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Le figlie dei faraoni

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CAPITOLO QUINDICESIMO. Gli scongiuri di Nefer

L’uomo moderno, che oggidì visita i luoghi ove l’antica civiltà egiziana eresse monumenti grandiosi, che resistettero per cinquanta o sessanta secoli alle intemperie, alle sabbie dei deserti, alle piene del Nilo, al furore dei Caldei, degli Assiri e dei Persiani – che piombarono nella grande vallata del Nilo abbattendo Menfi e Tebe, le due più colossali e le più meravigliose città che tutto il mondo antico invidiava alle dinastie faraoniche – se si ferma meravigliato dinanzi alla grandiosità delle piramidi che racchiudono mummificate le salme degli antichi re, rimane maggiormente stupito dinanzi ai pochi, ma imponenti obelischi che ergono, ancora orgogliosamente, le loro punte verso il cielo infuocato.

Una domanda spunta subito sulle labbra di chi si ferma, dinanzi a quegli enormi blocchi di granito innalzati a trenta o quaranta metri: quali mezzi hanno impiegato gli antichi egizi per sovrapporre a tanta altezza quei massi?

Quali sforzi prodigiosi hanno fatto per riuscire? Questa istessa domanda ha tormentato per tanti secoli gli egittologi e solamente da poco, dopo lunghissime indagini, sono riusciti a scoprire il mezzo ingegnoso a cui sono ricorsi quei celebri costruttori.

La mano d’opera non mancava nell’Egitto, anzi non costava quasi nulla al governo. Quando un re desiderava farsi innalzare una piramide, un obelisco, un tempio, faceva spopolare d’un tratto solo tutta intera una provincia, i cui abitanti, artigiani, operai, agricoltori, qualunque fosse insomma la loro professione erano registrati sotto la direzione degli architetti reali. I vecchi ed i fanciulli vi erano essi pure iscritti, occupandoli nei lavori meno faticosi, nella preparazione della calce e nel trasporto dei rottami.

Allorché la prima massa di lavoratori era esaurita o decimata dagli stenti e dal clima bruciante, la si rinviava al suo paese e si reclutavano gli abitanti d’un’altra provincia.

I Faraoni non concedevano a quei disgraziati che il vitto e molto scarso per di più.

Tutte le gigantesche costruzioni dell’Egitto, piramidi, canali, serbatoi, dighe, sotterranei e templi, furono eseguiti in tale modo e non fu che più tardi che quei lavoratori furono sostituiti coi prigionieri di guerra.

Come si vede la mano d’opera non mancava, erano invece i mezzi potenti che facevano difetto, poiché gli Egiziani non possedevano alcuna macchina atta ad innalzare quei blocchi enormi, che le braccia umane, per quanto abbondanti, non potevano che smuovere.

Come dunque sono egualmente riusciti ad innalzare quegli obelischi che formano ancora oggidì l’ammirazione degli architetti e degli ingegneri moderni? In un modo curiosissimo che solo la mente ingegnosa di quegli uomini straordinari poteva immaginare.

Mancando di macchine, si servivano d’un piano inclinato che cominciava a qualche metro dal luogo dove l’obelisco doveva venire innalzato e che si distendeva per oltre un paio di chilometri con una pendenza lievissima.

Sulla parte più alta costruivano un muro anche quello inclinato ed un po’ più alto dell’obelisco e sulla sommità formavano un coronamento di grossi tronchi d’albero profondamente infissi dovendo sopportare il peso intero dell’immensa colonna.

Bastavano pochi uomini per far salire la rampa all’obelisco, disposto colla base innanzi, sopra curli di legno durissimo che rotolavano su un tavolato portatile.

Quando la base aveva oltrepassato lo spigolo del muro di quasi un terzo della sua lunghezza, gli operai, collocati sui piloni, coll’aiuto di funi solidissime facevano girare l’obelisco attorno al conoramento della scarpa guidandolo fra due file di tronchi disposti a guisa di piuoli.

La discesa dell’enorme massa la effettuavano poi lentamente, togliendo man mano attorno alla base dell’obelisco la sabbia precedentemente accumulata in modo da farlo posare sul punto preciso segnato sul basamento. Riusciva poi facile, a quegli instancabili lavoratori, dare al monolito la dovuta posizione verticale, stabilendo un semplice tavolato fra la rampa ed il pilone.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Appena gettata la grossa pietra che serviva d’àncora e calate sul ponte le vele, Mirinri, Ata ed Ounis si erano subito portati sul casseretto, premendo assicurarsi innanzi a tutto della direzione presa dalle grosse barche, che sospettavano montate da guerrieri dell’usurpatore, incaricati di catturarli, prima che potessero giungere a Menfi.

Con loro non poco piacere le videro dirigersi lentamente verso la riva opposta e affondare le loro pietre, come se i loro equipaggi avessero presa la risoluzione di passare colà la notte.

«Ci tengono d’occhio,» disse Ata, con inquietudine. «Non hanno osato accostarsi a quest’isola, ma temo che non ci lascieranno tanto facilmente. Nefer ha avuto una buona idea di guidarci qui, purché gli spiriti dei re Nubiani non ci diano maggiori fastidi di quelli che potremmo avere da quei guerrieri. Io temo più i morti che i vivi.»

«Ti ho detto che io saprò placare le loro anime e che le farò rientrare nel serdab() del tempio.»

«Quale potere soprannaturale possiedi dunque, fanciulla?» disse Ounis.

«È mia madre che mi ha insegnato a placare gli spiriti. D’altronde, mio signore, io te ne darò prova. Fa gettare una tavola sulla riva e lascia che scenda a terra. Lancierò lo scongiuro in mezzo alla foresta.»

«Tu sola!» esclamò Mirinri.

«Sì, mio signore,» rispose Nefer con voce tranquilla.

«E non avrai paura?»

«Di che cosa?»

«Non vi sono belve feroci su quest’isola?»

«No, che io sappia.»

«Ed i coccodrilli li hai dimenticati?»

«Le rive sono tutte così ripide da impedire a loro di salirle.»

«Io non divido la tua fiducia, Nefer. Lascia che ti accompagni. La mia daga è salda e ti proteggerà.»

«Lo scongiuro non avrebbe nessun effetto e nessuno deve assistere al rito che io compierò sotto gli alberi.»

«Quale rito?»

«Non te lo posso dire, mio signore. Noi abbiamo delle cerimonie da compiere che non possiamo svelare a nessuno. Lasciami andare e non temere per me. D’altronde, se anche mi toccasse una disgrazia, che cosa t’importerebbe?» disse la fanciulla con profonda amarezza.

Mirinri, che aveva compreso dove mirava la fanciulla ed a che cosa alludeva, credette opportuno non rispondere, tuttavia la guardò con una certa ansietà.

«Addio, mio signore» riprese Nefer, vedendo che la tavola era stata già gettata. «Se io tardo, non inquietarti, poiché lo scongiuro che io lancierò sotto gli alberi potrebbe non essere sufficiente ed in tale caso sarei costretta a ripeterlo dinanzi al tempio.»

«Lascia che ti accompagni fino alla riva,» disse Mirinri.

«Sia, mio signore, purché tu non varchi la prima linea degli alberi.»

Attraversarono insieme la tavola, mentre Ata e Ounis spiavano ansiosamente le quattro grosse barche, temendo che preparassero qualche sorpresa approfittando dell’oscurità della notte, e si fermarono dinanzi ad una vera muraglia di verzura che sembrava quasi impenetrabile.

«È là il passo,» disse Nefer, indicando al giovane un piccolo squarcio aperto fra le camerope a ventaglio e le enormi palme dum che si erano ammassate sulla riva, collegate fra di loro da giganteschi festoni di piante parassite.

Nefer, che si era fermata, fece segno a Mirinri di non avanzare un passo di più. La strana fanciulla appariva in quel momento in preda ad una vivissima commozione ed i suoi occhi avevan perduto in quel momento tutto il loro superbo splendore. Un forte tremito faceva tintinnare i suoi braccialetti.

«Che cos’hai?» chiese Mirinri, sorpreso da quell’improvvisa commozione che aveva subito rimarcata.

«Nulla, mio signore» rispose Nefer con voce soffocata.

«Tremi come se tu avessi freddo.»

«È l’umidità della notte forse che mi fa trasalire così.»

«E anche nella tua voce vi è come un tremito. Avresti paura? Aspetta che sorga il sole per lanciare lo scongiuro.»

«Devo pronunciarlo nelle tenebre. Gli spiriti non escono che di notte.»

«E credi tu che siano veramente spiriti? Io ho visitate più piramidi e mai ho veduto uscire dai loro sarcofaghi quelli che da secoli vi dormivano dentro. Se fossero invece degli esseri viventi?»

«No, sono ombre, mio signore.»

«Sei risoluta?»

«Sì, mio signore. Se tu rimani qui udrai il canto dei morti che io griderò in mezzo alla foresta.»

La voce di Nefer, dapprima tremante, a poco a poco si era rinfrancata; il tremito invece delle sue membra non era cessato. Stette un momento silenziosa, col capo chino, poi s’allontanò bruscamente, dicendo:

«Addio, mio signore: che Iside, Osiride e la vacca Hathor proteggano il Figlio del Sole, che Apap, il serpente del genio del male stia lontano da te.»

Nefer scomparve attraverso lo squarcio aperto nella immensa muraglia di verzura.

La fanciulla camminava rapidamente, come se già altre volte avesse attraversato la folta foresta che copriva quell’isola, gettata attraverso il maestoso Nilo.

Non voltò nemmeno per vedere se Mirinri l’aveva seguita. Era d’altronde certa che il giovane non si sarebbe mosso dalla riva, poiché, cosa strana, gli Egiziani, al pari di tutti i popoli primitivi, se non avevano paura della morte, ne avevano molta degli spiriti dei morti.

La fanciulla però non sembrava tranquilla. Anzi si sarebbe detto che un improvviso accesso di disperazione o di collera intensa l’avesse colta.

Delle frasi spezzate uscivano dalle labbra e le sue dita tormentavano nervosamente le sue vesti, lacerando la leggera stoffa.

«Maledetti…» mormorava, stridendo i denti: «Vogliono tenerlo lontano… troncargli la via gloriosa che dovrebbe condurlo verso il trono del Sole… E io nulla posso fare… Sedurlo… addormentarlo tra le mie braccia.... O gli splendori della corte che io ho appena gustati nella prima gioventù o la morte! Perché non scegliere un’altra invece di me? Perché anch’io sono una Faraona, ma figlia di chi? Quale mistero regna sulla mia nascita? E quel miserabile sacerdote mi tiene nelle sue mani!… E riuscirò io?… Ama troppo l’altra e non ha compreso che io mi struggo per lui… che non sogno che lui… che darei la mia vita per lui e che attraverserei il fiume infernale che va a bagnare i campi divini d’Aaseron().

 

Si era fermata. Al di sotto delle larghe foglie delle palme regnava una profonda oscurità ed a malapena attraverso quella massa di verzura si poteva distinguere qualche stella.

Un silenzio assoluto regnava intorno alla fanciulla, non soffiando alcun alito di vento. Solo in lontananza muggiva cupamente il Nilo, che la piena aveva reso più impetuoso.

«Mi udranno?» si chiese, dopo d’aver fatto qualche passo innanzi.

Si guardò intorno cercando di distinguere qualche cosa, poi si rizzò e alzando la voce in modo da poter essere udita anche da Mirinri, se questi, come era da supporsi, non aveva lasciata la sponda, gridò:

«Oh tu, Amenti, che sei il signore della montagna e che hai il potere di creare le anime quando te l’ordina Osiride, ascolta la parola di una fanciulla di stirpe divina, perché sono figlia di quel Râ (il sole) che si alza tutti i giorni sull’orizzonte orientale del cielo e che la nera dea Nut protegge coll’ombra delle sue ali. Tu sei possente, perché la tua lingua tocca e lambisce il cielo, la terra ed avviluppa ogni cosa; tu sei grande perché sei il dio che regna nell’emisfero inferiore e la tua forma è nel cielo, nella terra, nelle piante, nelle acque del Nilo e la luce che sfolgori è pari a quella di Toum, che oggi è Osiride e domani è Râ e tutto puoi. Io voglio che tu renda agli spiriti che vagano su questa isola la loro bocca per parlare, le loro gambe per camminare, le loro braccia per rovesciare i nemici, come sta scritto nel Libro dei morti che Osiride ci diede, onde se ne vadano lontani e possano raggiungere la barca del Sole. Nefer ha parlato: è una maliarda ed una Figlia del Sole che Nut protegge. Raccogli gli spiriti erranti e chiamali nei campi divini d’Aaseron. Attendo!…».

La fanciulla aveva appena terminato quelle parole, quando sotto la vôlta immensa delle grandi foglie si udì un fragore assordante, che pareva prodotto da qualche enorme tamburone furiosamente percosso e che durò qualche minuto, poi un’ombra umana comparve, accostandosi silenziosamente alla maliarda.

«Egli ti aspetta nel tempio,» le disse quando fu vicina.

Nefer provò un forte fremito.

«Vieni,» disse l’ombra.

«Ti seguo,» rispose la fanciulla con un sospiro.

Si misero in cammino. L’uomo la precedeva di alcuni passi, scostando i rami che in quel luogo erano molto bassi e dopo pochi minuti s’arrestarono presso una gigantesca costruzione di forma quadrata, dinanzi alla quale si ergevano due obelischi molto meno alti di quello che giganteggiava sulla riva e delle sfingi di mostruose proporzioni, allineate su una doppia fila.

«Entra, Figlia del Sole,» disse la guida arrestandosi.

Nefer si diresse verso una porta larga alla base e stretta verso la cima e si trovò in una immensa sala, la cui vôlta era sorretta da un numero infinito di colonne tutte scolpite e coi capitelli che s’allargavano in forma d’una larga campanula.

Una piccola lampada, sospesa in alto, illuminava a malapena il centro del gran tempio.

«Sei tu, Nefer?» chiese una voce dall’accento rude.

«Sì, sono io, Her-Hor,» rispose la fanciulla.

Un uomo era comparso improvvisamente, uscendo fra le due colonne centrali. Era un vecchio di sessanta o settant’anni, di statura molto alta, dai lineamenti duri, cogli occhi nerissimi e vivissimi ancora, malgrado l’età.

Indossava una specie di zimarra di lino bianchissimo, molto ampia, stretta alle reni da una fascia gialla che ricadeva sul dinanzi ed aveva sul capo un fazzoletto pure giallo a righe nere, che gli scendeva sulle spalle. Ai piedi portava dei sandali di papiro e dal mento gli pendeva una di quelle strane barbe posticcie, di forma quadrata, che erano molto in voga in quell’epoca, quantunque rendessero coloro che le portavano di un aspetto tutt’altro che simpatico.

Nefer, nel vederlo, era diventata pallidissima ed un lampo d’ira le era balenato negli occhi.

«Ho veduto la loro barca ad approdare,» disse il vecchio. «Tu sei una fanciulla meravigliosa e Pepi ha scelto bene. È lui dunque?»

«Sì,» rispose Nefer abbassando il capo.

«Proprio il figlio di Teti?»

«Sì.»

«Non ci eravamo ingannati. T’ama?»

«Non mi pare finora.»

Una profonda ruga si disegnò sulla fronte del vecchio.

«È necessario che t’ami, tu lo sai. Forse non hai tentato tutte le seduzioni. Chi potrebbe resistere a te che sei la più bella fanciulla del Basso Egitto? Chi non fremerebbe dinanzi ai tuoi occhi meravigliosi e alle tue forme divine?»

«Eppure non mi ama ancora, grande sacerdote,» rispose Nefer.

«Deve amarti: Pepi lo vuole, tu sai che ogni volontà del re è comando.»

«Pensa ad un’altra.»

«Che il Capro di Mendes e che il dio Api mi uccidano sul colpo!» gridò il vecchio. «L’altra non lo amerà mai!»

«Che ne sai tu, Her-Hor?» chiese Nefer. «Tu non puoi scrutare il cuore di Nitokri, la figlia di Pepi.»

«Egli è un nemico che potrebbe strappare il trono a suo padre.»

«L’amore vale talvolta meglio d’un trono.»

Her-Hor fece un gesto di collera, poi, cambiando bruscamente tono, disse:

«Tutto è pronto. Ricordati che devi impedirgli di giungere a Menfi e di addormentarlo qui. Ricchezze e feste, danze e profumi, vini inebbrianti, carezze e gli occhi tuoi: cadrà e dimenticherà il suo grande sogno.»

«E se t’ingannassi, gran sacerdote?» chiese Nefer con ironia.

«Tutto dipende da te: vuoi rivedere gli splendori della corte e riprendere il posto che ti spetta per diritto di nascita? Lo devi ammaliare e tarpargli le ali. Lo sparviero è giovane, è sempre vissuto lontano da Menfi, non ha veduto che le sabbie del deserto, dove fu allevato e dove è cresciuto e tu sei bella. Mirinri ti amerà.»

Nefer fece col capo un gesto negativo.

«Il cuore del giovane Figlio del Sole non batterà forse mai per Nefer,» disse poi, con voce triste.

Her-Hor aveva guardato fissa la fanciulla, poi l’aveva presa strettamente per una mano. Una gioia selvaggia illuminava i suoi occhi e traspariva sul suo viso incartapecorito.

«Tu l’ami!» esclamò.

Nefer non rispose.

«Lo voglio sapere.»

«Ebbene… sì,» rispose la fanciulla, chinando la testa.

«Ah, la…»

Con un morso rabbioso il sacerdote aveva impedito alle sue labbra di completare la frase.

«Che cosa volevi dire, Her-Hor?» chiese Nefer.

«Nulla,» rispose asciuttamente il sacerdote, mentre un lampo sinistro illuminava i suoi occhi. Poi, dopo aver girato intorno ad una colonna, come per aver tempo di riprendere la sua calma primiera, chiese:

«Chi accompagna Mirinri?»

«Un vecchio che si chiama Ounis e che pare sia anche lui un sacerdote.»

«Ah? Lui!»

«Lo conosci?»

«Credo.»

«Chi è?»

«Un fedele amico di Mirinri. Hai incontrata la barca di gatti?»

«Sì, a tre giornate da qui; prima che il Nilo si gonfiasse.»

«Mirinri e Ounis hanno creduto a tutto ciò che tu hai narrato?»

«Credo.»

«Ti hanno visto il tatuaggio?»

«Ounis lo scoprì sulle mie spalle.»

«Sicché sono convinti che tu sia una Figlia del Sole?»

«Non lo sarei forse?» chiese Nefer trasalendo.

«Sì, non ti ho mai detto il contrario,» disse il grande sacerdote.

«Allora dimmi chi era mio padre.» gridò la fanciulla.

«Non è ancora giunto il momento di svelartelo.»

«È morto o vivo?»

«Potrebbe dormire il sonno eterno entro una piramide perfettamente mummificato, perché era un gran principe, e potrebbe anche darsi che non fosse ancora salito sulla barca che guida le regioni inferiori e che non sia ancora stato giudicato dal tribunale d’Osiride. Solo Pepi Mirinri lo sa e nulla finora a me disse.»

«Tu mi assicuri che nelle mie vene scorre il sangue divino dei Faraoni?»

«Sì.»

«E che il simbolo del diritto di vita e di morte non mi fu impresso per ingannarmi.»

«Ti fu fatto nel palazzo reale di Menfi.»

«Allora Mirinri può amarmi, perché sono una Faraona come Nitokri?»

«Può amarti.»

«Dammi un filtro affinché il suo cuore arda per me.»

«Il filtro lo hai nei tuoi occhi,» disse il sacerdote. «Pepi stesso non saprebbe resistere al fulgore delle tue stelle, se ora ti vedesse.»

«Ma non Mirinri.»

«Cadrà: tu sei una maliarda.»

«Dammi un filtro o danne uno all’altra Faraona,» disse Nefer coi denti stretti, «uno di quelli che la facciano dormire per sempre. La piramide di Pepi è sempre pronta a ricevere i morti e, spenta quella fanciulla, che ha per lei il fascino del potere e la luce d’un gran trono, che a me, oggi, manca, Mirinri cadrà fra le mie braccia.»

«Io uccidere la figlia di Pepi!» esclamò il sacerdote. «E poi? Sono vecchio, eppur ci tengo ancora alla vita o meglio ci tengo a qualche cosa di più importante della mia vita. Quando lo condurrai qui?

«Domani all’alba.

«Anche il vecchio?»

«Non lo lascerà.»

«Se potessi ucciderlo!»

«Perché? Che cosa ti ha fatto? Che importa a te che viva?»

Il sacerdote, invece di rispondere, si mise a passeggiare fra le colonne, mormorando fra sé:

«Sì, sarebbe una stupida vendetta.»

Poi, tornando verso Nefer, riprese:

«Bada che gli occhi miei e sopratutto quelli di Pepi sono fissi su di te. O gli splendori della corte o la morte: il re sarà implacabile. Va’: tutto è pronto per riceverlo e per addormentarlo fra tue belle braccia. Egli non deve giungere a Menfi, ricordatelo e, giacché l’ami, ti avverto che se egli posasse i piedi nella capitale del Basso Egitto, la morte non lo risparmierebbe. Ha regnato suo padre; lui non regnerà mai.»

«Non scorderò le tue parole,» rispose Nefer, mentre un brivido di terrore le correva per le ossa.

«E non una parola o nessuno di noi uscirà vivo dalle tombe degli antichi re Nubiani! Va’! Tu sai che cosa devi fare.»

Nefer si strinse addosso le leggere vesti che la coprivano, come se un gran freddo l’avesse improvvisamente côlta e uscì rapidamente dal tempio, mentre il sacerdote spegneva bruscamente la lampada.

CAPITOLO SEDICESIMO. Le meraviglie del tempio di Kantapek

Quando Nefer ritornò alla riva, Mirinri si trovava ancora là, seduto alla base dell’obelisco, colla daga snudata in mano e lo sguardo fisso verso il margine della foresta, pronto certo ad accorrere in aiuto della fanciulla, se qualche pericolo l’avesse minacciata.

Vedendola uscire dallo squarcio aperto fra la muraglia di verzura, si era prontamente alzato, muovendole incontro. Nefer lo accolse con un sorriso e con uno sguardo intenso.

«L’isola è tua, mio signore,» gli disse. «Gli spiriti dei re Nubiani sono rientrati nei loro sarcofaghi e non ne usciranno finché io non lo vorrò.»

«Li hai veduti, tu?» chiese Mirinri.

«Sì, vagavano sulle cime delle palme.»

«Chi sei tu, che possiedi una tale potenza? Io ho udita la tua invocazione e poi un gran rumore che ha spaventato gli etiopi e anche Ata e Ounis.»

«Erano i sarcofaghi che si richiudevano,» rispose Nefer sottovoce.

«Io finora non ti avevo creduto.»

«Ed ora?»

«Invidio la tua potenza occulta. Se io la possedessi, forse a quest’ora Menfi l’orgogliosa sarebbe mia e mio padre sarebbe stato vendicato.»

«Io nulla posso contro i vivi,» disse Nefer.

«Sei stata al tempio?»

«Sì ed ho ripetuto dinanzi alle sfingi il possente scongiuro. Ecco perché ho tardato a tornare, mio signore.»

«Non hai veduto nessun lume brillare là dentro?»

«Regnava una oscurità profonda ed un silenzio assoluto. Coloro che hanno acciecato il mio fidanzato devono essere morti o fuggiti.»

«Non avranno asportati anche i tesori che tu affermi si trovassero nei sotterranei?»

«Domani noi ce ne assicureremo,» rispose Nefer. «Un giorno perduto non ritarderà troppo la conquista del trono a cui hai diritto, mio signore.»

«E poi non possiamo per ora riprendere il viaggio,» disse Mirinri, la cui fronte si era oscurata. «Quelle quattro barche ci sorvegliano: tutti ne siamo convinti e forse aspettano che noi prendiamo il largo per assalirci. Sali a bordo e va’ a riposarti, fanciulla.»

Nefer lo seguì, senza aggiungere altro, e invece di recarsi nella sua cabina, si sedette a prora, su un cumulo di cordami.

Una viva ansietà regnava fra l’equipaggio e anche Ounis ed Ata apparivano molto preoccupati. Sentivano tutti, meno Mirinri, che un pericolo li minacciava. La presenza di quelle quattro barche, che non si decidevano a lasciare la riva del Nilo, aveva fatto perdere la calma sia agli etiopi che ai due capi. Ormai erano più che convinti di aver di fronte dei nemici e non già dei semplici trafficanti.

 

«Sono sempre là?» aveva chiesto Mirinri, appena salito a bordo, raggiungendo Ounis e Ata che vegliavano attentamente, sdraiati sul casseretto.

«Sempre,» aveva risposto il vecchio.

«Che attendano l’alba per andarsene?»

«O per assalirci, invece?» disse Ata.

«Che osino accostarsi a quest’isola che tutti sfuggono?»

«Questo non lo so e può darsi che non si sentano tanto coraggio, ma quand’anche rimanessero là a guardarci, noi non potremmo riprendere il viaggio. Essi ci tengono come prigionieri.»

«Saranno in molti gli uomini che le montano?»

«Le barche sono grosse, mio signore,» rispose Ata, «e avranno equipaggi numerosi quanto il nostro. Mi guarderei perciò bene dall’esporre la tua vita preziosa.»

«Io sarò pronto a proibirlo,» disse Ounis, che sembrava più inquieto di Ata. «Se tu Mirinri cadi nelle mani di Pepi, egli non ti risparmierà ed il tuo bel sogno sarebbe per sempre finito e tuo padre rimarrebbe invendicato.»

«Aspettiamo l’alba,» disse il giovane. «Io farò quello che tu vorrai, Ounis, perché debbo a te e alla tua prudenza la mia vita. Come ho atteso tanti anni, posso attendere dei giorni. Menfi è sempre laggiù e non mi sfuggirà.»

Ad un tratto trasalì. Il piccolo veliero si era spostato bruscamente, come se avesse ricevuto nei fianchi un forte colpo.

Ata e Ounis erano balzati in piedi, guardando intorno con ansietà, mentre gli etiopi correvano lungo le murate in preda ad un vivo panico.

Qualche cosa doveva essere avvenuto, poiché il veliero, quantunque l’acqua non fosse agitata entro quel minuscolo seno, continuava a oscillare sempre più vivamente, accennando a coricarsi su un fianco.

D’improvviso un grido sfuggì ad Ata:

«Affondiamo! Salvati, Figlio del Sole! Ecco il tradimento che presagivo!

Tutti precipitarono verso prora, dove Nefer stava sempre seduta, tranquilla, impassibile. Nemmeno udendo il grido di Ata si era mossa; solo sulle sue labbra era comparso un lieve sorriso.

«Prima il Figlio del Sole!» comandò Ata, arrestando con un gesto gli etiopi che stavano per rovesciarsi sul ponte volante che aveva servito a Nefer per scendere a terra.

«La fanciulla, prima,» disse invece Mirinri.

Il viso di Nefer s’illuminò d’una gioia intensa.

«Grazie, mio signore,» diss’ella alzandosi.

«Presto: la nave si rovescia,» rispose Mirinri vedendola inchinarsi rapidamente sul tribordo.

Nefer balzò agilmente sul pontile, leggera come un uccello, passò e poi la seguirono precipitosamente gli altri.

Si erano appena radunati dinanzi all’immenso obelisco, quando il piccolo veliero si capovolse colla chiglia in aria, spezzando di colpo la fune a cui era appeso il masso che serviva d’àncora.

La corrente che, entrando nel seno, vi faceva il giro, subito lo prese e se lo portò via, prima che gli etiopi, non ancora rimessisi dal panico, avessero pensato a fermarlo.

Per alcuni istanti fra tutti quegli uomini regnò un profondo silenzio. Fu Mirinri che pel primo lo ruppe.

«È la mia sorte e fors’anche il mio trono che se ne vanno,» disse.

«Maledizione!» esclamò Ata «Ci hanno presi!»

«Non ancora,» disse Ounis, che aveva subito ricuperato il suo sangue freddo. «Ero certo che noi non saremmo giunti a Menfi come tranquilli passeggieri e che l’usurpatore ci avrebbe preparati degli agguati lungo la via.»

«Che vi sia qualche traditore fra noi?» chiese Mirinri. «La tua barca era solida, Ata, e non può essere affondata da sola.»

«Gli uomini che montano quelle barche che l’hanno trapanata,» rispose Ata. «Su ciò non ho alcun dubbio. Essi hanno approfittato dell’oscurità della notte per attraversare il fiume e per aprire i fianchi del veliero.»

«Allora sanno che io ero sulla tua barca.»

«Pepi ha disposto certamente numerose spie lungo le rive del fiume,» disse Ounis. «Egli forse sa più di quanto noi crediamo e questa è una prova che gli era nota la nostra partenza dal deserto.»

«Ed ora che cosa faremo? Come potrò io recarmi a Menfi?» chiese Mirinri. «Che tutto sia finito e che la mia stella sulla quale tu, Ounis, riponevi tante speranze, sia tramontata per sempre?»

«Mio signore,» disse Nefer, «pensa innanzi a tutto a salvarti; vedo le barche dirigersi verso l’isola.»

Tutti si erano voltati, guardando la riva opposta. Le quattro barche avevano levate le pietre che servivano d’àncora e veleggiavano già lentamente attraverso il Nilo.

«Vengono!» avevano esclamato tutti.

«E non abbiamo più armi per difenderci,» disse Ata, con rabbia.

«Io vi salverò» disse Nefer.

«Tu!» esclamò Mirinri.

«Sì, mio signore.»

«In quale modo?»

«Conducendovi nel tempio dove riposano gli antichi re nubiani. Ormai i loro spiriti sono placati e non avete più nulla da temere e nessuno di quegli uomini che montano le barche oserebbe seguirvi fino là.»

«E tu ci giuri che non troveremo invece dei nemici?» chiese Ounis.

«Su Osiride, lo giuro,» rispose la fanciulla. «Seguitemi, prima che le barche approdino e che le freccie degli arcieri vi colpiscano. Guardate: s’affrettano.»

«Bada, fanciulla, che se tu c’inganni, anche se tu sei una Faraona non ti risparmieremo,» disse Ata, con voce minacciosa.

«Io non potrò difendermi e sono in mano vostra. Seguitemi, se vi preme la vita.»

Il timore che Mirinri potesse cadere nelle mani dei guerrieri di Pepi fece risolvere Ounis, tanto più che non potevano opporre alcuna resistenza nel caso d’un attacco, non avendo avuto il tempo di salvare le loro armi.

Si cacciarono frettolosamente entro lo squarcio aperto della foresta e si misero dietro a Nefer, la quale procedeva con passo lesto avanzandosi sotto i grandi alberi.

Quell’isolotto, fertilizzato dalle acque del Nilo, che nel colmo della piena dovevano inondare, era ingombro di piante superbe, le quali si erano sviluppate enormemente.

Era un vero caos di camerope a ventaglio dal bel fusto cilindrico, nodoso solamente alla base, coronato alla sommità da un magnifico ciuffo composto di trenta o quaranta foglie, piante assai pregiate anche dagli antichi egizi, i quali si nutrivano delle sue frutta, delle giovani foglie e anche della sostanza farinosa contenuta nel tronco. Al di sotto di quella immensa vôlta di verzura, racchiusa in vere reti di piante arrampicanti, si ergevano gruppi di euforbie, da cui si estrae un succo corrosivo, che sostituisce oggi il caucciù e che è così potente da bruciare le stoffe e da produrre delle ferite dolorose sulle carni, e cespugli foltissimi che rendevano il passaggio difficilissimo.

Nessun animale si presentava agli sguardi del drappello, il quale continuava ad avanzare rapidamente. Solo fra i rami svolazzavano pochi uccelli acquatici, degli anastomi e dei falchi.

Pareva che quell’isolotto fosse assolutamente deserto, non udendosi alcun rumore in alcuna direzione. L’incantesimo della maliarda era dunque pienamente riuscito, così almeno la pensavano i superstiziosi etiopi.

Avevano percorso già un lungo tratto, aprendosi faticosamente il passo fra quelle masse di vegetali, quando tutti si fermarono di colpo, mandando un grido di stupore.

Ai primi raggi del sole che stava sorgendo si erano trovati improvvisamente dinanzi al tempio meraviglioso, il quale s’innalzava in mezzo ad una spianata sgombra d’alberi.

«Ecco il luogo ove dormono le spoglie degli antichi re nubiani,» disse Nefer.

Quel tempio era di dimensioni enormi, dimensioni d’altronde che gli architetti egiziani amavano, essendo abituati a fare tutto in grande: colossali le piramidi, colossali gli obelischi, colossali le dighe, i bacini, le stanze funerarie ed i palazzi.

Era un dado mostruoso, colle facciate però pendenti, sormontato da un altro di dimensioni meno vaste, con una piramide tronca al centro, formato tutto di blocchi enormi di pietra calcarea, tratta senza dubbio dalla duplice catena arabica e libica, quella catena che provvide al vecchio Egitto i materiali necessari per innalzare le sue gigantesche piramidi.

Numerose iscrizioni ed un numero infinito di figure coprivano le pareti, rappresentanti divinità, re in gran costume, montati su carri di guerra, scene di caccia e animali d’ogni specie.