si avvicinò al boccaporto di poppa e discese senza far rumore nella cabina attigua a quella di Marianna. S’arrestò sospeso, udendo parlare.

– No, no – diceva con voce affannata la giovanetta. – Lasciatemi… lasciatemi che sono di lui, della Tigre della Malesia… Perché volete separarmi, perché volete strapparmi dal suo fianco quando ha giurato d’amarmi?… No, no, non voglio William: mi fa paura, l’odio, lo esecro… Via tutti, non voglio vedervi mai più, sono della Tigre!…

Il pirata sospirò e scosse il capo. Il suo sguardo s’intenerì.

– No, Marianna, no, non li vedrai mai più! – mormorò egli. – Non aver paura, anima mia, che sono qua io a difenderti, io, la Tigre!

Aprì la porta della cabina che dava in quella di lei e guardò. La giovanetta dormiva respirando affannosamente, agitando le mani fra le tappezzerie che la coprivano. Il pirata la contemplò con indefinibile dolcezza, colle braccia incrociate, anelante, cogli occhi fissi sul volto di lei, beandosi come fosse trasportato in un nuovo mondo, attirato, affascinato. Egli indietreggiò a lenti passi.

– Sogna – mormorò egli. – Guarda! Chi direbbe che non è divina? Sì, sprofondi Mompracem, scompaiano i pirati, precipiti il mare nelle viscere della terra, muoia per sempre la Tigre! Sì, sarò maggiormente felice accanto a lei!

Il pirata fu lì lì per precipitarsi verso la giovanetta e stringerla fra le braccia, ma si frenò, e quantunque la voluttà cominciasse a invaderlo da fargli girar il capo, si ritirò con quella potente volontà che sapeva dominar le più ardenti passioni e tornò nella sua cabina.

– No – mormorò egli con quell’accento risoluto che non ammetteva esitanze, né debolezze – no, non è ancora mia. So che mi ama, che comprende il gigantesco sacrificio del pirata che portava il nome di Tigre della Malesia, non basta? Quando sarò lontano da questi luoghi, in altre terre, sarà mia, tutta mia, me lo ha detto, lo sento, come io ho detto che sarò suo.

«Avrò ancora da lottare co’ miei nemici, lo so. Essi cercheranno con tutti i mezzi possibili di rapirmela per dare l’ultimo colpo al pirata di Mompracem, ma lotterò con tutte le forze di cui era capace l’antica Tigre, mostrerò ad essi, che se era formidabile nei tempi passati quando sol trattavasi di sangue e di saccheggi, sono ancora tale per difendere ciò che io chiamo la mia esistenza, la mia felicità. Poi morrò, morrò per sempre, che monta? Sarà una nuova vita per me, accanto a quella creatura sublime, e chi sa, forse più dolce, più felice di quella passata, e senza vittime e senza sangue.

Il pirata si mise a girare nella stretta cabina, ora truce in volto e ora col sorriso sulle labbra, porgendo di tratto in tratto ascolto all’affannoso respiro della giovanetta. Si arrestò tre o quattro volte colla testa fra le mani, quasi volesse soffocare i pensieri che l’assalivano suo malgrado, poi salì in coperta.

Il prahos filava sempre ma con lentezza. Il vento era caduto, soffiava a tratti irregolari, tondeggiando debolmente le grandi vele, che finivano a poco a poco collo sbattere e cadere lungo i triangolari alberi come fossero senza vita.

– Il malaugurato congiurerebbe anche esso contro di me? – mormorò Sandokan, gettando uno sguardo sul mare.

Egli guardò l’equipaggio che s’affaccendava contro le murate sfondate, dietro il ponte qua e là schiantato, cercando di porre un po’ d’ordine a bordo e rinnovando le manovre danneggiate dalla mitraglia del nemico, e si avvicinò al Portoghese che, curvo sulla ribolla del timone, guardava attentamente all’oriente, difendendo gli occhi dal raggio del sole con ambe le mani.

– Credo che tu giunga a proposito, Sandokan – disse Yanez voltandosi verso di lui. – Mi pare che questa volta le nubi si accavallino sull’orizzonte più del solito, malgrado il sole.

– Delle nubi? – disse Sandokan, guardando il cielo che era puro. – Dove le trovi tu, Yanez, che non sono capace di vederne una?

– Tu non comprendi; guarda laggiù diritto la punta della tua bandiera, non vedi tu all’orizzonte qualche cosa, che un occhio pratico direbbe fumo? Corpo di un satanasso! Non m’inganno io, è mezz’ora che ho notato quel pennacchio nebbioso.

 

Sandokan, facendosi un paraocchi con le mani, osservò con qualche inquietudine il punto indicato.

– Sì – diss’egli, dopo qualche istante di osservazione. – Vedo un pennacchio grigiastro che mi ha tutta l’apparenza di essere fumo.

– È fumo di carbon fossile, Sandokan, te lo posso assicurare.

– Un piroscafo adunque? Vuoi che quelli di Labuan si sieno di già messi in mare per darci la caccia? Non è possibile, non lo posso credere. Ah! Se essi venissero ad assalirmi in mare…

– Che faresti?

– Che farei?… Tuoni di Dio! La Tigre berrebbe tutto il loro sangue! Tutto, fino all’ultima goccia.

– Uhm! Siamo debolucci, fratello mio. Non vorrei che il nostro prahos subisse un secondo bombardamento. È vero che noi abbiamo ancora in fondo alla stiva qualcuna di quelle brave bombe che fecero saltare le ruote al colosso di ferro, ma!… Tò! E se quello laggiù fosse il piroscafo di questa notte?

– È impossibile che sia lo stesso, Yanez. Gli ho fatto un’avaria troppo grossa, per potersi servire delle sue ruote. Anche se fosse riuscito a turare la falla, e avesse spiegato le sue vele, sarebbe difficile ammettere che egli ci fosse sì vicino. Quei legni là, coi loro scafi di ferro, camminano assai male col vento.

– Eppure è fumo, e siccome, che io sappia, non vi sono vulcani in questi paraggi, bisogna dire che quel fumo proviene da un vascello a vapore.

– Non v’ingannate, capitano Yanez – disse Giro Batoë, che si era avvicinato. – Guardate come quel pennacchio sale diritto e sottile. Esce da una ciminiera bella e buona.

– Tanto peggio per lui – rispose Sandokan. – Incontrerà la Tigre, ma la Tigre smaniosa di venire alle mani, la Tigre assetata di sangue e affamata di carne umana. Al piroscafo ho fatto saltare una ruota, a quello che ci insegue farò saltare la polveriera. Ve lo giuro.

«Finché sono in questi mari, sento di possedere il braccio e la ferocia dell’antica Tigre di Mompracem, sento di essere invulnerabile, sento di avere tanta forza da far tremare ancora Labuan e di empire questi flutti che poco fa si lamentavano dinanzi la prua del mio prahos, di rottami e di cadaveri.

– Sta in guardia, fratello – disse Yanez. – Non sono più i tempi da commettere pazzie. Le palle volano sempre, e senza darne l’avviso, tu ben sai, e una potrebbe colpire anche la Tigre quantunque si creda invulnerabile, e fors’anche colpire lady Marianna.

«Difendiamoci, e difendiamoci bene, ma senza lasciare che quei legni, che di solito sono irti di cannoni e zeppi d’armati, si avvicinino di troppo. Non dimenticare che abbiamo a bordo tredici soli tigrotti, tredici coraggiosi che non temono né Dio né il diavolo, ma infine sempre pochi.

– E non bisogna neppur dimenticare, che a Mompracem ve ne sono pochi di buoni – aggiunse Giro Batoë. – Bisogna risparmiare più che sia possibile gli uomini, se si vuole essere tanto forti da tenere in scacco gl’Inglesi che ci assalirono nel nostro villaggio.

– Credi tu adunque, che le giacche rosse verranno ad attaccarci? – chiese Sandokan.

– Certamente, Tigre, e ci scommetterei tutto il peculio che tengo nella mia capanna. Il lord mi pare che sia uno di quegli individui che non perdonano certe cose. Gl’Inglesi avranno paura a seguirlo, è da indovinarsi, poiché malgrado la loro potenza Mompracem è ancora più forte di Labuan. Ma l’oro vincerà la paura.

Sandokan fece un cenno affermativo col capo, ma non aprì labbra. Egli guardava fissamente il pennacchio grigiastro. Non aveva paura tuttavia provava qualche inquietudine, nel vederlo avvicinarsi sempre più. Non per sé, ma per Marianna, che temeva gli venisse sempre ripresa.

– Guarda, Yanez – disse d’un tratto. – Non iscorgi tu, in mezzo a quella colonna di fumo, un’asta che si direbbe un albero senza pennoni?

– Sì, fratello mio, e vi ha di più, che per quanto giri lo sguardo non sono capace di vederne che uno solo. Olà! Giro Batoë, tira un’occhiata anche tu che hai l’occhio di lince.

Il Malese aggrottò le sopracciglia e guardò attentamente coi suoi piccoli occhi neri, dotati di una potenza visiva assai forte.

– È un albero senza antenne – disse egli – ed uno solo con un nastro sulla cima.

– Allora non può essere un piroscafo.

– Sarà una cannoniera.

– Sì – disse Sandokan. – Ecco là che comincia a spuntare il ponte di comando assai elevato, la ciminiera, e la prua assai bassa tagliata ad angolo retto. Ohe! Vorrebbe per caso tentare d’attaccarci e riuscire là dove un piroscafo sei volte più grosso fu vinto?

– Una cannoniera! – esclamò una voce dolce ma che non tremava, a lui accanto.

Il pirata si volse, rapidamente e si trovò dinanzi a Marianna, che lo guardava sorridendo.

– Ah! Sei tu, Marianna! – diss’egli, stringendosela al cuore con gesto appassionato. – Ti credeva ancora addormentata nel tuo nido.

– Oibò! Mi credi adunque una donna che muore di paura?

– No, no, lo so che tu sei forte e intrepida. Ti ho veduto affrontare audacemente la tigre di Labuan e ciò basta. E hai proprio bisogno di essere coraggiosa, Marianna.

– Ci minaccia forse qualche nuovo pericolo?

– Chi sa? Abbiamo da lottare e da lottare molto, da soffrire e da soffrire molto ancora per essere felici. Gli uomini della tua razza, ne ho la certezza, verranno ad assalirci per istrapparti dalle braccia della Tigre.

– Oh! Non parlare così, Sandokan! – esclamò vivamente Marianna. – Ma perché vuoi che essi vengano a separarci, quando io dirò a loro che rinnego la mia nazionalità e che vicino a te sono felice? Perché?

– E me lo chiedi? – disse Sandokan emettendo un doloroso sospiro. – Dimentichi che tu sei l’ultima dei conti Guillonk e che io sono un pirata?…

– Ma non lo sarai più, non è vero, Sandokan? Ed essi comprenderanno che con me tu diverrai un altro uomo, che la Tigre scomparirà dai mari della Malesia.

– Sì, fanciulla divina, sì, la Tigre morrà colla sua isola, coi suoi tigrotti – rispose Sandokan con voce amara. – Ma essi, credi tu che per questo ci lascieranno in pace? No, verranno a bombardarci coi loro cannoni e a moschettarci colle loro carabine. Ma non tremare, Marianna, non avere paura che essi abbiano a prendermi ed a rapir te. Io sento d’essere capace per te di pugnare col mondo intero. Ti porterò nella temuta mia isola, nella mia Mompracem, e là non avranno il coraggio di cannoneggiarci. La Tigre nel suo covo è inattaccabile!

Marianna lo guardò con profonda ammirazione, ma i suoi occhi tradivano le inquietudini dell’anima. Il pirata comprese ciò che passava nella mente di lei. La prese, la trasse a sé vicino, e con voce bassa e risoluta:

– Ti comprendo, Marianna – le disse. – Tu hai paura di Mompracem, ma non vi rimarrai per molto tempo. Passato ogni pericolo, noi l’abbandoneremo e non la rivedrò più mai!… più mai!…

– Sì, mio adorato Sandokan, non rivedremo più mai né Labuan né Mompracem – mormorò la giovanetta emettendo un profondo sospiro. Un rauco gemito uscì dalle labbra del pirata e l’abbronzato suo volto si alterò dolorosamente.

– Più! Più! – ripeté egli con voce che invano sforzavasi di render ferma. Le sue mani passarono più volte sulla sua fronte imperlata di sudore e stranamente aggrottata, poi si tesero verso la cannoniera che avanzava a vista d’occhio.

– Non è che una cannoniera – disse poi cangiando tono. – Non ci farà male di sorta: noi siamo dieci volte più forti di essa.

– Credi tu che ci assalirà?

– Forse, ma sarebbe pazzia, Marianna. Vieni a vederla.

Egli condusse la giovanetta a poppa. La cannoniera era lontana allora un quattro o cinque miglia, quindi perfettamente visibile.

Poteva essere della portata di un centocinquanta tonnellate, bassa di scafo, colla poppa quasi a livello delle onde, il ponte di comando assai elevato e un solo albero nel mezzo sprovvisto di antenne e di grisolle. Si scorgeva pochissimo equipaggio in coperta e portava un sol cannone a poppa di poco superiore a quelli del prahos.