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Le figlie dei faraoni

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Nel mezzo, in un gran quadrato, giganteggiavano le tre maggiori divinità adorate dagli Egizi: Osiride, seduto su una specie di trono, con un altissimo cappello e l’immancabile barba quadrata appiccicata sotto il mento: Iside, una dea che aveva il corpo seminudo, pure seduta su un trono e che aveva in testa uno strano trofeo, sormontato da due corna, e la vacca Hathor, che fra le due corna reggeva il sole contornato da parecchi simboli e che posava il muso sulla testa d’un uomo.

Ai due lati della porta che metteva nel tempio, si ergevano due obelischi massicci, istoriati al pari delle pareti e dinanzi a loro, su una doppia linea, in modo da formare una specie di viale, stavano due dozzine di sfingi colle teste di re, appartenenti probabilmente alle prime dinastie.

«Chi può aver costruito questo magnifico tempio in questo luogo?» si chiese Mirinri, che mai prima di allora ne aveva veduto uno. «Lo sai tu, Nefer?»

«Entra,» gli disse invece la fanciulla, prendendolo per una mano e traendolo quasi con violenza verso la porta.

«Circondate il Figlio del Sole,» disse il sospettoso Ata rivolgendosi agli etiopi.

«Non è necessario,» disse Nefer. «Nessun pericolo lo minaccia e rispondo della sua vita. Seguitemi tutti!»

La voce della fanciulla, che era ordinariamente dolce e quasi triste, era diventata improvvisamente imperiosa. Mirinri che non era molto superstizioso e che d’altronde non provava alcun timore, fece segno agli etiopi di fargli largo e si lasciò condurre nel tempio.

La luce, che entrava liberamente dall’ampia porta, permise loro di scorgere un numero infinito di magnifiche colonne, i cui capitelli si perdevano nell’alto, tutte coperte di strane pitture in rosso, in nero ed in turchino, le tre tinte favorite degli Egiziani. Alcuni rappresentavano dei Re del primo impero, seduti sui loro troni, che altro non erano che delle semplici sedie massiccie molto basse, con in mano le insegne dell’autorità regale, rappresentate da un bastone un po’ ricurvo verso la cima e da una specie d’uncino, altre dei guerrieri in atto di trafiggere dei prigionieri; poi delle divinità rappresentate da uomini con la testa di bue, ibis, coccodrilli e gatti.

In mezzo all’immensa sala giganteggiava la statua d’un re in atto di minacciare qualcuno, con una immensa barba quadrata appesa al mento e armato d’una specie di falce molto ricurva, la prima arme usata dai guerrieri e dai re della prima dinastia.

«Dove mi conduci, Nefer?» chiese Mirinri, vedendo che la fanciulla non si arrestava.

«Nella mastaba, mio signore,» rispose la maliarda, senza lasciargli la mano. «È nel sepolcreto che deve trovarsi il tesoro degli antichi re nubiani ed è là che nessuno oserà venire a cercarti.»

Attraversarono il tempio in tutta la sua lunghezza, seguiti da Ounis, da Ata e dagli etiopi, finché giunsero dinanzi ad una porta di bronzo che era socchiusa e su cui stava scolpito, entro un disco, uno scarabeo che era il simbolo dei successivi rinascimenti del sole ed un uomo colla testa di montone, rappresentante il dio solare.

«La mastaba è dinanzi a noi,» disse Nefer.

«Ci vedremo, là dentro?» chiese Ounis. «Noi non abbiamo alcun lume con noi.»

«Vi è un foro in alto che ci darà luce sufficiente.»

«Avanti dunque.»

Invece di obbedire Nefer aveva fatto un passo indietro come se fosse stata colta da un improvviso terrore o da una grande perplessità.

«Hai udito qualche rumore?» chiese Mirinri.

«No, mio signore,» rispose la fanciulla tergendosi con un moto nervoso della mano alcune stille di freddo sudore.

«Avresti paura delle mummie che tu hai ricacciate nei loro sarcofaghi?»

«Nefer non teme i morti perché sa scongiurarli, tu lo sai.»

«Dunque?» chiesero Ounis e Ata.

Parve che la fanciulla facesse uno sforzo supremo, poi con ambe le mani spinse risolutamente la massiccia porta di bronzo, sussurrando a Mirinri:

«Tu non hai nulla da temere, Figlio del Sole.»

Un buffo d’aria umida investì Nefer, facendole volteggiare intorno i leggeri tessuti che la coprivano; ma quell’aria non era impregnata di quel tanfo sgradevole che regna di solito nei sepolcreti, anzi pareva che fosse satura d’un sottile e misterioso profumo.

Una scala si trovava dietro alla porta. Nefer la discese, tenendo Mirinri per una mano e si trovarono in una immensa sala sotterranea, scavata nel vivo masso e illuminata da un foro circolare da cui penetrava un getto di raggi solari.

Era la mastaba.

Gli Egiziani, sia delle prime come delle ultime dinastie, hanno avuto sempre una grande cura nel prepararsi i loro sepolcri.

I Faraoni si seppellivano entro le grandiose piramidi; i grandi ed i ricchi nelle mastaba ossia in immense sale sotterranee, sormontate da una piramide per lo più tronca, a base rettangolare, la cui lunghezza e profondità variavano secondo il gusto dei costruttori, mentre l’altezza non superava ordinariamente i sette od otto metri.

Le quattro facciate di quei vasti sepolcreti, che racchiudevano sovente un gran numero di mummie, erano piane, senza alcun ornamento né apertura, all’infuori d’una porta che s’apriva sempre verso l’oriente, ossia verso il punto dove s’alzava il sole, il grande astro che racchiudeva l’animo di Osiride. Anzi quei sepolcreti erano sempre orientati con grande esattezza, onde potessero avere le quattro facce della piramide sovrastante le vôlte verso ognuno dei quattro punti cardinali e l’asse trasversale nella direzione nord e sud.

Specialmente attorno alle colossali piramidi ove dormivano i re si costruivano le mastaba, più o meno vaste, secondo la fortuna dei defunti, regolarmente allineate e separate da viali come i quartieri delle grandi città dell’antico Egitto.

Gli scavi fatti eseguire dagli egittologi durante lo scorso secolo ne hanno messo allo scoperto un gran numero e dall’alto della piramide di Cheope se ne poterono indovinare molti altri, per la loro forma geometrica che ha dato alle sabbie delle forme molto pronunciate, ma quante se ne trovano ancora nascoste sotto l’antico suolo? Forse migliaia e migliaia di mummie dormono dimenticate ancora sotto le sabbie, che hanno ormai invaso tanta parte dell’Egitto e probabilmente nessuno riuscirà mai a metterle allo scoperto.

L’interno di quelle tombe era diviso in tre parti distinte: la cappella, il corridoio chiamato serdab e la cripta, ossia la vera tomba sotterranea destinata a contenere le mummie.

Di questi tre reparti, la sola cappella era accessibile ai viventi ed era la cameretta nella quale si raccoglievano i parenti in certi anniversari per recitarvi le preghiere dei morti e deporvi le offerte e le provviste destinate a sostenere l’anima del defunto nel grande viaggio all’altro mondo.

Era in certo qual modo la sala di ricevimento del così detto doppio, essere intermediario fra il corpo e l’anima, nella quale soggiornava fino a che la mummia non fosse completamente distrutta dal tempo.

In quella cappella vi erano due oggetti importantissimi: una tavola chiamata stele, fissata entro una nicchia col nome, le funzioni e qualità del defunto ed una sporgenza di granito la cui superficie, incavata a compartimenti ed a scanalature, serviva a ricevere gli alimenti destinati al trapassato.

Talvolta si ergevano anche, a destra ed a sinistra del sarcofago, due minuscoli obelischi con iscrizioni che riguardavano la biografia del morto.

Nefer era discesa, dopo una breve esitazione, nella cappella, quindi essendo la porta di bronzo della cripta aperta, vi era entrata con una certa rapidità, mostrando colla mano a Mirinri una trentina di sarcofaghi che stavano allineati lungo le pareti, alla distanza d’un metro e mezzo l’uno dall’altro.

«Là dentro che si trovano le mummie dei re nubiani?» aveva chiesto il giovane.

«Sì,» aveva risposto Nefer, «e dentro quei sarcofaghi tu troverai i tesori di cui ti ho parlato.»

«Ne sei ben sicura?»

«Il mio fidanzato che fu acciecato li vide.»

«In che cosa consistono?»

«In turchesi, in rubini, in perle ed in smeraldi. Tu, mio signore, puoi raccogliere qui delle somme favolose che ti basteranno a sufficienza per muovere la guerra a Pepi. Avanzate…»

Mirinri, seguito da Ounis, da Ata e dagli etiopi, si fece innanzi con un certo rispetto, guardando con viva curiosità le bare che, al pari di quelle egiziane, riproducevano delle teste nerissime cogli occhi scintillanti, che mandavano bagliori strani.

Il drappello s’avanzò nell’immenso sotterraneo, mentre invece la fanciulla indietreggiava lentamente verso il corridoio, ossia il serdab.

Ad un tratto un colpo sordo, che si ripercosse lungamente nel sotterraneo, fece arrestare Mirinri, Ata ed Ounis che erano già giunti a metà della mastaba.

Un triplice grido rimbombò nel sepolcreto degli antichi re nubiani.

«Nefer!»

Nessuna voce rispose. La porta di bronzo che separava la serdab dalla cripta era stata violentemente chiusa e la fanciulla era scomparsa.

«Siamo stati traditi!» aveva esclamato Ata, gettandosi dinanzi al giovane Faraone come se avesse voluto proteggerlo da qualche improvviso pericolo. «Lo sospettavo. Ah! Ounis, perché mi hai impedito di gettarla nel Nilo?»

«Nefer fuggita!» esclamò Mirinri, che non voleva ancora credere ad un simile tradimento. «No! È impossibile! Si sarà nascosta dietro ad una di quelle colonne!»

«La porta di bronzo è stata chiusa,» disse Ounis, con profonda angoscia, «e noi siamo prigionieri entro questo sepolcreto dove forse morremo di fame e di sete.»

«Nefer!» gridò Mirinri, respingendo impetuosamente Ata e slanciandosi verso la porta di bronzo, che percosse furiosamente coi pugni.

Anche questa volta nessuno rispose alla sua chiamata.

«Salviamo il Figlio del Sole!» urlò Ata. «A me, etiopi! Difendiamolo coi nostri petti!»

Gli erculei battellieri stavano per chiudere nel mezzo il giovane faraone, quando un grido di spavento ed insieme di stupore fuggì da tutte le bocche:

 

«I morti risuscitano!»

CAPITOLO DICIASSETTESIMO. La principessa dell’isola delle ombre

Mirinri, Ata, Ounis ed i nubiani, in preda ad una emozione impossibile a descriversi, si erano precipitosamente rifugiati verso la scala che conduceva alla serdab, e che la porta di bronzo chiusa da Nefer non permetteva di salire fino al pianerottolo.

Uno spettacolo terrificante era avvenuto nell’immensa cripta; i coperchi dei sarcofaghi, che dovevano chiudere le mummie degli antichi re nubiani scricchiolavano ed a poco a poco si alzavano, come se i defunti stessero per risuscitare.

Erano le ombre dei morti che Nefer pretendeva di aver ricacciati nei loro sarcofaghi e che tornavano a uscire, quelle terribili ombre che spaventavano tutti i rivieraschi del fiume?

Tutti si erano addossati contro la porta, guardando cogli occhi sbarrati i coperchi che continuavano ad alzarsi, scricchiolando con un crescendo sinistro. Solo Mirinri era rimasto sul primo gradino, guardando intrepidamente le bare, come se volesse sfidare quelle terribili ombre. Certo l’anima del giovane Faraone non tremava, perché nemmeno un muscolo del suo volto aveva trasalito come non aveva trasalito alcuno di quelli di Ounis. Anche il vecchio sacerdote che lo aveva allevato conservava una calma superba e pareva più preoccupato ad osservare Mirinri che i sarcofaghi.

Ad un tratto, con immenso stupore degli etiopi e degli egiziani, si udirono uscire da quei secolari feretri dei suoni dolcissimi, che si fondevano insieme con un accordo ammirabile.

Erano note flebili di flauti, di quei sab che sono tutt’oggi così estremamente difficili a suonare, specialmente quelli di bronzo quantunque simili istrumenti fossero piuttosto rari in quelle lontanissime epoche; erano note di quei doppi flauti chiamati zargbocel, di banit ossia di arpe semicircolari e di nadjakhi ossia di specie di lire, che avevano da sei a quindici corde, molto in uso in quell’epoca.

Gli etiopi, sempre spaventati, essendo maggiormente superstiziosi degli egiziani, avevano dato indietro, non pensando più a difendere il Figlio del Sole.

Nemmeno Ata si era gettato più in difesa del giovane, il quale d’altronde non sembrava che avesse bisogno di chiedere soccorso a chicchessia.

D’improvviso tutti i coperchi dei sarcofaghi s’alzarono come d’un colpo solo ed una legione di fanciulle bellissime, coperte appena da leggeri veli e adorne di ricchissimi braccialetti, di collane e di anelli, sgusciò fuori, allineandosi lungo le pareti della cripta.

Erano tutte di bellezza meravigliosa, vestite colla suprema eleganza delle danzatrici e delle suonatrici di quell’epoca che dettavano la moda perfino alle figlie dei possenti Faraoni e profumate dai piedi ai capelli. Ognuna teneva in mano un istrumento musicale: flauti, arpe, sistri, crotali in bronzo, che battevano l’uno contro l’altro, triangoli, chitarre leggerissime col manico lunghissimo e cimbali di metallo chiamati kimkim che davano dei suoni penetranti i quali echeggiavano fortemente le vôlte dell’immenso sepolcreto.

«Chi siete voi?» aveva gridato Mirinri, balzando dall’ultimo gradino, coll’impeto d’un giovane leone. «Fanciulle od ombre di re nubiani? Il Figlio del Sole non trema dinanzi a voi.»

Uno scoppio di risa argentine fu la risposta.

Le fanciulle, senza smettere di suonare i loro istrumenti musicali, si radunavano lentamente verso l’estremità opposta della cripta, dove si scorgeva un superbo scalone di quella splendida e pregiata pietra calcarea tratta dalle montagne della catena libica.

Mirinri aveva fatto atto di slanciarsi attraverso la mastaba e di piombare sulle fanciulle, ma Ata e Ounis si erano affrettati a trattenerlo.

«No!» avevano gridato entrambi. «Non sogniamo noi! Sono ombre! Qui vi è qualche maleficio di Nefer.»

«Che io spezzerò!» aveva risposto il giovane eroe. «Io, senza avere la potenza di quella fanciulla, ricaccierò tutti costoro nei loro sarcofaghi, dove forse dormivano da secoli e secoli. Io non sono un mortale qualunque! Sono un Figlio del Sole!»

Con una brusca scossa si era liberato della stretta di Ata e di Ounis e stava per scagliarsi contro le fanciulle, che pareva lo guardassero malignamente, quando la porta che si scorgeva sulla cima del grande scalone si aprì di colpo, con immenso fragore e comparve una giovane donna tutta avvolta in veli trapunti d’oro, ed i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle seminude, accompagnata da quattro fanciulle che tenevano in mano delle lampade.

Mirinri si era subito arrestato mandando un grido: «Nefer!»

Era proprio la maliarda che si mostrava sull’ampio pianerottolo dello scalone, fra la luce delle lampade, più bella e più seducente che mai. I suoi occhi nerissimi, animati da una fiamma intensa, bruciante, si erano subito fissati sul giovane Faraone.

«Tu, Nefer!» aveva ripetuto Mirinri. «Tu, miserabile, che ci hai traditi? Vuoi la mia vita? Prendila dunque!»

Un’espressione d’intenso dolore aveva alterato il bel viso della fanciulla.

«Chi ti ha detto che io t’ho tradito, mio signore, io che sarei così lieta di dare tutto il mio sangue per te? Io ti ho salvato, mio dolce signore, dagli uomini che t’inseguivano e che se ti avessero raggiunto t’avrebbero condotto prigioniero a Menfi, spezzando per sempre il tuo bel sogno e distruggendo tutte le tue future speranze.»

«Tu mi hai salvato! Ma se io sono tuo prigioniero!»

«Che cosa te lo dimostra? Vuoi tornare nelle foreste dell’isola? Io farò aprire tutte le porte della mastaba e del tempio, ma dove andrai tu ora che i guerrieri di Pepi hanno distrutto la tua barca e che non hai nemmeno un’arma per difenderti? Lo vuoi, Figlio del Sole? Un solo tuo cenno e sarai libero insieme ai tuoi compagni.»

Il giovane Faraone era rimasto silenzioso, guardando con crescente stupore la fanciulla, che si teneva sempre ritta sul pianerottolo della vasta gradinata, tutta avvolta in una leggera veste azzurrina, aperta solo dinanzi al petto e colle braccia e le gambe adorne di meravigliosi gioielli, che la luce delle lampade facevano vivamente scintillare.

Anche Ata e Ounis non avevano aperto bocca. Pareva che la sorpresa li avesse resi muti.

«Infine che cosa vuoi da me?» chiese Mirinri, dopo un lungo silenzio.

«Che tu accetti, finché i tuoi nemici se ne saranno andati, l’ospitalità che ti offre la principessa dell’isola delle ombre. Vieni, mio signore: la tavola è pronta e tu ed i tuoi compagni dovete aver fame.»

«Sogno io?» esclamò Mirinri, volgendosi verso Ata ed Ounis.

«Non ci sembra, quantunque tuttociò abbia l’apparenza d’un vero sogno,» rispose Ata. «Quella fanciulla è un essere assolutamente straordinario e mi sembra più una divinità discesa dal sole per proteggerti, mio signore, che una creatura umana.»

«Dunque l’istoria del tesoro dei re nubiani era una favola, è vero Nefer?» disse Ounis.

«Taci, vecchio Ounis» rispose Nefer. «Sii contento di essere ancora vivo e di rivedere al tuo fianco quel Figlio del Sole a cui dedicasti la vita.»

«Tu devi spiegarci tante cose.»

«Te le spiegherò più tardi, se lo vorrai. Pensiamo per ora a divertirci.»

Scese la gradinata, sempre seguita dalle quattro fanciulle, prese per mano Mirinri, senza che questi avesse opposto la minima resistenza e risalì verso la porta entrando in un immenso salone la cui vôlta era sorretta da due dozzine di splendide colonne istoriate e dipinte.

Da una larga apertura rettangolare, che s’apriva in alto, scendeva, essendo il sole già alto, una luce vivissima, la quale si rifletteva intensamente sul pavimento marmoreo, che era lucidissimo.

Fra i due ordini di colonne vi erano una trentina di piccole tavole, alte appena pochi palmi dal suolo; dietro a ciascuna, delle pelli di animali che dovevano servire come sedili o meglio come tappeti e dinanzi delle grandi anfore di terracotta verniciata, col collo lunghissimo, che reggevano degli enormi mazzi di fiori di loto bianchi, rossi ed azzurri i quali spandevano dei deliziosi profumi.

Nefer condusse Mirinri presso una di quelle tavole e lo fece sedere su una magnifica pelle di leone, mettendoglisi accanto.

Ounis, Ata e gli etiopi si erano accomodati intorno alle altre, due per due, mentre le suonatrici si coricavano intorno alle colonne, facendo vibrare i loro istrumenti musicali, in modo da non impedire che i convitati potessero parlare ed intendersi.

«Tu sei una dea, Nefer!» aveva esclamato Mirinri, che fiutava avidamente i profumi deliziosi di cui era impregnata la leggera veste della fanciulla. «È impossibile che tu sia una mortale.»

«Perché, mio signore?» chiese la fanciulla, sorridendogli e guardandolo cogli occhi languidi.

«Tu hai compiuto delle cose così meravigliose e hai cambiato tante volte il tuo essere, che io non riesco più a capirci nulla. Prima una povera maliarda, poi una Faraona ed ora?»

«La principessa dell’isola delle ombre.»

«E domani forse regina dell’Egitto.»

«Lo vorrei ben essere, mio dolce signore, per dividere il potere supremo con te. Disgraziatamente questo sogno,» aggiunse la fanciulla con un amaro sorriso, «non si avvererà mai.»

«Perché Nefer? Chi può dirlo?»

«Perché tu, mio signore, ami un’altra e la fiamma non si spegnerà mai.»

«Perché vuoi turbare il mio spirito, Nefer? In questo momento io non pensavo alla Faraona e non vedevo dinanzi ai miei occhi che te.»

«Hai ragione, mio dolce signore,» rispose la fanciulla.

Intanto una dozzina di giovanette, che avevano una larga cintura di stoffa trapunta in oro stretta ai fianchi e che portavano in testa dei pezzi di stoffa pieghettati, cadenti in linea retta lungo gli orecchi, l’acconciatura ordinaria delle sfingi, irruppero nella sala, recando corone di fiori e anfore d’oro squisitamente cesellate e tazze d’egual metallo e d’argento.

Una di esse, che aveva delle splendide forme scultoree, s’avvicinò al tavolino dinanzi a cui stavano seduti Mirinri e Nefer e posò due corone di fiori sul capo e sul collo di entrambi, come voleva l’uso, poi presa ad una compagna un’anfora, riempì due tazze d’un vino color del rubino e profumato.

«Bevi la luce dei miei occhi,» disse Nefer, porgendo una tazza a Mirinri. «Io berrò la potenza che emana dal tuo corpo, o Figlio del Sole.»

Il giovane ebbe una breve esitazione, poi la vuotò, subito imitato dalla fanciulla.

Anche Ata e Ounis avevano avuto corone e vino e nemmeno gli etiopi erano stati dimenticati.

Frattanto la musica riempiva l’aria con delle vibrazioni strane che parevano invitare ad un dolce riposo, mescolandosi al profumo acuto ed inebbriante dei fiori, che le belle fanciulle di quando in quando rinnovavano. La lira, l’arpa, la cetra, il tamburello, il flauto doppio e semplice univano i loro dotti accordi.

In tutti i banchetti degli antichi egiziani la musica aveva una parte importante, come l’aveva pure nelle cerimonie religiose. Pare che in quella lontana epoca avesse già raggiunto, nell’immensa vallata del Nilo, un altissimo grado di perfezione. Essa faceva parte di ogni buona educazione, come nei nostri tempi e non era raro vedere nei templi le figlie dei Faraoni suonare il sistro, l’istrumento sacro delle cerimonie religiose o l’arpa. Vi erano delle vere corporazioni di musiciste che allietavano, specialmente dietro certi compensi, le feste, i banchetti e le serate, insieme alle danzatrici, le quali, secondo il costume dell’epoca, si mostravano anche in pubblico.

Le giovani nubiane per divertire i convitati, i quali non perdevano il loro tempo a vuotare anfore colme di vino e di birra, dopo d’aver rinnovati i fiori, avevano cominciato ad intrecciare danze, che consistevano per lo più in corse sfrenate attorno alle colonne ed in piroette vertiginose. Pareva che talvolta volessero precipitarsi contro le piccole tavole occupate dai convitati; poi, sul punto di rovesciarle, s’arrestavano bruscamente alzando le mani ed indietreggiando con dei larghi movimenti.

Se gli etiopi si divertivano, Mirinri e Nefer non sembrava che si occupassero né delle suonatrici, né delle danzatrici e forse nemmeno Ata ed Ounis, i quali discutevano animatamente fra di loro.

«Nefer,» aveva detto Mirinri, dopo che le danzatrici avevano cominciate le loro danze. «Chi sono costoro?»

«Lo vedi, Figlio del Sole,» aveva risposto la fanciulla. «Delle giovani donne che sono discese dall’alto corso del fiume.»

«Sai perché ti ho fatto questa domanda?»

«No davvero, mio signore.»

«Perché Ounis mi aveva narrato, molto tempo fa, che si trova sul Nilo un’isola abitata esclusivamente da donne. Sarebbe questa?»

 

«Non lo so,» rispose Nefer. Mirinri la guardò con stupore.

«Non lo sai?»

«No.»

«Mi aveva detto anzi che vi era una regina che comandava a quelle fanciulle.»

«Può darsi.»

«Non saresti tu quella?»

«Non credo.»

«Eppure finora io non ho veduto nessun uomo qui.»

«Non è necessario.»

«Quale donna sei tu?» gridò Mirinri.

«Che ne so io?»

«Non lo sai?»

«No, Figlio del Sole,» disse Nefer, che era diventata pensierosa. «Vi è nella mia vita un mistero che tu cerchi di svelare; ma perderesti inutilmente il tuo tempo, perché io stessa non potrei sollevare il denso velo che l’avvolge. Mio signore, bevi: la vita è breve e la morte può piombare su di noi da un istante all’altro e farci attraversare il fiume infernale che divide i campi divini di Aanron. Bevi. L’ebbrezza è la vita.»

«E questa vita potrebbe spegnersi? Parla, Nefer! Io comincio ad aver paura di te.»

«Perché spegnersi?» chiese la fanciulla. «Se qualcuno ti minacciasse, saprei difenderti, come la leonessa difende la sua prole contro la ferocia del maschio affamato e molto meglio della Faraona che tu ami e che forse, sapendo chi tu sei, t’ucciderebbe.»

«Chi sei tu, dunque? Sono già parecchie volte che io te l’ho chiesto, Nefer.»

«Io l’ho domandato ad Amnone ed è rimasto muto; l’ho domandato a Tanen e non mi ha risposto; l’ho chiesto a Mâ, che rappresenta la verità e nulla mi disse; Râ, Horus, Ament, Hathor, Anoucke, Iside, Neith sono rimasti egualmente muti. Sono una Faraona ed una maliarda insieme; ho sangue divino nelle vene, al pari di te, perché porto il tatuaggio dei discendenti del Sole e sono nel medesimo tempo una povera fanciulla, una danzatrice, una suonatrice di sistro e una indovina. Sono io il destino od un essere divino? Io non lo so, mio signore. Oggi sono la principessa delle ombre: domani che cosa sarò? Nella mia vita ho un solo desiderio, e questo non posso confessartelo, quantunque mi bruci il cuore. E poi» riprese la fanciulla, dopo un momento di silenzio, con voce triste, «è una follìa che mi sarà fatale. No, Nefer non vedrà il suo dolce signore far tremare i nemici del grande Egitto, come l’invincibile suo padre.»

«Che cosa dici?» chiese Mirinri.

La fanciulla parve raccogliersi un istante, poi disse con voce ancora più triste:

«Ieri sera mentre attraversavo la foresta, immersa nei miei pensieri, ho avuto una visione.»

«Quale?»

«Ho veduto una immensa sala piena di gente: vi erano sacerdoti, guerrieri, alti dignitari ed un re, uno dei nostri Faraoni. Egli non era più sul trono dorato: giaceva sulle fredde pietre della superba sala, come tramortito, mentre un vecchio lo copriva d’invettive, minacciandolo col pugno ed una fanciulla, bella come un raggio di sole, lo supplicava inginocchiata ai suoi piedi. Sul trono dorato vi era un giovane, bello, forte, fiero che rassomigliava stranamente a te.»

«A me!» esclamò Mirinri, scattando.

«Sì.»

«Continua.»

«Egli guardava intensamente quella fanciulla supplicante, senza degnare d’uno sguardo un’altra, che fissava invece intensamente lui e che piangeva.»

«Chi erano?»

«Non lo so,» disse Nefer.

«E quel giovane?»

«Non so chi fosse.»

«Io, forse?…»

«Non lo so,» ripetè Nefer.

«Mi hai detto che somigliava a me. Tu sei indovina e puoi prevedere delle cose che io non potrei nemmeno lontanamente concepire.»

«Lasciami finire.»

«Continua, Nefer,» disse Mirinri che era in preda ad una viva eccitazione. «Che cosa è successo di quella fanciulla che si era inginocchiata dinanzi a quel vecchio?»

«Non l’ho più veduta.»

«Chi era quel vecchio?»

«Un re di certo, perché portava sulla testa il simbolo del diritto di vita e di morte.»

«E quel giovane che era sul trono?»

«Anche lui l’aveva.»

«E poi che cosa hai veduto?»

«Una fanciulla, stesa sul pavimento dell’immensa sala, che spirava, mentre le vôlte rintronavano d’un immenso grido: viva il re dell’Egitto!»

«Morta!» esclamò Mirinri, impallidendo.

«Mi parve che fosse agonizzante.»

«Forse la giovane Faraona?»

Nefer guardò Mirinri intensamente, poi come parlando fra sé, disse: «Pensa sempre a lei.»

«Aveva gli occhi neri?» chiese il Figlio del Sole, senza badare a quelle parole.

«Non lo ricordo.»

«I capelli nerissimi?»

«Le visioni si dimenticano facilmente.»

«Parla, Nefer!» gridò Mirinri con angoscia.

«Mi parve che avesse gli occhi sfolgoranti d’una luce bruciante.»

«Come i tuoi?»

«I miei? Non bruciano il cuore d’un Figlio del Sole,» rispose la fanciulla con un mesto sorriso. «Bevi, mio signore. Tu sei mio ospite oggi e il vino della calda Libia mette il fuoco nelle vene e dà l’obblìo.»

«Parla ancora!»

«Guarda: portano le vivande, mio signore e tu non hai mangiato da dodici ore. Divertiamoci e non pensiamo all’avvenire. Chi crede d’altronde ai sogni ed alle visioni? Io no e nemmeno tu che sei un Figlio del Sole.»

Le nubiane avevano interrotte le danze e una dozzina d’altre fanciulle coperte da leggerissime vesti rigate in azzurro, bianco e rosso e che avevano sul capo delle corone di fiori erano comparse, portando dei tondi d’argento colmi di manicaretti che esalavano un profumo appetitoso, mentre dall’alto, dallo squarcio aperto nel tetto, cadevano in tutte le direzioni mazzolini di fiori di loto.

Gli Egiziani nei loro banchetti amavano sfoggiare un lusso veramente straordinario e non lesinavano le portate. Non avevano certo raggiunto i Cinesi, i quali non si spaventavano dinanzi a quaranta o cinquanta piatti svariati, tuttavia abbondavano anche essi, servendo ai commensali un numero rispettabile di pasticci di carne, di uccelli acquatici cucinati in molte salse, di pesci, di legumi squisiti e di frutta, specialmente uva, datteri, fichi e semi di loto.

Al pari dei moderni orientali, non facevano uso né di coltelli né di forchette e mangiavano a due a due e anche in più al medesimo piatto, adoperando le dita, che poi pulivano con apposite salviette che loro offrivano gli schiavi o le schiave. Usavano però per le minestre dei cucchiai bellissimi, per lo più d’oro e d’argento, coi manichi squisitamente lavorati, che rappresentavano delle persone in atto di reggere faticosamente le estremità e delle teste di donna o dei gruppi di fanciulle in atto di lottare fra di loro.

Ma era sopratutto nel bere che eccedevano. Nei loro simposii, la birra ed il vino scorrevano a torrenti, talvolta troppo copiosi, poiché le pitture scoperte sui loro monumenti ci mostrano uomini e donne in preda a disturbi causati da eccessi di gola o condotti a casa in pieno stato di ubbriachezza su dei palanchini.

Una cosa però che ha colpito profondamente gli egittologi si è che nemmeno in mezzo alle loro orgie più sfrenate, i sudditi dei grandi Faraoni dimenticavano l’idea della morte, che pare fosse l’eterna preoccupazione di quegli antichissimi abitanti della fertilissima vallata del Nilo. Infatti in tutte le loro riunioni non mancavano quasi mai, nel colmo dell’allegria, di far comparire un piccolo feretro con una figura di legno così ben dipinta da rappresentare perfettamente un cadavere, che si mostrava a tutti i convitati più o meno ubriachi, dicendo loro: «Getta gli occhi su quest’uomo: tu gli rassomiglierai dopo la morte; bevi dunque ora e divertiti più che puoi!».

Se un anfitrione si permettesse ai nostri giorni un simile scherzo, non so quale pessimo quarto d’ora passerebbe e se le mani dei suoi ospiti rimarrebbero ferme; gli Egiziani invece non vi facevano alcun caso e quel piccolo feretro non guastava affatto il loro appetito, perché per loro la morte non aveva nulla né di terribile, né di ripugnante. Essa li spaventava anzi tanto poco, che si compiacevano di conservare talvolta in casa le mummie dei loro parenti per parecchi mesi, prima di farle trasportare definitivamente nella mastaba della famiglia e non era anche raro il caso che si riservasse a qualche mummia il posto d’onore nei banchetti, senza che la presenza di quel lugubre convitato, dalle pupille fisse e dal volto artefatto e accuratamente dipinto, che nascondeva la faccia sinistra del cadavere, raffreddasse la gaiezza dei suoi vicini viventi o li trattenesse dall’ubbriacarsi.