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Le figlie dei faraoni

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CAPITOLO VENTIDUESIMO. Il grande sacerdote di Ptah

Per parecchi giorni Nefer, Ounis e Mirinri si fecero vedere ora nell’una ed ora nell’altra piazza del quartiere degli stranieri, l’una pronunciando incantesimi ed insegnando ricette, l’altro a far l’officio di cassiere ed il terzo a far rullare senza posa il suo tamburo di terracotta, con una costanza invidiabile. Cominciavano ad impazientirsi ed a temere che Ata non fosse riuscito a realizzare le sue speranze, quando la sera del quindicesimo giorno da che si trovavano in Menfi, udirono a bussare alla porta tre colpi.



Ounis e Mirinri, che temevano sempre qualche sorpresa da parte delle spie di Pepi, afferrate le loro daghe si erano slanciati nella prima stanza, interrompendo bruscamente il loro pasto serale, risoluti a qualunque cimento. Udendo risuonare tre altri colpi, più violenti dei primi, Mirinri che non era molto paziente e sempre pronto ad affrontare qualunque pericolo, aveva chiesto con voce minacciosa:



«Chi è l’importuno che viene a disturbarci?»



«Sono io: Ata. Silenzio, mio signore.»



Mirinri aveva aperto e l’egiziano era entrato rapidamente, chiudendo dietro di sé la porta.



«Temevo di non ritrovarvi più,» disse.



«Perché?» chiese Ounis.



«Corre voce che Mirinri sia già riuscito a mettere piede in Menfi.»



«Chi te lo ha detto?»



«Me lo ha riferito un mio amico che ha relazione con la corte ed ha aggiunto che Pepi non dorme più tranquillo e che ha sguinzagliato per tutta la città le sue guardie.»



«Lo sa la popolazione?» chiese Mirinri che non sembrava affatto impressionato.



«Può darsi.»



«E sa che Mirinri è figlio del grande Teti?»



«Gli amici di tuo padre, mio signore, da anni e anni hanno sparsa la voce che il figlio del vincitore dei Caldei non è misteriosamente scomparso come suo padre. È vero, Ounis?»



Il vecchio approvò con un gesto del capo.



«Ah! Il popolo lo sa che io sono ancora vivo e che un giorno andrò a chiedere stretto conto, all’usurpatore, del trono che mi ha rubato.»



«Sì, mio signore.»



«E mi attende?»



«Forse.»



«Forse!» esclamò Mirinri, corrugando la fronte.



«Pepi è possente: è re dell’Egitto.»



«Un ladro!» proruppe Mirinri, violentemente. «Vedremo se il giorno in cui, su un carro di battaglia, percorrerò le vie dell’orgogliosa Menfi, proclamandomi re della stirpe faraonica ed evocando le glorie di mio padre, il popolo rimarrà insensibile. Io solo sono il Figlio diretto del Sole! Io solo discendo da Râ e da Osiride!»



«Ecco il figlio di Teti,» disse Ounis, con un sorriso d’orgoglio. «È il sangue del guerriero che parla. Sì, tu un giorno sarai un grande re, Mirinri! Nel deserto il tuo cuore sonnecchiava; l’aria di Menfi l’ha risvegliato. Ata, che cosa ci rechi tu?»



«Notizie importanti, Ounis,» rispose l’egiziano. «Tutti i vecchi amici di Teti hanno raccolto i loro partigiani ed ho assoldato tremila schiavi etiopi, ai quali ho promesso la libertà se il figlio di Teti riuscirà a strappare il trono all’usurpatore. Ho profuso l’oro che ti apparteneva e che amici devoti hanno trasportato a Menfi, ma frutterà.»



«Siete pronti?»



«Tutti decisi a morire pel trionfo del giovane Figlio del Sole,» disse Ata. «Domani sera noi saremo raccolti nella immensa piramide di Daschour e vi aspetteremo per tentare il colpo supremo. Sarà un’onda gigantesca di ferro e di fuoco che si rovescerà su Menfi e che travolgerà l’usurpatore.»



«Ed io sarò alla testa di quell’onda!» esclamò Mirinri. «Chi mi arresterà?»



«Forse il destino,» disse Nefer, che fino allora era rimasta silenziosa.



«Spezzerò anche quello,» disse il giovane.



«Io ho paura del toro nero dalle corna dorate: l’ho sognato anche ieri sera.»



«Chi è?» chiese Mirinri.



«Il dio Api.»



«Nel deserto dove sono stato allevato io non l’ho mai veduto.»



«Rappresenta il Nilo fecondatore.»



«Ed io rappresento la forza ed il potere. Vale più il tuo toro nero dalle corna dorate, Nefer, od il Figlio del Sole?»



«Dietro al toro, tu incontrerai due occhi che ti saranno fatali.»



«Quali?»



«Tu li conosci senza che io te lo dica.»



«Ah!» fece Mirinri. «Sogni sempre, fanciulla.»



«Quando partiremo?»



«Domani,» disse Ounis.



«Domani! Voglio vedere il palazzo che un giorno sarà mio. Si dice che sorge su una collina, fra giardini incantati. Là dentro andrò ad afferrare l’usurpatore e là gli strapperò il simbolo del diritto di vita e di morte, che egli mi ha rubato!



«Durante la traversata della città non fatevi notare, né per la vostra troppa fretta, né per la vostra curiosità e sopratutto non parlate, né chiamatevi per nome,» disse Ata. «Le guardie del re sono in caccia, ve lo ripeto.»



«Non temere, Ata,» rispose Ounis. «Ci sarò io a frenare l’impazienza di Mirinri.»



«Domani sera, subito dopo il tramonto, ci troverete tutti,» disse l’egiziano. «Ritorno nel centro della città; la via è lunga e la notte è calata.»



Mirinri e Ounis lo accompagnarono fino alla porta. Ata guardò prima attentamente a destra ed a sinistra, e, non scorgendo nessuno, s’allontanò a rapidi passi.



Era già uscito dal quartiere degli stranieri e stava per avanzarsi sulla magnifica strada che costeggiava le colossali dighe erette lungo il Nilo per preservare la città dalla piena, quando s’incontrò con un uomo che era improvvisamente sorto da un ammasso di pietre enormi, che dovevano probabilmente servire a qualche colossale costruzione.



«Che Osiride vegli su di te,» gli disse lo sconosciuto.



«Che Râ ti sia propizio anche dopo la mezzanotte,» rispose Ata, continuando la sua via.



Udendo quella voce lo sconosciuto aveva avuto un sussulto.



Finse di allontanarsi, poi quando vide Ata a sparire sotto la cupa ombra che proiettavano le palme costeggianti le dighe, tornò prontamente verso l’ammasso di pietre, mandando un leggero sibilo. Due uomini, giovani e robusti, che portavano sul capo due penne di struzzo piantate obliquamente nelle loro parrucche, distintivo delle guardie del re, e ai fianchi delle kalasiris di grosso lino a tre punte, ed ai piedi dei sandali di paglia, si erano subito alzati, tenendo in mano due daghe corte, colla lama molto larga e due archi.



«L’ho ritrovato,» disse colui che aveva mandato quel sibilo.



«Era proprio lui?» chiese uno dei due.



«Sì.»



«Non ti sei ingannato, gran sacerdote?»



«Quando Her-Hor ha veduto una sola volta un volto, non lo dimentica più mai. Era proprio l’uomo che accompagnava il vecchio Ounis e Mirinri.»



«Che cosa sarà venuto a fare qui?»



«Non lo so, Maneros. Ah! Se questa sera non lo avessimo perduto di vista fra la folla che ingombrava la piazza, a quest’ora forse Mirinri sarebbe in nostra mano, poiché sono certo che se Ata è qui, vi è pure il figlio di Teti. Pazienza, lo troveremo prima che tenti qualche colpo disperato contro il re, e allora Nefer mi pagherà quel colpo di daga che per poco non mi mandava a navigare sulla barca lucente di Râ.»



«Che cosa dobbiamo fare?» chiese colui che si chiamava Maneros. «Raggiungerlo e ucciderlo?»



«Seguirlo, scoprire il suo rifugio e sorvegliarlo attentamente. Sono certo che egli sta raccogliendo i vecchi amici di Teti. Faremo un gran colpo e delle mani tagliate ve ne saranno molte in Menfi, fra poco,» disse il vecchio sacerdote, con voce strozzata. «Non sono vissuto che per la vendetta e li avrò tutti due insieme, anzi tutti tre.»



«E tu, non vieni, gran sacerdote?»



«Vi seguirò sul carro,» rispose Her-Hor. «Sono ancora troppo debole e la terribile ferita non si è ancora completamente rimarginata. Partite o lo perderemo un’altra volta di vista.»



I due soldati che, come abbiamo detto, erano giovani e anche agili, si slanciarono a corsa sfrenata sulla via, tenendosi sotto l’ombra che proiettavano i filari delle dum e delle camerope a ventaglio, onde non farsi scorgere da Ata.



Il vecchio sacerdote attraversò la diga e raggiunse un piccolo carro che stava nascosto dietro un gruppo d’alberi, guardato da uno schiavo nubiano, di forme atletiche.



I carri egiziani erano ben lungi dal somigliare ai nostri, quantunque fossero tirati pure da buoi, più piccoli dei nostri e lesti come gli zebù, usati oggi dalle popolazioni dell’India. Erano leggere vetture, somiglianti alle bighe romane; con due sole ruote dipinte ordinariamente in verde, molto rialzate sul dinanzi e aperte invece di dietro, che potevano servire tutt’al più a due sole persone, le quali si tenevano in piedi.



Talvolta, invece di essere tirate da buoi lo erano da cavalli, ma queste servivano per lo più ai soldati, non avendo gli antichi egizi mai fatto uso di una vera cavalleria, non avendo mai avuto l’idea – e questa è strana – di servirsi dei cavalli come cavalcature! Occorsero migliaia e migliaia d’anni prima che quegli uomini, che erano pur così innanzi nella civiltà e così intelligenti, avessero potuto comprendere che il cavallo era adatto a lasciarsi montare.



Her-Hor, che pareva si reggesse a stento, si fece deporre sul carro, poi i due piccoli buoi, aizzati dallo schiavo, presero un’andatura abbastanza rapida, un piccolo galoppo che doveva permettere al sacerdote di raggiungere le due guardie del re, prima che Ata tornasse a scomparire fra le vie intricatissime della grande città. La strada costeggiante il Nilo era deserta, avendo gli Egiziani l’abitudine di ritirarsi presto nelle loro case, sicché il carro poteva procedere rapidamente, senza essere obbligato a deviare od arrestarsi. Lo schiavo che correva a piedi, aizzava d’altronde di continuo i buoi, costringendoli a mantenere il loro galoppo.



Ben presto Her-Hor si trovò nel centro della grande città. Il carro aveva lasciato l’immenso viale e trottava fra due file di case di forme massiccie, interrotte di quando in quando da templi meravigliosi, che lanciavano le loro colonne ad altezze straordinarie. Era il quartiere di Ambù, il più splendido di Menfi, ricco di monumenti grandiosi e dove si addensavano i ricchi della capitale egiziana.

 



«Dove?» chiese ad un tratto il nubiano, volgendosi verso Her-Hor.



«Al tempio di Ptah,» rispose il vecchio. «Vedi le due guardie?»



«No, gran sacerdote.»



«Aspetterò al tempio il loro ritorno.»



Il carro riprese la corsa, poi si arrestò su una vasta piazza, nel cui centro s’alzava un edificio colossale, dinanzi alla cui porta, sorretta da due altissime colonne, giganteggiava una sfinge colla testa del re Menes, il fondatore di quell’opera grandiosa che tutti gli stranieri ammiravano stupiti. Era il tempio di Ptah, che era il più vasto ed il più celebre che avesse Menfi.



Il carro si era appena fermato, quando due uomini comparvero improvvisamente, attraversando la piazza di corsa. Il nubiano aveva estratta dalla cintura una specie d’ascia, ma le penne di struzzo che ondeggiavano sulla testa dei due corridori lo rassicurarono subito.



«Le guardie del re,» disse a Her-Hor.



Erano infatti i due soldati che il vecchio sacerdote aveva lanciati sulle orme di Ata.



«Lo hai raggiunto, Maneros?» chiese Her-Hor, quando le due guardie furono vicine.



«Sì,» rispose il soldato, che sudava come fosse allora uscito da una vasca.



«Dov’è andato?»



«Tu avevi indovinato, grande sacerdote. I vecchi partigiani di Teti preparano un gran colpo per rovesciare il re.»



«Come lo sai tu?» chiese il vecchio vivamente.



«Ho scoperto il luogo ove si radunano.»



«Continua.»



«Hanno forzata l’entrata della grande piramide di Daschour ed è la dentro che si radunano i ribelli.»



«Nella piramide?» esclamò Her-Hor.



«Sì, gran sacerdote.»



«Hanno violato il sepolcro! La punizione sarà doppiamente tremenda! Sono in molti?»



«Lo credo e devono essere anche bene armati, perché abbiamo veduto entrare nella piramide parecchi uomini carichi d’armi. Che cosa dobbiamo fare, gran sacerdote?»



Her-Hor stette alcuni istanti silenzioso, poi disse:



«È domani che si condurrà il dio Api ad abbeverarsi nel Nilo, è vero?»



«Sì, gran sacerdote,» rispose Maneros.



«La cerimonia riuscirà più splendida e più gradita alle nostre divinità, se sarà accompagnata da parecchi carri pieni di mani tagliate. Faremo una grande offerta ai numi del Nilo, e quelli ci saranno riconoscenti. La barca d’Osiride sta per rimontare in cielo: i ribelli devono dormire. È il momento buono per sorprenderli nel loro covo e renderli per sempre impotenti. Pepi si sbarazzerà così anche degli ultimi partigiani di suo fratello ed il popolo questa volta nulla potrà dire.»



«Attendo i tuoi ordini, gran sacerdote,» disse Maneros.



«Manda il tuo compagno al palazzo reale, onde informi Pepi di quanto succede. Raccoglierà tutta la guardia reale e io la guiderò senza indugio alla piramide. Prima che l’alba sorga, tutto deve essere finito.»



Si levò da un dito un anello e lo porse al compagno di Maneros.



«Con questo, tutte le porte del palazzo ti saranno aperte ed il re ti accoglierà subito. Va’ e non perdere tempo.»



Il soldato partì, veloce come una freccia, dirigendosi verso la collinetta sulla cui cima giganteggiava il meraviglioso palazzo dei Faraoni.



«Alla piramide,» disse poscia Her-Hor, rivolgendosi al nubiano che aspettava i suoi comandi a fianco dei buoi.



«E io?» chiese Maneros.



«Mi scorterai,» rispose il sacerdote. «Conosci tutti i passaggi della piramide?»



«Sì, Her-Hor,» rispose Maneros. «Sono stato io che ho murata l’ultima pietra, dopo che fu sepolta la principessa.»



«Sicché tu puoi guidare con piena sicurezza le guardie del re attraverso i corridoi della mastaba?»



«Conosco tutte le serdab che conducono nella cripta centrale dove riposa, entro il suo sarcofago di basalto azzurro, la salma della graziosa e soave Rodope.»



«Come potremo sorprenderli?»



«Scendendo dalle gallerie superiori.»



«Va bene: partiamo. Pepi mi sarà riconoscente e tu avrai un bel grado, se riusciremo nel nostro intento. Mai il trono dei Faraoni ha corso un pericolo così grande e sta a noi salvarlo.»



«Io sono pronto a morire per il re.»



«Alla piramide,» disse Her-Hor al nubiano.



Il carro si rimise in marcia, attraverso le deserte vie dell’immensa città, dirigendosi verso il sud, là dove si stendeva la gigantesca necropoli menfina, che occupava quasi tutta la punta del Delta per una lunghezza di più leghe, spingendosi verso l’altipiano formato dalle ultime ondulazioni della catena libica. Là da migliaia e migliaia d’anni venivano sepolti i cadaveri a milioni e milioni.



Il carro, raggiunto l’ultimo lembo della città, si trovò finalmente in aperta campagna. Nelle tenebre giganteggiavano alcune piramidi fra cui una di mole smisurata, che lanciava orgogliosamente la sua cima al di sopra delle palme, proiettanti la loro ombra sulla necropoli sotterranea. Il nubiano aveva arrestato i buoi, guardando il sacerdote.



«Che cosa vedi?» chiese Her-Hor.



«Vi sono dei soldati,» rispose lo schiavo.



«Non aver paura: non sono qui per arrestare noi.»



Alcuni uomini, che portavano sul capo degli elmetti di cuoio e che avevano il petto difeso da una specie di corazza formata da fibre di papiro strettamente intrecciate, si erano fatti innanzi cogli archi tesi, pronti a scoccare le loro freccie.



Maneros si era subito slanciato dinanzi ai buoi, dicendo:



«Fate largo a Her-Hor, il gran sacerdote del tempio di Ptah: ordine del re.»



I guerrieri abbassarono gli archi e caddero in ginocchio, battendo la fronte al suolo ed il carro proseguì, arrestandosi di fronte alla grande piramide, dove riposavano le spoglie della bella Rodope.



CAPITOLO VENTITREESIMO. L’assalto alla piramide di Rodope

Nell’epoca in cui Menfi aveva raggiunto il suo massimo splendore, numerose piramidi s’alzavano nei suoi dintorni, non meno gigantesche di quelle che sussistono oggi e che formano oggi l’ammirazione dei viaggiatori perché prima cura di ogni capo d’una nuova dinastia era quella di prepararsi un sepolcro, che servisse di ricovero alla sua salma ed a quella dei suoi discendenti.



La costruzione della piramide cominciava subito dopo la sua incoronazione, certo con non molto piacere dei suoi sudditi, i quali erano costretti a lavorare anni ed anni duramente, senza percepire alcun stipendio, poiché i re si limitavano a nutrire quei disgraziati operai con rape e con legumi, che però importavano sempre una spesa enorme, poiché si trattava di dare da mangiare a migliaia e migliaia di bocche, per parecchi lustri di seguito. Si sa per esempio che la costruzione della piramide di Cheope che è la più grande che ancora sussista, costò la bagatella di mille e seicento talenti, pari a novecento milioni, spesi in soli legumi! …



Fino a che il re viveva, il lavoro non veniva interrotto, sicché la piramide continuava ad ingrandirsi, aggiungendovi, senza posa intorno pietre enormi, cosicché più immense diventavano a misura che si prolungava la vita del sovrano. Quella di Cheope per esempio è la più colossale, perché il re che la fece costruire visse cinquantasei anni dopo la sua salita al trono. Essa è la meraviglia del genere, misurando duecento e ventisette metri per lato ed un’altezza di cento e trentasette, ma si crede che fosse assai più vasta e più alta e che la sua vetta sia stata in parte distrutta assieme ad una buona parte del suo rivestimento esterno. Comunque sia, desta sempre una profonda impressione al viaggiatore per la sua massa enorme e per la grandiosità delle sue linee e pari effetto producono le sue sorelle minori che le stanno ai fianchi, quelle chiamate Chefren e Mycerino, benché assai più piccole.



All’infuori però della meraviglia prodotta dalla mole, le piramidi egiziane non hanno nulla che possa interessare l’artista, essendo formate di enormi massi perfettamente lisci, senza alcuna scultura. Gli Egiziani non contavano certamente di fare delle opere d’arte, bensì di preparare al loro re un asilo sicuro, indistruttibile, che potesse sfidare i secoli e dove la mummia reale potesse riposare indisturbata fino alla fine del mondo.



Infatti le piramidi non sono altro che sepolcri particolari, simili alle mastabe, che si facevano costruire i ricchi egiziani, incominciate e condotte a compimento secondo proporzioni degne dei loro ospiti. Come le mastabe, nascondono entro i colossali loro fianchi delle serdab, ossia delle tortuose gallerie; e nel loro centro hanno la cripta, il luogo destinato a ricevere la salma del re. La cripta che si trova proprio nel cuore delle piramidi, non era altro che una piccola cella tenebrosa, coperta da un enorme lastrone di granito roseo, destinato ad impedire la caduta dell’enorme massa di pietre che doveva esercitare una pressione spaventevole.



Per ovviare il pericolo d’un franamento, gli architetti egiziani avevano la precauzione di costruire al di sopra della cripta cinque camere di scarico, sovrapposte le une alle altre, la più alta delle quali si trovava sormontata da due blocchi inclinati a guisa di tetto che dividevano e rigettavano la pressione esercitata da quella immensa fila di pietre.



Erano camere senza dubbio meravigliose, costruite con una solidità a tutta prova, che non piegarono d’una sola linea per centinaia e centinaia di secoli e che costituiscono il lato veramente straordinario della costruzione delle piramidi.



Nella piramide si rivela più luminoso il genio degli architetti egiziani di sei o sette mila anni fa, che eseguirono lo sforzo sovrumano benchè dotati di cognizioni scientifiche primitive e probabilmente privi di macchine. Ciò poi che desta maggior stupore è il fatto che le piramidi più antiche, costruite sotto le prime dinastie, hanno meglio delle altre resistito al tempo. Sembra che gli architetti di settemila anni or sono fossero migliori di quelli che vissero sotto le ultime dinastie. Infatti le prime sono ancora là, giganteggianti sui margini del deserto, ergendo orgogliosamente le loro cime, sfidando nella loro formidabile impassibilità i secoli, rinserrando ancora nei loro fianchi mostruosi le mummie dei re che le costruirono, come una sfida all’eternità. Sono i monumenti più antichi del mondo e probabilmente saranno anche gli ultimi a sparire.



Allorquando il nostro globo si sarà raffreddato e andrà roteando vuoto e spopolato; allorché l’ultima famiglia umana sarà scomparsa ed il tempo avrà ridotto in polvere le opere moderne, forse la grande piramide che racchiude la mummia di Cheope sussisterà ancora, ultimo avanzo della rovina d’un mondo e forse allora, in fondo a qualche sepolcreto incontaminato, una mummia proseguirà ancora il suo sonno secolare, circondata dagli oggetti più cari che ne allietarono l’esistenza, mentre noi moderni non saremo che polvere. Può darsi che quella mummia, dopo essere stata uno dei primi uomini a far sorgere l’alba della nostra civiltà, sia anche l’ultima testimonianza, sulla Terra deserta e morta, dell’esistenza del genere umano sul globo…



La piramide di Rodope, entro cui si erano riuniti i partigiani di Teti, non aveva le dimensioni di quella di Cheope, quantunque fosse annoverata fra le maggiori dell’immensa necropoli di Menfi ed in quel tempo era ancora intatta, non avendo ancora dovuto servire i suoi materiali alla costruzione di Tebe. Al pari delle altre, aveva camere vuote immense, corridoi e nel suo centro la cripta, dove dormiva già da secoli la salma della bella regina, entro un meraviglioso sarcofago di basalto azzurro, chiusa da un masso enorme di granito così duro da sfidare il piccone, poichè gli Egiziani curavano al massimo l’inviolabilità dei sepolcreti dei loro re e delle loro regine.



Her-Hor, dopo essersi fatto mettere a terra dallo schiavo nubiano, si avanzò lentamente verso la piramide, appoggiandosi al braccio di Maneros, osservando attentamente la fronte del colossale monumento la cui cima scompariva fra le tenebre.



«Dove si trova la pietra di chiusura?» chiese a Maneros.



«Al di sopra del ventisettesimo gradino,» rispose la guardia.



«Credi che siano entrati per di là?»



«È impossibile, grande sacerdote. Per chiudere la serdab dopo che fu sepolto l’ultimo rampollo della cessata dinastia, fu adoperato un masso così enorme e di pietra così resistente, che nessun essere umano avrebbe potuto né intaccare, né muovere. Non deve essere da quella parte che i ribelli sono riusciti a entrare nella piramide.»



«Allora, vi è qualche altro passaggio?»



«Sì, al di sopra del quarantesimo gradino sia a levante che a ponente, esistono due gallerie che immettono in una delle cinque stanze di scarico. Andiamo a vedere se i massi che le chiudevano sono stati smossi.»

 



«Quanti soldati vuoi?»



«I passaggi sono stretti fino alla camera,» rispose Maneros. «A me, ne basteranno due dozzine per ora: altri cinquanta rimarranno fuori sul gradino, pronti ad accorrere alla prima chiamata. I rimanenti circonderanno la piramide, poiché può darsi che esista qualche altro passaggio a me sconosciuto. Tu sai, grande sacerdote, come sono costruite le nostre piramidi e quanto sia difficile dirigersi attraverso le serdab.»



Her-Hor si volse verso lo schiavo nubiano che gli stava presso, in attesa dei suoi ordini e gli sussurrò alcune parole. Poco dopo due drappelli di arcieri, muniti di torcie e carichi di grossi fasci di legna verde, giungevano dinanzi alla piramide, mentre parecchi altri, molto più numerosi, si avanzavano silenziosamente, stendendosi intorno al gigantesco monumento.



«Obbedite a quest’uomo,» disse il sacerdote agli arcieri, indicando loro Maneros. «Egli solo conosce l’entrata.»



«Andiamo,» disse la guardia del re, snudando la sua larga daga. Si mise a salire i gradini della piramide finché raggiunse il quarantesimo, seguito da tutti gli altri che avevano già accese le torcie. Come aveva già previsto, la pietra che chiudeva una delle due gallerie che s’aprivano una dinanzi ed una dietro la piramide, coll’orientazione esatta da levante a ponente e che dovevano mettere nelle camere di scarico, era smossa. L’intonaco, quell’intonaco non meno duro del granito, di cui gli antichi egizi solo possedevano la ricetta per fabbricarlo, era stato levato con qualche istrumento tagliente.



«Sono entrati per di qui,» disse Maneros, volgendosi verso gli arcieri. «Il difficile sarà a scoprirli. Si troveranno nelle camere, nei pozzi o nella cripta?»



L’impresa non era davvero facile, poiché i costruttori delle piramidi scavavano, nell’interno di quelle masse enormi di pietra, un numero straordinario di gallerie e di pozzi per far perdere le piste ai futuri violatori e far prendere abbaglio sul posto reale della mummia e vi sono riusciti così bene che, quando gli arabi invasero l’Egitto, perdettero inutilmente il loro tempo a scoprirle, quantunque il califfo Amron avesse fatto scavare parecchi corridoi entro quei giganteschi sepolcreti.



Vi erano passaggi senza sbocco; pozzi che non servivano ad altro che a far smarrire le ricerche dei violatori; gallerie che scendevano e risalivano con grandi angoli e che conducevano sempre al medesimo punto; celle sotterranee scavate molti metri al di sotto del livello della piramide; gradinate che non mettevano in nessun luogo. Un vero labirinto insomma, che costringeva i violatori a perdere ogni speranza di raggiungere la famosa cripta dove la mummia reale riposava indisturbata.



Maneros, aiutato dagli arcieri, spostò l’enorme massa di granito rossastro che aveva servito a chiudere il passaggio, prese una torcia e s’inoltrò risolutamente nella serdab che scendeva verso il centro della piramide. Tutti gli altri lo avevano seguito, colle daghe sguainate, non potendo gli archi servire, almeno pel momento.



Un sandalo di paglia, abbandonato in mezzo alla galleria e che conservava ancora qualche traccia d’umidità, li persuase di essere sulla buona pista. I ribelli dovevano essere passati per di là e qualcuno si era sbarazzato di quella specie di suola, i cui legacci, per una causa qualunque, si erano spezzati.



La serdab continuava a scendere, non troppo ripida però. Era un corridoio abbastanza alto, perché un uomo si potesse tenere in piedi e largo un metro e mezzo, e che probabilmente doveva condurre nel pozzo centrale, da dove il sarcofago della bella regina era stato fatto scivolare nella misteriosa cripta, perduta chi sa dove fra quell’ammasso enorme di pietre, che Menkeri aveva fatto accumulare onde la sua bella potesse riposare tranquilla attraverso i secoli.



Il drappello, munito di fiaccole, s’avanzò con precauzione, arrestandosi di quando in quando per ascoltare, finché si trovò dinanzi ad una specie di pozzo assai largo, fornito di una gradinata che scendeva in forma di spirale e che presumibilmente doveva terminare in una delle cinque camere di scarico, probabilmente la superiore.



«Silenzio,» disse Maneros, rivolgendosi verso gli arcieri.



Si curvò sul margine del pozzo il cui fondo non era visibile ed ascoltò attentamente.



Un debole rumore, che sembrava prodotto dal russare di qualche gigantesco animale, giunse ai suoi orecchi.



«I ribelli sono sotto di noi,» sussurrò. «Hanno occupat