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Le figlie dei faraoni

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CAPITOLO VENTICINQUESIMO. Nei sotterranei del palazzo reale

Quando Mirinri potè riaprire gli occhi, invece del superbo palazzo dei Faraoni egiziani, si vide dinanzi solamente delle tenebre fittissime.

La splendida visione era scomparsa assieme alla lettiga dorata della fanciulla che aveva salvato, al sole risplendente sull’immenso viale e alla luce che lo aveva abbagliato.

Per un momento si credette cieco. Perché i suoi nemici non potevano aver approfittato del suo improvviso svenimento per fargli scoppiare, con un bacino infuocato, gli occhi? Ounis gli aveva narrato e, non una sola volta, d’altre punizioni simili. Non sarebbe stato quindi nulla di straordinario. A quel terribile pensiero ebbe un sussulto, che cessò però subito, poiché non provava alcun dolore e sentiva le palpebre alzarsi ed abbassarsi senza alcuna difficoltà.

«Che la notte sia calata?» si chiese finalmente. «E dove sono io? In un sepolcreto od in un sotterraneo del palazzo reale? E Nefer? E Ounis? Che cosa sarà accaduto di loro? Ah! La sinistra profezia della fanciulla si è avverata! Me l’aveva predetto!»

Si rizzò sulle ginocchia, girando intorno le mani. Non toccò nulla, tenebre sole e tenebre densissime lo avvolgevano.

«Dove sono io?» si chiese per la seconda volta. «Che mi abbiano sepolto vivo in qualche mastaba o nella piramide di Rodope? Che la mia giovinezza, che i miei sogni di gloria e di potere debbano finire così miseramente? Ah no! È impossibile! Io non voglio morire, io che sono il figlio del grande Teti!»

La sua voce, squillante come una tromba di guerra, echeggiò poderosa fra l’oscurità. «A me! A me! Salvate il figlio di Teti! Liberatemi, miserabili! Io sono il re dell’Egitto!»

Un sordo gemito rispose a quell’invocazione disperata:

«Mio signore!…»

Mirinri stette un momento silenzioso, credendo di essersi ingannato, poi proruppe in un grido acutissimo:

«Nefer!»

«Sì, mio signore!»

«Ove sei tu, povera fanciulla?»

«Vago fra le tenebre, cercandoti.»

«Lascia che le mie mani tocchino il tuo corpo!»

«Sì, mio signore… non ti vedo, ma ti sento e ti odo… eccomi… sono presso di te.»

Mirinri aveva allungate le braccia stringendo la fanciulla.

«Presso di te,» le disse con voce alterata, «la morte mi pare più dolce… ed io ti ho tratto alla rovina, io che ho troppo abusato di te, buona e dolce Nefer.»

«Bastano queste parole, che mai ho udito uscire dalle tue labbra divine, per compensarmi,» disse la fanciulla, posando le sue mani sul viso di Mirinri. «Che importa a me di morire? Noi siamo abituati fino dall’infanzia all’ultimo passo della vita e guardiamo, senza tremare, la raggiante barca di Râ.»

«Morire!» gridò Mirinri, che era stato preso da un terribile accesso di furore. «Noi, così giovani, dare un addio al Nilo e alla terra che esso bagna; alla luce ed al mondo; seppellire qui, entro queste tenebre la vendetta e perdere il regno che per diritto di nascita mi spetta! No, non voglio morire, prima d’essermi assiso, almeno per un momento solo, sul trono dei possenti Faraoni.»

«E veder ancora colei che ti ha perduto, è vero, signore?»

«Taci, Nefer! Sai tu dove siamo?»

«Nei sotterranei del palazzo reale, suppongo.»

«È giorno od è notte? Io non vedo alcun barlume di luce in nessun luogo.»

«Il sole è scomparso da più ore,» rispose Nefer. «Quando io ho ripresi i sensi vi era ancora un po’ di luce qui dentro, ma che non durò tanto da permettermi di scoprirti.»

«Eri svenuta o t’avevano dato da bere qualche filtro misterioso?»

«Nessuno mi diede nulla.»

«E come è che io, appena mi hanno messo quel bavaglio, non ho più veduto, né udito nulla?»

«Certo quel bavaglio doveva essere stato prima impregnato di qualche essenza narcotica.»

«Nefer,» riprese Mirinri, dopo essere rimasto alcuni istanti silenzioso. «È vasto questo sotterraneo?»

«Mi parve immenso.»

«Hai veduto nessuno discendere dopo che ci hanno portato qui?»

«Mi sono trovata sola quando riaprii gli occhi.»

«Che ci abbiano condannati a morire qui dentro di fame e di sete?»

Nefer rimase muta raggomitolandosi su se stessa. Dalla vibrazione dei suoi braccialetti, il giovane Faraone capì che tremava fortemente.

«Rispondimi, Nefer,» disse Mirinri, con angoscia.

«Non te lo posso dire, mio signore. Io però ho paura di quell’uomo che è potente quasi come il re.»

«Di quale?»

«Non è morto: quel vecchio sinistro deve avere l’anima ben fissata entro il suo corpo ischeletrito, eppure il colpo di daga io l’ho vibrato con mano sicura.»

«Il sacerdote del tempio delle ombre, quello che mi avevi detto d’avere ucciso?»

«Sì, è vivo. Nel momento in cui ti arrestavano, ho udito la sua voce.»

«Ti sarai ingannata: quando si è vecchi non si guarisce da un colpo di daga. Nella confusione avrai scambiato quella voce con un’altra.»

«Vorrei che così fosse, mio signore. Anche a me pare impossibile che egli sia ancora vivo.»

«È di Pepi che io ho paura,» disse il giovane Faraone. «Fra la perdita del trono e la soppressione mia, non esiterà.»

«E Ounis? E Ata? Li hai tu dimenticati? La voce del tuo arresto si sarà sparsa per la città ed a quest’ora sarà giunta ai loro orecchi.»

«Le angoscie, che mi tormentano in questo triste momento, m’avevano fatto scordare di quegli amici affezionati e devoti fino alla morte. Che cosa faranno essi ora che hanno radunato i vecchi partigiani di mio padre? Tenteranno un colpo disperato contro la reggia o solleveranno il popolo in mio nome? Ah! Quante ansie provo in quest’ora! Cadere, quando ormai non mi era necessario che d’allungare una mano per strappare a quel miserabile il simbolo del potere supremo! I pronostici hanno mentito dunque?»

«Non disperare, mio signore, e aspettiamo che sorga l’alba. Tu non sai ancora quello che deciderà Pepi. Presso di lui hai forse una valida protettrice.»

Mirinri non rispose e si coricò su una grossa stuoia, che aveva trovato accanto a sé. Nefer lo aveva imitato, raggomitolandosi quasi su se stessa.

Le ore passavano lente, angosciose, pei due disgraziati giovani. Nessun rumore giungeva fino a loro, fuorché il monotono stillare d’alcune gocce d’acqua che battevano sul marmoreo pavimento dell’immenso sotterraneo. Pareva che tutte le centinaia e centinaia di persone che abitavano il meraviglioso palazzo si fossero allontanate, poiché non si udivano nemmeno le grida delle guardie che si cambiavano e delle scolte notturne, che Nefer aveva altre volte intese.

La notte finalmente passò ed un barlume di luce pallida, annunciante l’imminente apparire dell’astro diurno, si diffuse a poco a poco nel sotterraneo.

Mirinri si alzò di scatto, guardandosi intorno con ansietà estrema. Si trovava in un sotterraneo vastissimo, colle pareti, le vôlte ed il pavimento di marmo bianco e lucido. Da due piccole finestre, difese da enormi sbarre di bronzo, aperte presso le vôlte, entrava una scarsa luce, così debole da non riuscire ad illuminare tutti gli angoli della immensa prigione.

«Che questo sia proprio un sotterraneo del palazzo reale?» chiese Mirinri a Nefer che si era pure alzata.

«Non ne ho alcun dubbio,» rispose la giovane. «Mi rammento di aver visitato da fanciulla varie sale sotterranee della reggia e d’avervi anche giuocato coi figli di molti principi: e rassomigliavano a questa.»

«Temevo che ci avessero sepolti in qualche mastaba della necropoli o nel centro di qualche piramide.»

«Taci!»

«Che cos’hai udito?»

«Il grido delle guardie che si cambiano.»

«Nefer, cerchiamo un’uscita,» disse improvvisamente Mirinri. «Ecco là una porta di bronzo.»

«Che resisterà ai tuoi sforzi.»

«Chissà che dietro di essa non vi siano delle guardie e che rispondano alle mie chiamate. Proviamo!»

S’avvicinò alla porta, che pareva d’uno spessore straordinario e la percosse col pugno più volte.

Alla quinta battuta udì un fragore di ferraglie come se delle catene e dei catenacci venissero levati ed un vecchio soldato, che era privo della mano sinistra e che in quella destra impugnava una specie di falcetto colla lama larghissima, una di quelle terribili armi che con un solo colpo spiccavano una testa dal busto, comparve, dicendo:

«Che cosa vuoi, giovane?»

«Sapere innanzi a tutto dove mi trovo.»

«Nei sotterranei della reggia,» rispose il vecchio soldato, con una certa deferenza che non isfuggì a Mirinri.

«Che cosa si vuol fare di me e di questa giovane Faraona?»

Il soldato ebbe un moto di stupore e fissò a lungo Nefer, che si era accostata silenziosamente a Mirinri.

«Costei, una Faraona, hai detto?

«Ne dubiteresti? Guarda allora.

Levò il collare variopinto che la giovane portava sopra la camicia leggerissima aperta sul dinanzi e le mise a nudo la spalla.

«L’ureo!» esclamò il soldato, scorgendo il tatuaggio.

«Sei convinto ora che sia una Faraona?»

«Sì, perché nessuno oserebbe portarlo,» rispose il soldato.»

«Tu sei vecchio,» riprese poi Mirinri, «sicché avrai preso parte a molte battaglie, fors’anche a quella terribile che ruppe e vinse per sempre le orde dei Caldei.»

«Ho perduta la mia mano sinistra in quella battaglia, troncatami da un colpo d’azza,» rispose il soldato. «Era Teti il grande che ci guidava alla vittoria.»

«Tu dunque l’hai conosciuto?»

«Sì.»

«Guardami in viso: io sono il figlio di Teti!»

Il vecchio guerriero aveva frenato a stento un grido.

«Tu! Il figlio del grande re! Ma sì, gli assomigli in tutto! I suoi stessi occhi pieni di fuoco, i medesimi lineamenti, gli stessi capelli… la fossetta al mento…»

«Egli aveva lasciato un bambino che poi scomparve,» disse Mirinri.

«Lo so e si diceva che fosse morto.»

 

«Hanno mentito: amici devoti di mio padre m’avevano rapito, per timore che Pepi mi facesse avvelenare.»

«Io ho udito questa storia, signore, sussurrata non solo fra il popolo, bensì anche fra l’armata.»

Poi, cadendo in ginocchio dinanzi al giovane, gli disse con voce profondamente commossa:

«Signore, che cosa posso fare pel figlio del grande re ed a cui tutto l’Egitto deve la sua salvezza e la sua prosperità? Io non sono che un povero soldato e per di più vecchio, tuttavia se la mia vita può giovarti, prendila.»

«Tu puoi essermi più utile vivo, che morto,» rispose Mirinri.

«Che cosa devo fare?»

«Sai dirmi innanzi a tutto a quale scopo Pepi ci ha fatti rinchiudere qui dentro?»

«Lo ignoro, mio signore. Vi hanno portati qui ieri sera, qualche ora prima del tramonto, incaricandomi di vegliare attentamente su di voi e di uccidervi nel caso aveste tentata la fuga.»

«Sei solo qui?»

«Vi è un drappello di guardie all’estremità della scala, dietro la seconda porta di bronzo.»

«Incorruttibili?»

«Sono soldati giovani, signore, che non hanno mai conosciuto il grande vincitore dei Caldei.»

«Tu, signore, hai dimenticato che nella reggia hai forse una protettrice,» disse Nefer, rivolgendosi a Mirinri. «Se questo soldato potesse segretamente avvertirla?»

«Chi è?» chiese il vecchio.

«La figlia di Pepi Mirinri,» rispose Nefer. «Ella probabilmente ignora dove ci hanno portati le guardie che ci arrestarono.»

«Io posso farle parlare, avendo una mia nipote nella reggia,» disse il guerriero.

«Puoi uscire dal sotterraneo?» chiese Mirinri.

«Comando io il drappello delle guardie che sorvegliano dietro alla seconda porta di bronzo. Posso quindi entrare nel palazzo reale. Lasciatevi rinchiudere, non bussate, rimanete tranquilli e giuro su Râ di far giungere vostre notizie alla figlia di Pepi.»

«Possiamo fidarci di te?» chiese il giovane Figlio del Sole.

Il vecchio gli porse l’arma che teneva sempre in pugno, dicendogli:

«Vuoi uccidermi e tentare la fuga? Eccomi ai tuoi piedi, figlio del vincitore dei Caldei.»

«Ti credo: la prova che mi hai dato mi basta.»

«Ritiratevi allora, lasciate che chiuda la porta e aspettate mie notizie.»

Mirinri e Nefer si ritrassero ed il vecchio veterano di Teti rimise a posto le catene ed i catenacci.

I due giovani erano rimasti l’uno di fronte all’altro, guardandosi con angoscia.

«Nefer,» disse Mirinri, «tu che tutto indovini, che cosa predici al figlio di Teti?»

La giovane Faraona si coperse gli occhi colle mani, rimanendo raccolta per parecchi minuti.

«Sempre la stessa visione,» rispose poi.

«Quale?»

«Un uomo giovane che atterra un re possente, che gli strappa dalle mani il simbolo del potere supremo, un grido immenso che lo saluta re… e poi…»

«Continua.»

«Una fanciulla che cade, in mezzo ad una sala immensa, di fronte al trono dei Faraoni, morente.»

«Chi è quella fanciulla?»

«Non la posso vedere in viso. Vi è come una nebbia dinanzi a lei, che mai sono riuscita a dileguare.»

«La figlia di Pepi?» chiese Mirinri con angoscia.

«Non lo so.»

«Guarda bene!»

«È impossibile! Non posso vederla.»

«Sempre la stessa risposta!» gridò Mirinri, con rabbia. «Non puoi conoscerla?»

«No, la nebbia si frappone ostinatamente fra me e quella fanciulla.»

«È giovane?»

«Mi sembra.»

«Bruna?»

«Mi pare.»

«Di stirpe divina?»

«Sì, perché su una sua spalla vedo tatuato l’ureo.»

«La figlia di Pepi forse?»

Nefer, invece di rispondere, si scoprì gli occhi e Mirinri vide che due grosse lagrime scendevano lungo le bellissime gote della fanciulla.

«Piangi!» esclamò. «Perché?»

«Non preoccuparti, signore,» rispose Nefer. «Quando cerco di studiare intensamente il futuro, mi succede sovente di risvegliarmi cogli occhi bagnati di lagrime.»

«Debbo crederti?» chiese Mirinri, impressionato dalla tristezza profonda che traspariva sul viso della fanciulla.

«E perché no? Tu sai che io sono una indovina e ti ho dato tante prove finora.»

«È vero, Nefer,» rispose laconicamente Mirinri.

Tornarono lentamente verso la stuoia e si coricarono l’uno presso l’altro. Mirinri appariva vivamente preoccupato e Nefer pensierosa.

Nella immensa sala la luce continuava a diffondersi, alzandosi sempre più il sole, ma era sempre una luce scialba, quasi cadaverica, che si rifletteva tristamente sulle lastre di pietra che coprivano il pavimento, la vôlta e le pareti.

Il ben noto fragore di ferraglie e di catene li scosse entrambi. Era il vecchio guerriero di Teti il grande, che tornava o qualche altro?

«Avessi almeno un’arma,» mormorò Mirinri.

La porta di bronzo si aprì ed il veterano di Teti comparve, accompagnato da quattro guardie che portavano dei canestri di foglie di palma contenenti probabilmente dei viveri.

«Mangiate,» disse il vecchio, scambiando con Mirinri uno sguardo molto significante e additando l’ultima cesta di destra. Poi, senza aggiungere altro, uscì accompagnato dai suoi uomini, rinchiudendo la pesante porta di bronzo.

«Hai veduto, Nefer, quel gesto?» le chiese Mirinri, quando furono soli.

«Sì, mio signore.»

«Oltre delle provviste, vi deve essere qualche cosa di più importante là dentro,» disse il giovane.

Levò il pezzo di lino che copriva la cesta segnalata dal veterano di Teti ed estrasse delle gallette di granoturco, dei pesci arrostiti, della frutta e dei pasticcini, senza nulla trovare di ciò che s’aspettava.

«Niente,» disse, guardando Nefer. «Che quel vecchio ci abbia burlati?»

«Leva il pezzo di lino che copre il fondo del paniere,» disse la giovane.

Mirinri obbedì e raccolse rapidamente un pezzetto di papiro, su cui un minutissimo pennello aveva tracciato dei caratteri con inchiostro azzurro.

«Si trova in fondo a questo canestro per caso o l’hanno messo appositamente per noi?»

S’accostò ad una delle due finestre, essendo la luce sempre scarsa, specialmente nel centro dell’immensa sala e riuscì, non senza fatica però, in causa dell’estrema piccolezza dei segni, a decifrare quanto vi era scritto:

«Nitokri veglia su di voi. Non temete nulla».

Mirinri aveva mandato un urlo di gioia.

«Non mi abbandona!»

Nefer aveva chinato il capo sul petto, senza pronunciare parola alcuna. Anzi il suo viso, invece di manifestare un qualche moto di contentezza, era diventato più triste del solito.

Forse sarebbe stata più lieta di morire insieme al giovane Figlio del Sole, piuttosto che dovere la vita e la libertà alla possente rivale.

«Nefer,» disse Mirinri, sorpreso di non vederla felice. «Hai capito che cosa ci hanno scritto?»

«Sì, mio signore.»

«Se Nitokri ci protegge, riuscirà certo a strapparci dalle mani di suo padre.»

«Lo credo anch’io.»

«Mangiamo, Nefer. Ora che le nostre angoscie sono finite, possiamo pensare ai nostri corpi.»

Il giovane Figlio del Sole che pareva non si fosse nemmeno accorto della profonda tristezza della povera Nefer, rovesciò i panieri che erano tutti ben forniti di vivande squisite e si mise a lavorare di denti coll’appetito dei suoi diciott’anni.

Ad un tratto s’interruppe.

Al di fuori erano improvvisamente scoppiate delle grida, che diventavano di momento in momento più acute, accompagnate da un rotolar fragoroso, come se dei carri di battaglia uscissero a gran corsa dal palazzo reale.

«Che i congiurati assalgano la reggia?» si chiese Mirinri.

«Qualche cosa di straordinario succede di certo,» disse Nefer, che ascoltava attentamente.

«Che sia Ounis che giunge con Ata? Ah! Se fosse vero!»

«Taci, mio signore.»

Le grida si allontavano, diventando rapidamente fioche, mentre il rotolar dei carri aumentava. Pareva che uscissero a centinaia e centinaia dalle ampie sale pianterrene dell’immensa reggia.

Mirinri, in preda ad una crescente ansietà, ascoltava sempre. Quelle grida che si allontanavano non gli parevano di buon augurio. I congiurati, se erano veramente tali, dovevano essere fuggiti dinanzi alla carica dei carri di battaglia.

Guardò Nefer, pallido, agitato.

«Che cosa ne dici tu, fanciulla?» le chiese con ansietà.

«Non so che cosa dirti.»

«Che abbia avuto luogo un combattimento?»

«Può darsi… qualcuno viene. Il fragore delle catene e dei catenacci era tornato a farsi udire, poi la porta si era violentemente aperta ed il veterano di Teti era tornato a mostrarsi, solo e senz’armi. Mirinri gli si era slanciato contro.»

«È vero che Nitokri ci protegge?» gridò.

«Sì, mio signore, anzi fra poco ella sarà qui.»

«Per salvarci?»

«Lo spero.»

«E suo padre?»

«Qualche burrasca deve essere avvenuta fra il grande Faraone e la figlia, almeno così mi dissero.»

«E quel fragore di carri di battaglia e quelle grida? Che cosa significavano?»

«Un capriccio del re. Egli ha fatto impegnare una vera battaglia fra le guardie per divertirsi, e provare la buona qualità dei suoi cavalli. Basta, mio signore: ho un ordine da eseguire.»

«Quale?»

«Di far uscire questa fanciulla e di condurla in una casa appartenente al re dove troverà servi e schiave.»

«Perché? » chiese Nefer che aveva gli occhi lagrimosi.

«Io non lo so, mia signora,» rispose il veterano. «Mi fu comunicato questo ordine da un ufficiale del palazzo ed io debbo obbedire, pena la morte.»

Mirinri era diventato pensieroso, e guardava Nefer con un senso di profonda pietà. Aveva ben compreso quanto dolesse alla povera fanciulla lasciarlo nelle mani di Nitokri.

«Nefer,» disse ad un tratto, con voce dolce. «Tu, libera, mi puoi essere di maggior utilità che rimanendo qui.»

«In quale modo, mio signore?» disse la giovane singhiozzando.

«Recandoti ad avvertire Ounis.»

«Dove lo troverò io?»

«Alla piramide della bella Rodope.»

«L’appuntamento era per ieri sera.»

«Può darsi che si trovi ancora colà con Ata. Quest’uomo ti scorterà.»

«Sì, mio signore,» rispose il veterano. «La prendo sotto la mia protezione.»

«Va’, Nefer,» disse Mirinri. «Io spero che noi ci rivedremo ben presto.»

«Addio, e non scordarti troppo presto di me.»

CAPITOLO VENTISEIESIMO. La derisione dell’usurpatore

Il palazzo reale dei Faraoni sorgeva fuori dalla città, sulla cima d’una collinetta, l’unica che si trovava in Menfi ed occupava un’area immensa, essendo tutto circondato da giardini magnifici che destavano l’ammirazione degli stranieri. Era un gigantesco parallelogramma, a tetto piatto, avendo al di sopra delle immense terrazze lastricate in alabastro e coperte d’immensi vasi contenenti piante odorose, con quattro porte sormontate da bastioni sui quali gli arcieri montavano dì e notte la guardia.

Visto da lontano aveva l’apparenza d’un enorme masso di pietra candidissima, essendo tutto costruito in marmo bianco, nondimeno, a quanto sembra, la sua solidità era fittizia, perché non resse alle ingiurie del tempo come le piramidi e scomparve fra le sabbie, probabilmente diroccato, senza lasciare traccia, malgrado le larghe ricerche fatte dagli egittologi moderni.

Si narra che avesse delle sale immense, d’una bellezza meravigliosa, colle pareti ed i soffitti incrostati di lapislazzuli, i pavimenti di malachite e le alte colonne coperte di lamine d’oro e tutte istoriate, con disegni variopinti alla base e alla cima.

I quattro schiavi nubiani, giunti nel peristilio che era guardato da due dozzine di arcieri, avevano deposto sulle lucide pietre il palanchino e la figlia di Pepi, leggera come un uccello, era discesa, entrando in una vasta sala, col pavimento di mosaico, le pareti d’alabastro e la vôlta tutta dorata sorretta da quattro colonne di diaspro. Una luce dolcissima, attenuata da tende variopinte che coprivano le finestre, la illuminava discretamente.

Nitokri l’attraversò in tutta la sua lunghezza e si fermò dinanzi ad una porta di bronzo, larga alla base e stretta verso la cima, dinanzi alla quale vegliava un guerriero, tenendo in mano un’ascia lucentissima.

«Mio padre?» disse la fanciulla.

«È nelle sue stanze.»

«Che venga qui subito.»

«Non ama essere disturbato, lo sai, Figlia del Sole.»

«Bisogna che lo veda, » disse Nitokri, con voce imperiosa.

La guardia aprì la porta di bronzo e scomparve.

Pochi istanti dopo Pepi entrava nell’ampia sala. Non indossava più il ricchissimo costume, dal grande triangolo dorato, come quando Mirinri e Ounis l’avevano incontrato sul Nilo; aveva un semplice kalasiris di stoffa verde annodato ai fianchi, colla punta centrale gialla e adorna di fiocchi, una stretta tunica azzurra senza ricami ed in testa due parrucche ed un piccolo ureo d’oro che gli cadeva sulla fronte. Le braccia e le gambe nude erano però adorne di larghi braccialetti finamente cesellati e aveva al collo una fila di grosse perle rossiccie.

 

«Che cosa vuoi, Nitokri?» chiese, guardando con profonda ammirazione la giovanetta.

«L’ho incontrato.»

«Chi?»

«Quello che mi ha salvato dal coccodrillo.»

«Il figlio di Teti!» esclamò il re, impallidendo.

«Sì, Mirinri. È ben così che si chiama, è vero? È lui il giovane che hanno or ora arrestato?»

Pepi non rispose: pareva fulminato.

«Egli è qui,» riprese Nitokri.

Parve che un aspide avesse morso il Faraone in mezzo al petto, perché si ritrasse facendo un gesto di spavento.

«Qui! In Menfi!» esclamò. «Ma dunque le mie spie, le mie guardie, le mie navi che avevo fatto scaglionare lungo il Nilo per arrestarlo, a che cosa hanno servito? Solo a tagliare poche centinaia di mani che potevano darmi ben pochi fastidi? Nessun arciere possedeva una freccia per ucciderlo?»

«Ucciderlo, hai detto?» gridò Nitokri, guardandolo con terrore. «Uccidere lui, che è figlio di tuo fratello, d’un gran re, che è pure Figlio del Sole, che è, al pari di noi, d’origine divina? Lui che ha salvato tua figlia, senza sapere che io fossi sua cugina! Che cosa dici, padre?»

«E che, vorresti tu che io deponessi l’ureo che mi brilla in fronte e lo posassi sulla sua testa? Che cosa diverresti tu?»

«Rimarrei una Faraona e forse più ancora,» rispose la fanciulla.

«Che cosa vuoi dire, tu?» gridò Pepi.

«Mi ama.»

«Che il bacino di fuoco bruci i miei occhi, Apap il dio del male mi avvolga fra le sue spire e mi spezzi la colonna vertebrale; che la Fenice() roda il mio cuore!» bestemmiò il re, lanciando su Nitokri una terribile occhiata. «Che cosa pretenderesti tu? Che io lasciassi scoppiare qualche sanguinosa guerra che travolgesse me e te insieme?»

«Egli è figlio di colui che per vent’anni regnò sull’Egitto intero e che lo salvò dall’invasione dei Caldei,» rispose la fanciulla.

«Teti è morto e anche dimenticato,» disse Pepi Mirinri facendo un gesto di stizza.

«Morto! Hai dimenticato quello che ha detto Her-Hor, il gran sacerdote del tempio di Ptah?»

«Egli ha sognato od ha creduto di ravvisare mio fratello in quel vecchio imbecille.»

«Eppure tu sei turbato e mai come ora ti ho veduto così pallido. Se Her-Hor non si fosse, come tu supponi, ingannato? Pensaci padre.»

«Non cederò il trono né a lui, né al figlio e poi è impossibile. La salma di mio fratello dorme il sonno eterno nella piramide che egli stesso si fece costruire sui margini del grande deserto. Ha avuto gli onori che gli spettavano, di che potrebbe lagnarsi? Non tornerà più mai in vita, perché la sua anima vaga già da anni e anni nella sfolgorante barca di Râ. I sacerdoti me lo hanno confermato.»

«Che cosa devo rispondere allora a Mirinri?»

«A lui? Basta che io faccia un segno alle guardie che l’hanno arrestato e domani andrà a riposare, come un cittadino qualunque in Menfi, nell’immensa Necropoli.»

«La sua morte!» gridò Nitokri, ergendosi superbamente dinanzi al re. «Tu, macchiarti del sangue di quel giovane che è tuo nipote?»

Un lampo sinistro brillò negli occhi di Pepi.

«Che cosa vorresti?» chiese con accento ironico. «Che io lo accogliessi come il futuro re dell’Egitto?»

«Ne ha il diritto.»

«Lo vuoi?»

«Sì padre, lo voglio.»

«Sia: e di quella fanciulla che fu arrestata insieme a lui, che cosa intendi di fare?»

«Tu hai saputo che Mirinri non era solo?»

«Mi avvertì Her-Hor.»

«Il grande sacerdote di Ptah.»

«Sì: fu più lesto di te.»

«Sai tu, padre, chi sia quella giovane?»

Il re fece un gesto di stizza, poi, dopo una breve agitazione, disse:

«Lo so.»

«Forse un’amante di Mirinri?» chiese Nitokri, scattando ed arrossendo.

«No.»

«Dimmi chi è.»

«La chiamano Nefer.»

«Non mi basta.»

Il re ebbe una seconda esitazione, poi rispose, alzando le spalle:

«Quand’era bambina ha giocato con te in questo medesimo palazzo.»

«Allora è Sahuri!»

«Sì, la principessa misteriosa. Io non voglio però che ella entri nel palazzo reale con Mirinri. Quella fanciulla mi dà troppa noia. Darai ordine che la conducano in una delle nostre case che abbiamo in città e che venga trattata coi riguardi che spettano ad una principessa del sangue. Ora va’: ho gravi affari di stato da sbrigare.»

«Ho la tua promessa, padre.»

«Domani riceverò il tuo salvatore, il figlio di Teti, se veramente lo è.»

«Me ne accerterò io,» rispose Nitokri. «Dà gli ordini in mia presenza, così sarò più sicura.»

Il re si volse verso il guerriero che stava immobile, come una statua di bronzo, dinanzi alla porta, dicendogli: «Domani a mezzogiorno farai squillare dalle trombe di guerra la fanfara reale e farai radunare tutti i grandi del regno, onde prendano parte ad un banchetto che io intendo offrire ad un nuovo Figlio del Sole.»

«Ti basta?» chiese poi, rivolgendosi a Nitokri.

«Sì, padre,» rispose la bellissima Faraona.

«Va’.»

Mentre la fanciulla usciva, Pepi la seguiva collo sguardo, e un brutto sogghigno gli coronava le labbra.

«Purché non ti pentisca,» mormorò…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

L’indomani, un’ora prima del mezzodì, quando già Nefer aveva abbandonato il sotterraneo, Nitokri, preceduta da due trombettieri e scortata da otto guardie, entrava nella prigione del giovane Figlio del Sole.

Mirinri, che dopo la partenza della povera Nefer si era lasciato cadere sulla sua stuoia, in preda ad un profondo sconforto, vedendo apparire improvvisamente la bellissima Faraona, era balzato in piedi mandando un grido altissimo, poi aveva piegato un ginocchio a terra, dicendo con voce tremante:

«Mirinri, figlio di Teti il grande, saluta sua cugina. Se io devo a te di essere ancora vivo, tu devi a me la tua preziosa vita.»

Nitokri inarcò le lunghe e sottili sopracciglia, poi, alzando un braccio, fece cenno alla scorta ed ai trombettieri di uscire.

Attese che il rumore dei passi si fosse dileguato, poi rivolgendosi verso Mirinri che teneva sempre un ginocchio a terra e che la fissava cogli occhi ardenti, gli disse: «Tu mi affermi d’avermi un giorno salvato la vita sull’alto Nilo.»

«Sì, Nitokri,» rispose il giovane, alzandosi. «Io ho stretto fra le mie braccia il tuo corpo divino, ma anche il mio era divino.»

«Quando?»

«Non mi riconosceresti più?» gridò Mirinri. «Dubiteresti forse di me?»

«Mio padre vuole una prova.»

«Ebbene io te la dò subito: quando io ti ho salvata tu hai perduto fra le erbe della riva l’ureo che adornava la tua testa e che ritrovai dopo parecchie settimane.»

«È vero,» rispose la Faraona, mentre un vivo rossore si diffondeva sulle sue gote ed i suoi dolcissimi occhi lampeggiavano. «Ora sono sicura di essere stata salvata da te. D’altronde, quantunque sia passato molto tempo, io ho sempre avuto dinanzi ai miei occhi il volto del giovane audace che lottò col coccodrillo e che lo uccise.»

«Pensavi dunque qualche volta a me?» gridò Mirinri.

«Più di quanto credi,» rispose Nitokri, abbassando il capo. «Il sangue dei Figli del Sole si era inteso.»

«Io sono il figlio di Teti! Lo sai tu?»

Nitokri, invece di rispondere, porse una mano a Mirinri dicendogli, con una certa emozione:

«Vieni: il tuo posto è nel palazzo reale. Tu sei un Faraone.»

Mentre uscivano dal sotterraneo, nella grandiosa sala pianterrena del palazzo reale si erano radunati il re ed i suoi ministri, fra l’acuto squillare delle trombe di bronzo ed il sonoro rullare dei tamburi. Subito, udendo la fanfara reale, una trentina di alti dignitari, per la maggior parte attempati, ministri, generali e grandi sacerdoti, a giudicarli dalle loro vesti e dalla ricchezza delle loro collane, dei loro braccialetti e dalla acconciatura del capo, erano entrati nella sala accompagnati da scudieri e da ciambellani di corte, curvandosi umilmente dinanzi al possente monarca.

«Il grande Osiride ha restituito all’Egitto uno dei suoi figli divini» disse il re. «Andiamo a riceverlo e facciamogli l’accoglienza che gli si spetta per diritto di nascita.»

«Chi è?» chiesero ad una voce i grandi dignitari.

«Lo saprete più tardi. Ah! Le mie insegne reali.»

Un ciambellano s’allontanò correndo e tornò poco dopo, recando una specie di frusta col manico d’oro, non più lunga d’un piede, con tre cordoncini di canape intessuti con fili d’oro ed un bastone col manico molto ricurvo.

«Così comprenderà che io solo sono il re dell’Egitto,» mormorò Pepi con un sorriso sarcastico.

Fece segno agli alti dignitari del regno di seguirlo e s’avviò con passo maestoso verso il peristilio in mezzo al quale erasi allora fermato Mirinri con a fianco la bella Nitokri.