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Le figlie dei faraoni

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CAPITOLO VENTESIMO. Il quartiere degli stranieri

Menfi, che fu la capitale delle prime dinastie faraoniche, mentre Tebe la grande lo fu delle ultime, sorgeva sulla riva sinistra del Nilo. Fondata da Menes, uno dei più grandi re egiziani, circa sette od ottomila anni or sono, dopo lavori imponenti per trattenere le acque del Nilo ed impedire ad esse d’invadere la città durante le piene, aveva raggiunto rapidamente uno splendore immenso, tale anzi da formare la meraviglia del mondo antico.

Gli Egiziani, lo abbiamo già detto, erano grandi costruttori che ci tenevano a fabbricare le loro opere di dimensioni immense, e d’una solidità tale da sfidare i secoli; a Menfi avevano abbondato più che altrove in grandiosità, innalzando templi colossali, che un numero infinito di colonne reggevano, obelischi mostruosi, palazzi reali meravigliosi e piramidi. La città occupava un’area immensa, perché serviva d’asilo a molte centinaia di migliaia di abitanti, spingendo le sue ultime case fino sulle sabbie del deserto libico, su quelle sabbie traditrici, che dovevano più tardi concorrere potentemente alla sua distruzione, secondo la sinistra profezia di Geremia.

Tebe fu meravigliosa, ma non potè raggiungere mai lo splendore di Menfi, che fu la più popolosa città del mondo antico, come la più ricca, per monumenti e la più potente come piazza forte.

Come scomparve attraverso tanti secoli quella grandiosa città, senza lasciare quasi traccia della sua esistenza? Sembrerebbe impossibile, eppure di tutti quei monumenti colossali oggidì non sono rimaste a dimostrare il luogo ove un giorno sorgeva, altro che alcune piramidi che resistettero, assieme ad altre, agli insulti del tempo, un pezzo di una statua colossale che rappresenta Ramsete II ed una necropoli, la più antica del mondo, dacchè ha all’incirca 7000 anni d’esistenza e che nel tempo istesso è anche la più vasta, avendo una larghezza di ben sessanta chilometri. Tutto il resto è crollato, come se una spaventevole scossa di terremoto avesse tutto distrutto e quello che è più, perfino le rovine di quei colossali monumenti sono scomparse.

Là dove un giorno sorgeva orgogliosa la grande città dei più potenti e dei più fastosi Faraoni, ora non si scorgono che colline di sabbia. Nulla è rimasto di tanta gloria e possanza e la terra stessa, nutrice un giorno generosa di tante generazioni scomparse, sembra si sia perfino essa stessa stancata di germogliare, perché solo nei mesi di marzo e di aprile, allorquando le inondazioni hanno reso qualche vitalità alle sue vene dissanguate, essa si copre appena d’una magra vegetazione, che i venti caldi si affrettano poco dopo a disseccare.

La barca di Mirinri, o meglio di Nefer, trascinata dalla corrente che aumentava sempre, aprendosi al di sotto dell’immensa città le innumerevoli bocche del delta, s’avvicinava rapidissima a quella imponente linea di grandiosi monumenti e di superbi palazzi, che si estendeva per miglia e miglia lungo la riva sinistra del maestoso fiume.

Il giovane Figlio del Sole, sempre ritto sulla prora, guardava l’orgogliosa città senza fare un moto, né pronunciare una parola: pareva che fosse affascinato dalla grandezza e dallo splendore della capitale del più antico regno del mondo, entro le cui mura merlate e formidabili aveva aperto gli occhi alla luce, ma che dopo così tanti anni non ricordava più. Il suo viso aveva assunto un aspetto quasi selvaggio e la sua bocca semi aperta aspirava a pieni polmoni l’aria della immensa città, che una fresca brezza sospingeva, al di sopra del Nilo, verso il settentrione: aspirava il lontano profumo della giovane Faraona o la potenza del regno, che suo padre aveva salvato dalle invasioni barbariche degli asiatici?

Ben presto la barca si trovò dinanzi alle gigantesche dighe, formate da colossali blocchi di pietra, che in quei tempi remoti opponevano una barriera insormontabile alle piene periodiche del Nilo; esse erano ingombre di barche di tutte le dimensioni ancora occupati da schiere di schiavi, quantunque la notte fosse per calare.

Ata, che era quasi sempre vissuto a Menfi, diede ordine al comandante della barca di prendere terra all’estremità dell’ultima diga, che difendeva gli ultimi sobborghi del mezzodì, dove pochissimi erano i navigli, non osando sbarcare i suoi amici nel centro della città. La polizia del re poteva essere stata avvertita da qualche traditore del loro arrivo e prenderli subito. Nei lontani sobborghi la cosa era diversa ed in caso disperato potevano, coll’aiuto dei trenta etiopi, opporre una feroce resistenza e fuggire attraverso i canali del delta, prima che potessero giungere le guardie del re.

«Mentre io vado ad avvertire gli antichi partigiani di Teti,» disse Ata, quando la barca fu ormeggiata saldamente alla riva, «voi andrete ad abitare nel Ta-anch (quartiere degli stranieri) dove vi sarà più facile passare inosservati e là attendere il mio ritorno. Vi sarà facile trovare qualche casetta e spacciarvi per poveri battellieri assiri, caldei o greci.»

«Ed io riprenderò il mio mestiere d’indovina,» disse Nefer.

«Ecco una buona idea,» disse Ounis. «Mirinri si farà passare per tuo fratello, così ogni sospetto sul suo vero essere sarà maggiormente allontanato.»

«Dovrò fare l’istrione?» chiese Mirinri.

«Non è necessario, mio signore,» rispose Nefer. «Tu t’incaricherai solamente di ritirare il denaro. Sarai il mio cassiere ed insieme il mio protettore.»

«Se ciò è necessario per conquistarmi il trono, non mi rifiuterò,» rispose Mirinri, sorridendo. «Devo anch’io impormi dei sacrifici.»

«Siete pronti a sbarcare?» chiese Nefer.

«Tutti,» rispose Ounis.

La fanciulla s’avvicinò al comandante della barca, che pareva aspettasse i suoi ordini e dopo d’avergli mostrato nuovamente il gioiello strappato a Her-Hor, gli disse:

«La nave è tua, perché io te la dono, a condizione però che tu parta immediatamente e che tu scenda fino al mare. Colà potrai trafficare coi fenici, coi greci o coi siriani. Bada che se tu pronuncerai una parola con chicchessia di quanto hai veduto, la vendetta di Pepi saprà raggiungerti.»

«Obbedisco,» rispose semplicemente il capo dei barcaiuoli.

«Scendiamo,» disse Nefer.

Essendo la notte già calata, il molo era diventato deserto, sicché poterono sbarcare inosservati. Avevano appena messo il piede a terra, che la barca riprendeva subito il largo, scomparendo ben presto in uno dei numerosi canali del delta che conducevano al mare.

«Perché hai mandato via costui, Nefer?» chiese Mirinri alla fanciulla.

«Qualcuno poteva aver notato il tuo atto, allorquando Pepi passava presso di noi e una parola, un sospetto, potrebbe perderci. I traditori sono dovunque.»

«Ammiro la tua prudenza.»

«E non sarà mai troppa,» aggiunse Ounis. Poi, volgendosi verso Ata, disse: «Il nostro numero non attirerà l’attenzione degli abitanti del sobborgo?

«I miei etiopi hanno già ricevuto l’ordine di disperdersi e di aspettarmi nei pressi della piramide di Daschour. Sarà là che io radunerò tutti i vecchi partigiani di Teti.»

«E noi?»

«Troverò una casa. Vi è qui un vecchio mio amico, un siriano che io ho più volte soccorso e vi cederà la sua casa. Seguitemi e non parlate.»

Mentre gli etiopi si disperdevano, prendendo diverse direzioni, l’egiziano s’addentrò in una viuzza che era fiancheggiata da piccole case di forma quadrata, colle muraglie leggermente inclinate e prive di finestre. Non erano tutte del medesimo stile, essendo popolato, il quartiere destinato agli stranieri, da asiatici appartenenti a diverse razze e anche da commercianti della bassa Europa, specialmente dei dintorni del Mar Nero, ai quali il governo egiziano lasciava la libertà di scegliere quel genere di costruzioni che loro convenivano.

Il piccolo drappello, che prima di lasciare la barca si era munito di armi, non ignorando Ata che quel quartiere, se serviva d’asilo agli stranieri era pure abitato da corporazioni di ladri(), dopo d’aver percorso indisturbato parecchie viuzze si arrestò finalmente dinanzi ad una casetta di modesto aspetto, col tetto coperto di paglia. Ata entrò solo, essendo la porta aperta e poco dopo uscì assieme ad un uomo il quale, dopo d’aver fatto un muto saluto con una mano, si allontanò, scomparendo in fondo alla oscura viuzza.

«La casa è vostra,» disse allora Ata. «Il suo proprietario non verrà ad inquietarvi: consideratevi come legittimi proprietari. Sopratutto prudenza e obbedite a Nefer.»

«Quando tornerai?» chiese Ounis, che sembrava preoccupato.

«Appena avrò preparato il terreno pel gran colpo. Il tesoro deve essere già giunto e potrò assoldare un’armata tale da far tremare il Faraone.»

«Non contare i talenti, ricordatelo, Ata.»

«Ci saranno anche i miei e quelli dei vecchi amici di Teti,» rispose l’egiziano.

Salutò tutti tre, poi a sua volta si allontanò a rapidi passi, nella viuzza deserta.

«Entriamo nella mia reggia,» disse Mirinri scherzando. «Veramente non era questa che mi aspettavo a Menfi.»

«Sii paziente,» disse Ounis, con accento quasi di rimprovero.

«Non mi lagno. Quella che abitavo nel deserto era ben peggiore di questa, eppure ero forse allora più lieto.»

Entrarono, prendendo una lampadina di terra cotta che si trovava appesa allo stipite della porta e prima di tutto esplorarono minuziosamente la casetta.

Non vi erano che due sole stanze, di forma rettangolare, con le pareti ed il pavimento composto d’una specie di cemento a varie tinte, ammobiliate sobriamente, essendo i mobili di lusso riservati ai grandi signori del reame. L’unico letto consisteva in un pagliericcio di lino, pieno di foglie secche, gli arnesi della cucina in vasi di terra cotta, però non mancava un tavolo pieno di vasi e vasetti contenenti unguenti misteriosi e profumi, amando assai gli Egiziani fare ogni giorno una toletta accurata, anche se non appartenevano alle classi molto elevate.

 

«Tu ti coricherai nella seconda stanza, Nefer,» disse Ounis. «A noi basterà la prima, è vero, Mirinri?»

«Noi siamo già abituati a dormire sulle sabbie del deserto,» rispose il Figlio del Sole. «E poi dormirei anche sulla nuda terra di Menfi.»

«Che cosa provi, trovandoti qui, mio signore?» chiese Nefer.

«Non te lo saprei dire» rispose il giovane. «Mi sembra però di essere diventato un altro uomo. È l’aria di questa immensa città; è l’ansietà d’impegnare la lotta; è la sete di potere e di grandezza o qualche cosa d’altro, mi sento più felice qui, in questa umile dimora, che non sulla barca che Ata guidava sul Nilo. Sento finalmente di essere qualche cosa nel mondo; di non essere più un ignoto.»

«Sicché ti trovi pronto al supremo cimento,» disse Ounis, che lo osservava attentamente.

«Sì,» rispose Mirinri, «pronto a sfidare tutto e tutti.»

«A vendicare tuo padre ed a conquistare il trono?»

«Sì,» ripetè il giovane con suprema energia. «Quando i vecchi amici di mio padre avranno radunati i loro partigiani, io mi metterò alla loro testa e andrò a chiedere conto all’usurpatore del grande Teti, della sua corona ed a strappargli dalla fronte il simbolo di diritto di vita e di morte, che a me solo spetta.»

«Ma sii prudente, come ti ha detto Ata. Pepi deve aver organizzato un servizio di spionaggio per sorprenderti e chissà a quest’ora che non ti si cerchi in questa immensa città, quantunque io speri che abbiano perdute le nostre tracce dopo la nostra fuga dall’isola delle ombre.»

«Rimarrò nascosto in questa casa fino al ritorno di Ata?»

«No, sarebbe un’imprudenza,» rispose Ounis. «Un uomo che si guadagna da vivere non desta sospetti; uno che vive senza poter dimostrare di possedere, può allarmare la sospettosa polizia di Pepi. Segui Nefer: una indovina può ben avere un fratello.»

«Farò come mi consigli,» rispose Mirinri, sorridendo. «Due Faraoni che battono la via come due istrioni!»

«È tardi,» disse il vecchio. «A te il letto, Nefer; noi ci accontenteremo dei tappeti che si trovano nella stanza attigua.»

«A domani, mio signore,» disse la fanciulla. «Impareremo, quantunque siamo Figli del Sole, a guadagnarci la vita.»

Spensero la lampada e si coricarono: Nefer sul lettuccio e Ounis e Mirinri su una stoffa grossolana, formata di fibre vegetali, che occupava una parte della seconda stanza.

CAPITOLO VENTUNESIMO. Le profezie di Nefer

L’indomani Nefer e Mirinri percorrevano le vie del quartiere degli stranieri, accompagnati dal vecchio Ounis, il quale si era procurato un tabl, ossia una specie di tamburo di terracotta in forma d’un lungo cilindro, chiuso in alto da una pelle, che percuoteva vigorosamente colla mano, onde attirare l’attenzione dei passanti. Le indovine, che erano nell’istesso tempo venditrici di ricette miracolose, erano tenute in molta stima presso gli antichi egizi, i quali credevano ciecamente alle profezie di quelle astute donne e all’efficacia delle loro polveri misteriose.

Nefer, che per volere di Her-Hor aveva esercitata quella lucrosa professione nelle borgate dell’alto Nilo in attesa di Mirinri, non si era trovata imbarazzata a riprenderla e si era senz’altro installata sulla prima piazza del quartiere, richiamando subito attorno a sé una folla di curiosi, attratti forse più di tutto dalla sua meravigliosa bellezza e dalla ricchezza dei suoi gioielli. Sedutasi su una stuoia, che Mirinri le aveva portata e accompagnata dal rullare sordo del tabl, che il vecchio Ounis suonava come se non avesse mai fatto altro in vita sua, aveva lanciato colla sua voce armoniosa, in volto agli accorsi, il suo richiamo.

«Io sono uscita dalla scuola di medicina di Heliopolis, dove i vecchi del grande Tempio mi hanno insegnato i loro rimedi.

«Io ho studiato alla scuola di Sais, dove la Grande Madre divina mi ha donate le sue ricette.

«Io posseggo gl’incantesimi composti da Osiride in persona e la mia guida è il dio Toth, inventore della parola e della scrittura.

«Gli incantesimi sono buoni pei rimedi ed i rimedi sono buoni per gl’incantesimi.»

Una vecchia egiziana si era subito avanzata e, dopo una breve esitazione, le disse:

«Dammi una ricetta per mia figlia che non può più nutrire il suo bambino ancora lattante.»

«Prendi delle testuggini del Nilo e falle friggere nell’olio e avrà latte in abbondanza,» rispose Nefer.

Un’altra donna si era fatta innanzi.

«Voglio conoscere se il figlio che mi nascerà avrà lunga vita o se morrà presto.»

«Se quando aprirà gli occhi dirà ni, egli vivrà molti anni; se dirà mba la sua vita si spegnerà presto,» rispose Nefer.

Un vecchio si era a sua volta accostato, dicendo:

«Nel mio giardino v’è un serpente che ogni sera esce dalla sua tana e mi divora i polli. Insegnami il modo che non lasci più il suo buco.»

«Metti dinanzi al suo covo un pagre (specie di pesce del Nilo) che sia ben secco ed il serpente non potrà più uscire.»

«Insegnami anche a tener lontani i sorci che divorano le mie granaglie.»

«Ungi le pareti del tuo granaio con olio di gatto e non li vedrai più comparire; oppure brucia del letame secco di gazzella, raccogli le ceneri, bagnale con acqua e copri il pavimento.»

Poi si fece innanzi una giovanetta.

«Che cosa vuoi, tu?» chiese Nefer.

«Insegnami il modo di far diventare bianchi i miei denti e di profumare la mia casa, onde rendere più lieto il mio fidanzato.»

«Prendi della polvere di carbone d’acacia ed i tuoi denti diverrano più candidi dell’avorio degli ippopotami. Se vuoi profumare le tue stanze, mescola dell’incenso, della mimosa, della resina di terebinte, scorza di cinnamono, lentischi, calamo aromatico di Siria, riduci tuttociò in polvere impalpabile e gettala su un braciere. Il tuo fidanzato non avrà da lagnarsi della squisitezza del tuo profumo.»

«E tu?» chiese poi Nefer, rivolgendosi ad un soldato che aveva una benda che gli copriva parte del viso.

«Pronuncia un incantesimo, brava fanciulla,» rispose il guerriero, «onde mi faccia guarire il mio occhio destro che una freccia siriana mi ha rovinato.»

Nefer si alzò, tese le braccia, tracciò in aria dei segni misteriosi, poi disse:

«Un rumore s’alzò verso il sud del cielo, ed appena la notte cadde, quel rumore si propagò fino al nord. L’acqua scrosciò sulla terra in grandi colonne ed i marinai della Barca Solare di Râ batterono i loro remi, per farsi bagnare anche le loro teste. Io porgo la tua testa a quella pioggia benefica, onde cada anche sul tuo occhio ferito ed invoco per guarirtelo il dio del dolore e la Morte della Morte. Applicati ora del miele sul tuo occhio e tu guarirai, perché Toth così ha insegnato.»

Un altro guerriero, molto giovane e molto macilento, aveva preso subito il posto dell’altro:

«Fanciulla,» le disse, «pronuncia anche per me un incantesimo, onde mi liberi dalla tenia che mi esaurisce.»

«Ti guarirò subito,» rispose Nefer, sempre seria. «Oh jena cattiva, oh jena femmina! Oh distruttore! Oh distruttrice! Udite le mie parole: Che cessi la marcia dolorosa del serpente entro lo stomaco di questo giovane! È un dio cattivo che ha creato quel mostro, un dio nemico: che egli cacci il male che ha fatto a quest’uomo od invocherò il bacino di fuoco onde bruci e distrugga l’uno e l’altro. Va’! Tu fra poco non soffrirai più.»

Anche il giovane guerriero se ne andò, più che convinto di dover fra poco guarire, poiché gli antichi egizi avevano più fede nelle invocazioni che nell’efficacia delle medicine.

Quella prima giornata trascorse in continue invocazioni, le une più strane delle altre ed in dispense di ricette, non meno straordinarie, accorrendo continuamente uomini e donne attorno alla bella fanciulla e non fu che ad ora molto tarda che i due Figli del Sole ed il vecchio Ounis poterono ritirarsi nella loro casetta, ben provvisti di denaro, e lieti di non aver suscitato il più lontano sospetto sul loro vero essere.

Chi d’altronde avrebbe potuto supporre che il figlio del grande Teti per sfuggire alle ricerche della polizia di Pepi si fosse adattato a diventare una specie d’istrione?

«Sei contento, mio signore?» chiese Nefer a Mirinri, che contava ridendo i denari guadagnati.

«Sei una fanciulla che vali quanto pesi,» rispose il giovane. «Se un giorno diverrò re ti farò nominare grande indovina del regno. Peccato che io non era fra il pubblico.»

«Perché?»

«Ti avrei chiesto di predirmi il mio destino.»

«Te l’ho già predetto quando scendevamo il Nilo.»

«Che io diventerò re?»

«Sì.»

«Non mi basta.»

Nefer ebbe un sussulto e corrugò lievemente la fronte, mentre un sospiro le moriva sulle labbra.»

«Ti ho compreso,» disse poi con voce lenta, lasciandosi cadere su una scranna ed appoggiando la testa sull’orlo della vicina tavola. «Io ho letto il tuo pensiero.»

«Non sei una indovina tu?»

«È vero.»

«Dunque? Fuori la tua profezia.»

«La vedrai.»

«In Menfi?»

«Qui, in questa città.»

Questa volta fu il giovane che ebbe un forte sussulto, mentre il suo viso s’imporporava, come quello d’una fanciulla quando si reca al suo primo appuntamento d’amore.

Nefer si coprì gli occhi con ambe le mani, comprimendoseli fortemente.

«La vedo,» riprese dopo alcuni istanti di silenzio, come parlando fra sé. «È coricata su una portantina sfolgorante d’oro che otto schiavi nubiani sorreggono e dinanzi a lei s’avanza maestoso un toro tutto nero che ha le corna dorate. Tintinnano i sistri sacri, salgono al cielo le note deliziose delle arpe e delle chitarre e rimbombano i tamburi… le danzatrici intrecciano danze intorno alla portantina regale e fissano l’ureo che scintilla fra le trecce nere della bella Faraona. Vedo carri guerreschi montati da soldati… vedo arcieri e guardie… odo il rombo degli applausi che la folla tributa alla figlia del più possente re dell’Africa. Ah! Quel grido! Quel grido!»

Nefer aveva abbassate le mani ed era balzate in piedi, guardando con terrore Mirinri che le stava diritto dinanzi, ascoltandola attentamente.

«Cos’hai, Nefer?» chiese il giovane, turbato da quell’improvviso scatto.

«Ho udito un grido.»

«E così?»

«E quel grido era tuo, mio signore. Sì, io l’ho udito distintamente.»

«E poi? Continua.»

«Non vedo più nulla dinanzi ai miei occhi. Tutta la visione è scomparsa in mezzo ad una fitta nebbia.»

«E quel grido ti ha spaventata?»

«Sì.»

«Ma perché?»

«Non lo so… eppure nell’udirlo, il mio cuore si è ristretto come se una mano di ferro l’avesse preso e compresso.»

Ounis, che fino allora era rimasto nella stanza attigua, occupato a preparare un certo pasticcio a base di datteri secchi e di semi di pianta del loto, si era affacciato alla porta, guardando Nefer con una specie di terrore. Doveva aver udite le sue parole, poiché il suo viso, ordinariamente calmo, appariva in quel momento estremamente alterato.

«Nefer,» disse, con voce rotta, «sei tu veramente una indovina? Credi di poter leggere nel futuro? Dimmelo, fanciulla mia.»

«Lo spero,» rispose Nefer, che era tornata a sedersi, appoggiando nuovamente il capo sull’orlo del tavolo.

«Di chi era quel grido?»

«Di Mirinri.»

«Non ti saresti ingannata?»

«No.»

«Ne sei ben certa?»

«Conosco troppo bene la voce del mio signore.»

«Io ho udito quanto tu hai narrato a Mirinri,» riprese Ounis, con una certa ansietà che non isfuggì al giovane Figlio del Sole. «Copriti gli occhi e tenta di vedere che cosa è successo dopo.»

Nefer obbedì e stette parecchi minuti silenziosa. Ounis la osservava attentamente, con angoscia, cercando di sorprendere sul suo viso un moto, un sussulto qualsiasi, invece i lineamenti della fanciulla rimanevano impassibili.

«Dunque?» chiese il vecchio.

«Nebbia… sempre nebbia.»

«Non riesci a scorgere nulla attraverso quel denso velo?»

«Sì, aspetta… delle colonne dorate… un trono sfolgorante di luce… poi un uomo… ha il simbolo del diritto di vita e di morte sulla parrucca…»

«Com’è? Giovane o vecchio?»

«Aspetta…»

«Guardalo attentamente.»

«È lui.»

«Chi lui?»

«Il Faraone che abbiamo veduto sulla barca dorata… l’uomo contro cui Mirinri aveva teso l’arco.»

«Pepi!» gridò Ounis.

«Sì… è lui… lo vedo ora distintamente.»

«Che cosa fa?…»

«Non aver fretta… vedo la nebbia turbinare attorno a lui… ora mi appare col viso sconvolto da una collera tremenda… ora tremante e pallido… ora scompare… Ah! Vi sono delle persone attorno a lui… un altro vecchio… ha nelle mani un ferro ricurvo… uno di quei ferri che adoperano i preparatori di mummie per estrarre dalle nari il cervello dei morti… poi vedo pendergli dalla cintura una di quelle pietre taglienti dell’Etiopia di cui si servono per aprire il fianco ed estrarne gl’intestini…»

 

«Chi vuole imbalsamare?» gridò Ounis, con terrore.»

«Non lo so.»

«Guarda, guarda: fora la nebbia coi tuoi sguardi penetranti. Te ne prego, Nefer.»

«Non vedo più nulla… ah! Sì, ecco un’altra sala più meravigliosa dell’altra… popolo, soldati, sacerdoti… il Faraone… che apre il naos, il reliquario del dio… ah! Lui!»

«Chi?»

«Her-Hor?»

«Il sacerdote che hai ucciso?»

«Sì.»

«Vivo?»

«Vivo,» rispose Nefer, mentre un tremito scuoteva il suo corpo. «Ecco l’uomo fatale… giungerà all’ultima ora… e sarà fatale a me… a me… a me…»

«Che cosa dici, Nefer?» chiesero ad una voce Ounis e Mirinri.

La fanciulla non rispose. Si era abbandonata addosso alla tavola, come se un profondo sonno l’avesse improvvisamente sorpresa.

«Dorme,» disse Mirinri.

«Taci,» rispose Ounis. «Agita le labbra: parlerà forse ancora pur dormendo.»

La fanciulla, che si era assopita, pareva che facesse degli sforzi supremi per muovere la lingua e le labbra.

«Râ segna il giorno,» disse ad un tratto con voce fievole «Osiride la notte. L’alba è la nascita, il crepuscolo della sera la morte, ma ogni giorno che spunta il viaggiatore rinasce a vita novella dal seno di Nout e sale gloriosamente in cielo, ove naviga sulla barca leggera, combattendo vittoriosamente il male e le tenebre che fuggono dinanzi a lui. Alla sera la notte trionfa. Il sole non è più Râ il potente, lo sfavillante, esso diventa Osiride, il dio che veglia fra le tenebre e la morte. La sua barca celeste percorre i tetri canali della notte, dove i demoni cercano assalirla e dopo mezzanotte essa risale dal baratro tenebroso e la sua corsa diventa più rapida e più aerea ed al mattino ritorna sfolgorante di luce e vittorioso. Tale è la vita e tale è la morte. Perché Nefer avrà paura?»

«Sogna!» esclamò Mirinri: «che strana fanciulla!»

Ounis che stava curvo verso la giovane per non perdere una sola parola, si era alzato e, posando le sue mani sul giovane Faraone, gli disse:

«Guàrdati, Mirinri. Questa fanciulla ha veduto un pericolo. Sta in guardia!»

«Credi tu alle visioni di Nefer?»

«Sì,» rispose Ounis.

«Credi dunque al destino?»

«Sì,» ripetè Ounis.

«Ed io non credo che alla mia stella, che sale sfolgorante in cielo; al suono che diede all’alba la statua di Memnone e al fiore della risurrezione che schiuse le sue corolle fra le mie mani,» rispose Mirinri. «Profetizzavano che io un giorno sarei diventato re; e re diventerò, Ounis, perché nessuno spezzerà il mio destino.»