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Le figlie dei faraoni

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«Il re!» avevano esclamato i soldati della scorta, curvandosi fino a terra.

Una mano si posò sulle spalle di Mirinri, mentre una voce gli diceva con tono minaccioso:

«Curvati! Giù la fronte nella polvere! È il re!»

«Un Figlio del Sole non si getta al suolo come un miserabile mortale,» rispose fieramente Mirinri. «Giù quella mano! Tu non sei degno di toccare le mie carni divine.»

Poi, dopo aver respinto violentemente l’arciere che tentava di piegarlo, mosse verso Pepi che si era fermato, guardandolo attentamente e chiedendogli:

«Sei tu il re?»

«Sì,» rispose Pepi.

«Ed io sono il figlio d’un re: ti saluto!»

«Io so chi tu sei,» disse Pepi, «a tu, in presenza di questi uomini che mi seguono, non lo dirai per ora. Però, come vedi, ti ricevo cogli onori che spettano al tuo grado. Vieni: sei mio ospite nel palazzo che un giorno abitò uno dei più grandi monarchi del regno.»

Mirinri, stupito da quell’accoglienza che era ben lungi dall’attendersi, che distruggeva tutte le paure create da Ounis e dal sospettoso Ata, era rimasto muto, credendo d’aver male compreso.

«Sei mio ospite nella casa dei tuoi avi,»ripetè Pepi, che aveva forse compreso il suo pensiero.

«Ed io ti sono riconoscente,»rispose Mirinri, che divorava cogli sguardi ardenti la bella Nitokri, che si era collocata dietro al padre.

«Entra dunque, giovane Figlio del Sole,»disse Pepi.

Mirinri passò attraverso le guardie che non osavano alzare la fronte da terra, prese fra le sue mani le dita che la giovane Faraona gli porgeva incoraggiandolo con un adorabile sorriso, e varcò la soglia della sala, mandando un profondo sospiro di soddisfazione. Probabilmente in quel momento non pensava più al fedele Ounis, né alla sventurata Nefer.

«Sei in casa tua,»disse Pepi, volgendosi verso Mirinri che ammirava stupito l’ampiezza e la ricchezza di quella sala. Quindi, volgendosi verso alcuni scudieri, continuò: «Occupatevi di questo principe faraonico. Lo aspetto nella sala del trono.»

«Ci rivedremo?» chiese Mirinri a Nitokri.

«Sì, mio principe,» rispose la fanciulla. «Ci sarò anch’io.»

Mirinri fu condotto in un gabinetto di toletta, anche quello tutto in marmo bianco e dove regnava una deliziosa frescura, e affidato alle cure di giovani schiavi assiri. Mezz’ora dopo usciva scortato da scudieri e da ciambellani, lavato, profumato, imbellettato e vestito come un principe.

Gli avevano messo sulla parrucca il cappello reale, di stoffa bianca, con un rialzo di stoffa rossa sul dietro, adorno di lunghi nastri che gli scendevano fino al petto e fornito sul dinanzi dell’ureo d’oro; sulle spalle una specie di corto mantello di lino candidissimo, trattenuto sul davanti da un ricchissimo fermaglio composto di rubini e di smeraldi d’un valore inestimabile; ai fianchi un kalasir, intessuto con pagliuzze di metallo, con un grande triangolo formato da una placca d’oro, sospeso alla cintura e smaltato a tinte multicolori. Ai piedi aveva dei sandali di papiro trattenuti da sottili correggie dorate.

Una dozzina di guardie reali, armate d’azze, con lunghe penne di struzzo fissate ai due lati della parrucca, lo aspettavano nel salone per rendergli gli onori spettanti ad un principe d’origine divina e per scortarlo.

«Il re ti aspetta, Figlio del Sole,» gli disse il capo del drappello. «I convitati sono già ai loro posti.»

Uscirono dalla sala, attraversarono una grandiosa galleria, le cui ampie finestre erano riparate da splendide tende di finissimo tessuto a righe multicolori, drappeggiate con eleganza ed entrarono in un secondo salone, due volte e forse più ampio del primo ed il cui soffitto era sorretto da una doppia fila di colonne di marmo roseo della catena libica.

Mirinri si era fermato sulla soglia, stupito dalla magnificenza di quell’immensa sala. Tutte le pareti erano di marmo verde con magnifiche venature, il pavimento in mosaico d’oro, il soffitto tutto dipinto meravigliosamente. Quattro immense coppe, sorrette da quattro nani di pietra rossa, collocati presso i quattro angoli della sala, lanciavano in alto dei grossi zampilli d’acqua profumata, mentre dei vasi enormi, dal collo lunghissimo, tutti di lapislazzuli, reggevano dei colossali mazzi di fiori di loto e di rose, i quali spandevano all’intorno dei deliziosi odori.

Trenta piccole tavole, disposte su due file, occupavano il centro della sala, coperte di lini a svariati colori e cariche di tondi d’oro e d’argento, di coppe d’ogni forma e d’ogni dimensione meravigliosamente cesellate e di piccole anfore che reggevano delle foglie di palma. Dinanzi a ogni tavola stava sdraiato su un tappeto, appoggiandosi ad un cuscino di forma rotonda, un alto dignitario in attesa del pranzo, mentre dietro delle giovani e bellissime schiave agitavano dei ventagli di penne di struzzo per rinfrescarli.

Ad una tavola un po’ più grande, bassa però quanto le altre e collocata all’estremità della doppia fila, si trovavano Pepi e Nitokri, coricati su pelli di pantera. Otto grandi ventagli, dai manichi lunghissimi, stavano piantati entro alte anfore d’oro, e attorno a loro otto schiave stavano schierate presso le due prime colonne, spruzzando di quando in quando il monarca e la giovane con dell’acqua profumata.

«Vieni, principe,» disse Pepi, vedendo che Mirinri non s’avvicinava. «Il tuo posto è presso di me.»

Il giovane Faraone, dopo una breve esitazione, passò fra le due file di tavole, salutato con profondi inchini dai grandi del regno che si erano subito alzati e si sedette di fronte al re, pure su una pelle di pantera.

I suoi occhi ardentissimi, che pareva fossero diventati più neri e più profondi del solito, anziché fissarsi su quelli di Pepi, si erano arrestati su quelli vellutati e dolcissimi della fanciulla.

«Ecco la vita come avevo sognato fra le sabbie del deserto,» disse. «Ecco il mio destino che si realizza.»

Pepi ebbe un lieve sussulto, poi un sorriso sarcastico gli contorse le labbra.

«Tu sei vissuto molti anni nel deserto, è vero?» gli chiese.

«Sì.» rispose Mirinri.

«E sognavi la grandezza ed il fasto di Menfi.»

Il giovane Faraone rimase un momento pensieroso, poi disse:

«No, io pensavo sempre, più che al fasto della corte faraonica, agli occhi della fanciulla che avevo strappato alla morte e che fra le mie braccia aveva provato forse il primo fremito.»

Nitokri lo guardò, sorridendo.

«Nemmeno io ti avevo dimenticato,» disse. «Nelle mie notti insonni io ti rivedevo sovente ed una voce segreta mi diceva che io un giorno ti avrei incontrato e che il mio corpo non era stato stretto dalle braccia d’un uomo uscito dal popolo. Il nostro sangue si era compreso: era sangue di dèi.»

La fronte di Pepi si era aggrottata. «Mi racconterai più tardi perché sei vissuto tant’anni lontano dagli splendori di Menfi,» disse. Poi, rivolgendosi alle schiave, che parevano aspettare qualche ordine: «Versate!»

Due giovani portarono delle anfore d’oro ed empirono le coppe che stavano sulla tavola.

«A te, mio valoroso, che mi hai strappato alla morte e che hai conservato a mio padre sua figlia,» disse la Faraona, porgendo la coppa a Mirinri.

«A te che per lunghi mesi ho sempre sognato,» rispose Mirinri, porgendole la sua.

Pepi aveva lasciata la sua dinanzi a sé, senza alzarla. Anzi la sua fronte si era maggiormente abbuiata ed aveva lanciato sui due giovani uno sguardo pregno d’ira intensa.

In quel momento un drappello di fanciulle, splendidamente vestite, aveva fatto irruzione nella sala. Erano danzatrici e suonatrici e le precedeva una giovane che teneva fra le mani una rosa superba. Si fermò dinanzi al tavolo guardando la giovane Faraona e Mirinri, poi, mentre pizzicavano dolcemente le chitarre e le arpe, disse:

«Osiride, Figlio del Sole, stanco dei vezzi e dei baci di Hathor, la venere egiziana, un giorno abbandonò l’astro diurno e scese con un volo immenso, sulla nostra terra, in cerca di nuove avventure. Egli incarnava l’amore. Spiccò il volo attraverso gli spazi celesti e cadde sulle rive del nostro Nilo. Là, sulle arene finissime e vellutate dal nostro sacro fiume, in mezzo ai papiri ed ai fiori dal profumo fragrante dei loti, che scendevano giù nei polmoni come una carezza, vide distesa sopra una pelle di pantera una creatura che dormiva.

«Oh! quanto sei bella!» le disse Osiride.

«Oh! quanto sei bello!» aveva risposto la bronzea creatura, svegliandosi.

«Sothis, l’astro maligno del cielo, li vide, fu preso da furore, e con un raggio bruciante di Râ colpì i due giovani. Le loro carni furono d’un colpo incenerite, ma non potè disgiungere le labbra che si erano fuse in un bacio supremo. Da quel bacio nacque questa rosa e le punte del raggio solare si convertirono in spine. A te figlia del grande Faraone!… È il bacio della fanciulla bronzea e del Figlio del Sole».

Nitokri prese il fiore ed invece di puntarselo fra i capelli lo porse a Mirinri, dicendogli con un adorabile sorriso: Come le labbra d’Osiride hanno baciato quelle della fanciulla bronzea, si tocchino un giorno quelle del salvatore e della fanciulla salvata. A te: serbala per mio ricordo.»

Pepi gettò sulla fanciulla un secondo sguardo feroce, ma non disse parola.

«Gettate rose,» disse Nitokri, alzando una mano verso il soffitto.

Mentre le suonatrici, sedutesi intorno alle colonne, intonavano una marcia deliziosa e le schiave e gli schiavi portavano ai convitati anfore di vino bianco e nero e di birra e pasticci dolci e manicaretti, dall’alto della sala, attraverso dei fori quasi invisibili, scendevano dolcemente, silenziose e profumate, miriadi di foglie di rose e di petali di loto, che si addensavano intorno ai convitati.

Nitokri, accesa forse dal delizioso vino delle colline libiche aveva, chiacchierava con Mirinri, facendo sfoggio della sua grazia e del suo spirito; Pepi invece guardava intensamente il giovane, al di sotto delle sue lunghe ciglia, ed un sorriso beffardo e crudele, di quando in quando gli appariva sulle labbra. Non doveva essere leale ospitalità quella che offriva al figlio del grande Teti.

 

Quando il banchetto, veramente luculliano, perché anche gli Egiziani, al pari dei romani, amavano fare sfoggio di molte portate e di cibi scelti, terminò, il re si alzò con una mossa maestosa, facendo cenno ai convitati, già quasi tutti brilli, di uscire. Sorretti dalle schiave e dagli schiavi, i grandi dignitari si erano alzati, avviandosi nelle stanze vicine attraverso le numerose porte che mettevano su delle vaste gallerie e su dei giardini ombreggiati da palme colossali.

«Va’ anche tu,» disse a Nitokri, che era rimasta coricata presso Mirinri. «Ciò che io devo dire a questo principe, nessuno deve saperlo fuorché me e lui.»

«Padre!» disse Nitokri, con angoscia.

«È un Figlio del Sole,» rispose Pepi. «Va’!»

La fanciulla prese la rosa che stava dinanzi a Mirinri e la baciò.

«Ti amo, ha detto Osiride, quando scese dal cielo, alla fanciulla bronzea e anche quello era un Figlio del Sole.»

«Ti amo, ha risposto il giovane. Quanto sei bella! Era la sua frase,» rispose Mirinri. «E anche quella era certo d’origine divina come lui.»

Pepi sorrise sarcasticamente, poi fece un gesto imperioso alla fanciulla.

«Va’!» disse. «Io sono il re!»

Nitokri depose la rosa e si allontanò lentamente, volgendosi indietro a guardare il giovane Faraone che le sorrideva.

Quando la porta di bronzo si chiuse dietro di lei, il viso del re aveva assunto un aspetto ben diverso.

«Tu,» disse, «che ti credi figlio di Teti il grande e perciò mio nipote?»

«Sì,» rispose Mirinri. «Io sono il figlio di colui che salvò l’Egitto dall’invasione dei Caldei.»

«Ne hai le prove?»

«Tutti me lo hanno detto.»

«Ti credo. Hai provato la grandezza ed il fasto dei Faraoni; ti basta?»

«Nel deserto dove sono vissuto non avevo mai veduto nulla di simile.»

«Sicché tu hai provato le gioie del potere.»

«Non ancora.»

«Che cosa vorresti ora?»

«Il trono,» rispose audacemente Mirinri. «Tu sai che appartiene a me.»

«Perché?»

«Sono il figlio di Teti e tu mi hai rubato il potere.»

«Per regnare bisogna avere dei sudditi fedeli, dei partigiani. Ne hai tu?»

«Ho gli amici di mio padre.»

«Dove sono?»

«Io solo lo so e non te lo dirò per ora.»

«Vuoi vederli?» chiese Pepi ironicamente.

«Chi?» gridò Mirinri.

«I partigiani di tuo padre, quelli che dovevano aiutarti a strapparmi il trono!»

«Che cosa dici tu?»

Pepi, invece di rispondere, si alzò tenendo in mano la frusta dalle corregge dorate che era il simbolo del potere e la fece scoppiettare.

Un vecchio entrò subito da una delle numerose porte dell’immensa sala e s’inchinò dinanzi al re.

«Sei l’imbalsamatore ufficiale della corte tu, è vero?» gli chiese Pepi, guardando Mirinri.

«Sì, re,» rispose il vecchio.

«Apri quel verone.»

«Che cosa dici tu?» gridò finalmente Mirinri, che sembrava si risvegliasse da un lungo sogno e che intuiva il pericolo.

«Guardali i tuoi partigiani,» ripetè Pepi con un triste sorriso. «Sono là!»

Il giovane si era slanciato verso l’ampia finestra che il vecchio aveva aperta e subito un urlo d’orrore gli sfuggì.

In un immenso cortile stavano seduti cinque o seicento uomini, privi tutti delle mani e coi moncherini fasciati che trasudavano ancora sangue attraverso le bende, e dinanzi a tutti, in mezzo a due enormi cumuli di mani, Mirinri aveva scorto Ata.

«Miserabile!» esclamò il giovane Faraone, indietreggiando.

«A che cosa ti potrebbero servire ora i tuoi partigiani se non possono più impugnare un’arma qualunque?» disse Pepi con voce beffarda. «Basterebbero dieci soli dei miei arcieri per metterli fuori di combattimento.»

Mirinri forse non l’aveva nemmeno udito. Guardava cogli occhi dilatati dal terrore quei disgraziati, sui quali tanto aveva contato per rovesciare l’usurpatore e riconquistare il trono che per diritto gli spettava.

«Tutto crolla a me dintorno,» disse finalmente, con voce strozzata. «Il mio grande sogno è finito.»

Poi volgendosi impetuosamente verso il re, gli chiese:

«E di me che cosa intendi di fare? Ricordati che sono anch’io un Figlio del Sole e che mio padre fu uno dei più grandi monarchi che governarono l’Egitto.

«Ascoltiamo prima l’imbalsamatore,» rispose Pepi con un sorriso. «Vedremo come tratterà il tuo corpo.»

CAPITOLO VENTISETTESIMO. La necropoli di Menfi

Mirinri, il cui cervello pareva che dopo la vista dell’orrendo spettacolo si fosse offuscato, era rimasto immobile, guardando con uno stupore impossibile a descriversi ora Pepi ed ora l’imbalsamatore ufficiale della corte. Certo non doveva aver compresa l’idea del re.

Questi, che lo guardava sogghignando, come se cercasse di sorprendere l’effetto che avrebbero dovuto produrre le sue parole sull’animo del giovane, vedendo che rimaneva immobile, come se fosse stato fulminato, riprese: «Udiamo prima che cosa dirà l’imbalsamatore.»

«L’imbalsamatore!» esclamò finalmente Mirinri, come se si fosse in quel momento risvegliato. «Che c’entra quell’uomo col mio destino?»

«Con quale destino?» chiese Pepi, sempre sardonico.

«Col mio.»

«Che cosa ti diceva il tuo destino adunque? Sarei curioso di saperlo.»

«Che avrei riconquistato il trono di mio padre.»

«Chi te lo predisse?» gridò Pepi, che non potè fare a meno di sussultare.

«Il cielo, la terra ed una maliarda,» rispose Mirinri.

«Ah! Follie!»

«No: quando uscii dalla minorità, una stella caudata comparve nel cielo; quando un mattino, prima dell’alba, appoggiai i miei orecchi alla statua di Memnone, la pietra crepitò e suonò ripetutamente; quando strinsi fra le mie mani il fiore della risurrezione, che era stato rinchiuso nella piramide eretta da mio padre, dischiuse i suoi petali; quando incontrai una fanciulla che prediceva il destino, mi disse che un giorno sarei risalito sul trono dei miei avi: e quella fanciulla era Nefer!»

«Nefer!» gridò Pepi che sembrava atterrito. «Il cielo, Memnone, il fiore e quella fanciulla!»

Non era più Mirinri ora che sembrava fulminato; era il possente re dell’Egitto, che pareva istupidito e che guardava, con profondo terrore, il giovane.

«Nefer!» ripetè. «La stella cometa, il fiore, Memnone!» Poi volgendosi verso l’imbalsamatore, gli disse quasi con ira:

«Hai udito?»

«Sì, re.»

«Tu sei abile, è vero?»

«Credo di sì.»

«Come faresti ad imbalsamare un grande principe? Io non l’ho mai saputo esattamente. Spiegamelo e bada che si tratta d’un uomo di stirpe divina.»

«È la grande, la ricca imbalsamazione che tu vuoi, re?»

«La più costosa, onde la mummia possa resistere secoli e secoli, meglio se fino alla fine del mondo.»

«Venti secoli sono trascorsi e quelle che sono state imbalsamate col nostro processo non presentano ancora nessun deterioramento, quindi, o re, puoi essere sicuro che l’operazione che io eseguirò riuscirà perfetta.»

Mirinri, appoggiato contro una colonna dell’immensa sala, ascoltava, forse senza comprendere tutto.

«Prosegui e spiegati meglio,» disse Pepi.

«Dapprima con un ferro ricurvo noi strappiamo pezzo a pezzo il cervello del cadavere che ci viene affidato e distruggiamo gli ultimi avanzi per mezzo di droghe, che noi soli sappiamo manipolare.»

«Continua,» disse Pepi.

«Levato il cervello, che è il primo che si corrompe e che può compromettere la buona riuscita dell’imbalsamazione, facciamo una incisione al fianco con una di quelle pietre taglienti che ci rendono gli Etiopi, perché non si trovano che nei loro paesi, e leviamo da quello squarcio gl’intestini che poi laviamo con vino di palma e che in seguito immergiamo in aromi frantumati.

«La faccenda veramente è poco allegra,» disse il re, che non staccava gli sguardi da Mirinri.

«Quindi riempiamo il ventre di mirra pura tritata, di cannella e di altri aromi, eliminando completamente l’incenso, perché potrebbe guastare il processo.»

«Ah!» fece Pepi.

«Cucito lo squarcio mettiamo il cadavere nel sale, coprendolo di diversi sali alcalini e ve lo lasciamo settanta giorni, dopo di che lo laviamo, lo avviluppiamo interamente in bende spalmate di gomma arabica e tutto è finito. Così trattato, il corpo potrà sfidare impunemente il tempo.»

«Allora tu t’incaricherai di imbalsamare col tuo processo meraviglioso…»

«Chi?» chiese il vecchio, stupito.

«Quel giovane, allorquando sarà morto,» disse Pepi, puntando l’indice della mano destra verso Mirinri. «Non avrà certo da lamentarsi della mia generosità.»

Il giovane Faraone si era bruscamente scosso, staccandosi dalla colonna contro cui fino allora si era appoggiato.

«Me!» aveva gridato.

«Sì,» rispose Pepi. «Quando tu sarai morto entro la grande necropoli di Menfi, quest’uomo s’incaricherà di imbalsamarti come un grande Faraone, come tuo padre.»

«Mio padre! Vile! Io ho gettato agli sciacalli la sua mummia che non era la sua! Ah! Bisogna che ti uccida!»

Con un balzo improvviso il fiero giovane era piombato, pari ad un leone che si scaglia sulla preda, contro il re, atterrandolo di colpo. Stava per strangolarlo quando, ad un grido altissimo dell’imbalsamatore, le dodici porte di bronzo che mettevano nella immensa sala si aprirono d’un colpo solo e cinquanta guardie reali, armate di azze da guerra e di daghe, si scagliarono furiosamente, gridando:

«Salviamo il re!»

Mirinri udendo quel fracasso e comprendendo che un grave pericolo lo minacciava, aveva lasciato Pepi.

«Ah! Mi volete uccidere! Ecco come vi accoglie, miserabili, il figlio del grande Teti!»

Si precipitò verso la tavola più prossima, afferrò una pesante anfora di bronzo ancora semipiena di vino, poi appoggiatosi contro una delle colonne, attese intrepidamente l’attacco.

Pareva un giovane leone ruggente, pronto a mordere ed a lacerare a colpi d’unghia.

«Prendetelo vivo!» aveva urlato Pepi, con voce strozzata.

Il primo soldato che giunse addosso a Mirinri e cercò di afferrarlo a mezzo corpo, cadde fulminata col capo fracassato. L’anfora era piombata su di lui come una mazza, atterrandolo di colpo e la morte era stata istantanea.

Un secondo soldato, un terzo ed un quarto avevano tentato di atterrarlo, ma Mirinri, che pareva una belva furibonda e che aveva forza muscolare da vendere, li fece stramazzare ad uno ad uno dinanzi alla colonna.

L’anfora, maneggiata formidabilmente dal figlio del deserto, stava per fare una strage orribile degli assalitori, quando questi, che avevano lasciate cadere le daghe e le azze di guerra, lo assalirono tutti d’un colpo con impeto irrefrenabile.

Oppresso dal numero il giovane scosse per alcuni istanti quel grappolo umano, poi, vinto da quello sforzo supremo, cadde sulle ginocchia. Era preso!

Due lunghe fascie gli furono gettate addosso e dieci mani lo legarono strettamente, impedendogli qualsiasi movimento.

«Devo ucciderlo?» chiese il capo delle guardie, alzando su Mirinri la sua azza e guardando Pepi che si era rialzato.

«Nessun di voi è degno di versare del sangue faraonico,» rispose il re.

«Che cosa dobbiamo fare, dunque?»

Pepi stette un momento silenzioso, poi disse: «Mettetelo in un palanchino che sia tutto coperto e chiudetelo nella grande necropoli, con una di quelle pietre solide che mettiamo all’entrata delle nostre piramidi. D’ora innanzi i miei sudditi si costruiranno un altro sotterraneo se vorranno farsi seppellire. Il terreno non manca in Egitto per scavare delle mastaba.»

«Miserabile!» urlò Mirinri, facendo uno sforzo disperato per rompere le fascie che lo avvincevano.

«Quando la morte lo sorprenderà,» proseguì Pepi, freddamente, «il nostro imbalsamatore ufficiale s’incaricherà di preparare il corpo come si fa con un re od un figlio di re. Obbedite!»

«Qualcuno mi vendicherà!» gridò Mirinri.

«Chi?» chiese ironicamente Pepi.

«Ounis che è ancora libero.»

Udendo quel nome, un pallore spaventevole si diffuse sul volto del possente monarca ed un fremito scosse le sue membra.

Pareva in preda ad una vivissima emozione, anzi ad una profonda angoscia.

«È anche lui a Menfi?» chiese, quasi balbettando.

«Sì e sarà lui che mi vendicherà e che ti pianterà in mezzo al cuore la sua daga.»

«Saprò prevenirlo,» disse Pepi, come parlando fra sé.

Quattro arcieri avevano portato in quel momento un palanchino tutto coperto da una tenda nera.

 

«Via! Portatelo via! Toglietelo ai miei sguardi!» gridò il re che sembrava smarrito.

Mirinri fu sollevato di peso, cacciato nel palanchino e le otto guardie che si erano collocate fra le stanghe, uscirono quasi correndo.

«Uscite tutti,» disse Pepi, indicando alle altre le porte di bronzo.

Quando si vide solo si lasciò cadere pesantemente dinanzi al tavolino, dove Mirinri aveva pranzato in sua compagnia, tuffandosi quasi fra le foglie di rose che coprivano la pelle di pantera. «Sono un miserabile,» disse passandosi una mano sulla fronte che era bagnata di sudore freddo; «eppure la tranquillità dell’Egitto lo esige.»

Afferrò un’anfora che era ancora semipiena di vino e riempì una tazza che vuotò d’un fiato. «Dimentichiamo,» disse poi.

«Chi?» chiese una voce dietro di lui.

Pepi si era vivamente voltato, afferrando una delle daghe lasciate cadere dalle sue guardie.

Her-Hor, il grande sacerdote del tempio di Ptah, era entrato silenziosamente nell’immensa sala e gli stava dinanzi.

«Chi, re?» ripetè Her-Hor.

«Che cosa vuoi tu?» chiese Pepi.

«Metterti in guardia,» rispose il sacerdote.

«Contro chi? È già stato condotto nella necropoli e fra pochi minuti il blocco di pietra chiuderà per sempre il passaggio.»

«Mirinri, tuo nipote, non è giunto solo in Menfi.»

«Sì, vi è anche colui che si fa chiamare Ounis, è vero?» chiese Pepi con amarezza, soffocando un sospiro.

«E forse quello è più pericoloso di Mirinri,» rispose il sacerdote. «E poi vi è un’altra persona alla quale tua figlia ha concessa stamane e imprudentemente la libertà.»

«Sahuri?»

«O meglio Nefer, giacché gli abbiamo imposto questo nome.»

«Bah, una fanciulla!»

«Pericolosa quanto Ounis, se non di più.»

«Che cosa mi consigli di fare?»

«Distruggerli tutti.»

«Tutti!» esclamò Pepi, con spavento. «Anche Sahuri?»

«La tranquillità del regno lo esige e poi io odio Nefer.»

«Ancora?»

«Non ho dimenticato il colpo di daga che mi ha dato nell’isola delle ombre.»

«Sai tu dove si trova Ounis?»

«Ho sguinzagliato dietro a lui i più abili agenti della tua polizia. Si dice che si trovasse insieme a Mirinri nel momento in cui si conduceva ad abbeverarsi nel Nilo il bue Api.»

«Che riescano a prenderlo?»

«Sono già sulle sue tracce.»

«Che cosa ne farò poi di lui?»

«Lo si ucciderà» rispose Her-Hor.

«Un’altra infamia!»

«La tranquillità dello Stato lo vuole, re.»

«Ma lui! Anche lui!»

«Il popolo crede che sia morto e da tanti anni!»

«Temo che un simile delitto mi costi il trono, Her-Hor.»

Il sacerdote alzò le spalle.

«L’ureo è troppo fermo sulla tua fronte, re,» disse poi. «Quale sarà la mano audace che te lo strapperà?»

«Eppure» rispose Pepi dopo un breve silenzio, «ho dei vaghi timori. Non mi sento tranquillo come prima e questa sera non dormirò come le altre notti.»

«Le urla di Mirinri affamato, aggirantesi come belva feroce nelle tenebrose gallerie della mastaba, non turberanno per troppo tempo i tuoi sonni, re» disse Her-Hor. «Cinque, sei, forse sette giorni, ammesso che possa resistere tanto perché mi parve d’una robustezza eccezionale, poi tutto sarà finito e non udrai più la sua voce.»

«Nelle sue vene scorre il sangue mio!» gridò Teti.

«Non è tuo figlio,» rispose freddamente il sacerdote.

«È figlio di mio fratello.»

«Già, quasi uno straniero.»

«Chi ha creato te? Il genio del male?»

«La dea della vendetta.»

«Non esiste una simile divinità nella nostra religione.»

«Nascerà un giorno.»

«Sei più terribile di me.»

«Cerco di realizzare un sogno.»

«Quale?»

«Di colpire in mezzo al cuore colui che fece di me, grande sacerdote del tempio delle sfingi, quasi un miserabile.»

«Vendicarti di Teti?»

«Sì, di tuo fratello,» disse Her-Hor, con accento feroce. «Se io non avessi trovato in te un protettore, che cosa sarei io oggi? Un miserabile affamato, peggio forse d’uno di quei disgraziati che per mangiare esauriscono le loro forze nell’erezione delle nostre colossali piramidi.»

«Ma tu dilapidavi le ricchezze del tempio.»

«Lo dissero i miei nemici,» disse Her-Hor furibondo, «e tuo fratello credette più a loro che a me.» Poi, dopo aver fatto un gesto di rabbia, riprese:

«Io non sono venuto qui per discutere sulla mia persona bensì per salvare il tuo regno ed il tuo popolo, re.»

«Che cosa mi consigli di fare, dunque?» chiese Pepi Mirinri con voce tremante.

«Uccidere inesorabilmente,» rispose Her-Hor «se ti preme la tranquillità del tuo regno.»

«Esito ad alzare la mano su di lui.»

«Un re non deve esitare mai.»

«Non è ancora preso.»

«Questa sera sarà in nostra mano. Ti ho già detto che le guardie sono già sulle sue tracce.»

«Che io non lo veda. Non potrei reggere al suo sguardo bruciante: sarebbe un’accusa che mi colpirebbe troppo al cuore.»

«Un colpo di daga dato da una guardia fidata e chi si rammenterà di lui?»

«Ne parleranno i suoi partigiani.»

«Impugnino le armi ora che sono senza mani,» rispose Her-Hor ironicamente. «Se poi…»

Il fracasso d’una delle porte di bronzo che s’apriva impetuosamente lo interruppe di colpo.

Nitokri, la bella principessa, era entrata impetuosamente nell’immensa e magnifica sala, col viso alterato, gli occhi fiammeggianti, le vesti scomposte. Tese, con un gesto imperioso, le sue braccia nude, adorne di splendidi braccialetti d’oro verso il grande sacerdote, dicendogli con voce imperiosa:

«Esci tu, genio maligno!»

«Nitokri! » gridò Pepi spaventato dall’ira che traspariva sul viso della bella fanciulla.

«Esci!» ripetè la giovane Faraona, senza guardare il padre ed indicando, con un gesto energico, ad Her-Hor le porte di bronzo.

«Tu dimentichi, signora, chi io sono,» disse il sacerdote, aggrottando la fronte.

«Il grande sacerdote del tempio di Ptah, lo so,» rispose Nitokri, con voce stridula, che echeggiò sinistramente nella sala. «Ti basta? E tu sai chi sono io? Una Faraona che un giorno regnerà sull’Egitto e che con un solo cenno punirà tutti quelli che le daranno fastidio. Esci ora!»

«Non sei ancora regina, fanciulla.»

«Quando la voce d’una Faraona tuona qui dentro, nel palazzo reale, dal primo all’ultimo suddito, tutti devono obbedire!» gridò Nitokri, ergendosi fieramente dinanzi a Her-Hor: «Esci!»

«Quando me lo comanderà tuo padre, che è il solo che regna in questo momento e che solo può comandare,» rispose il vecchio sacerdote, che era diventato livido. Poi, volgendosi verso Pepi gli chiese: «Devo obbedire a tua figlia?»

Il re parve che non lo avesse nemmeno inteso. Si era appoggiato contro una colonna e guardava smarrito, come annichilito, sua figlia.

«Devo obbedire?» ripetè Her-Hor.

Pepi fece col capo un cenno affermativo.

«Sta bene,» disse Her-Hor ironicamente. «Non scordarti però Pepi che tu sei il re e che il tuo regno si trova sull’orlo d’un baratro, e che tutti i sacerdoti sono con te per la salvezza, la tranquillità e la grandezza di questa terra, dal grande Osiride benedetta e fecondata da Râ.

Lanciò su Nitokri uno sguardo che pareva di sfida, poi attraversò lentamente la sala, senza affrettarsi e uscì dalla medesima porta di bronzo da cui era entrata la fanciulla.

La principessa attese che i due battenti si chiudessero, poi volgendosi impetuosamente verso Pepi, gli chiese con voce fremente:

«Che cosa ne hai fatto tu, padre, di Mirinri, del giovane a cui devo la vita? Dimmelo! Io voglio saperlo!»

«È fuggito,» rispose il re.

«Dove?»

«Non lo so. Forse egli non voleva essere ricompensato da me.»

«Menti!» gridò la fanciulla, coll’impeto selvaggio di una giovane leonessa che si rivolta verso il cacciatore che l’ha ferita. «È stato vinto dalle guardie e portato via.»

«Ma no…»

«Chi ha ucciso quegli uomini che giacciono, col capo fracassato, attorno a quella colonna?» chiese Nitokri indicando le guardie che nessuno aveva ancora pensato a trasportare altrove. «Il braccio possente di colui che uccise il coccodrillo che stava per divorarmi nelle fresche acque dell’Alto Nilo, dove il mio corpo divino si bagnava.»

«Erano dei traditori costoro, degli alleati di quei ribelli che i miei fedeli hanno sorpreso nella piramide di Rodope.»

«Tu menti!» ripetè la principessa con maggior forza. «Quei disgraziati sono stati atterrati da Mirinri.»

«Chi te lo disse?» chiese Pepi.

«Io l’ho saputo. Dove è? Dove l’hai fatto tradurre? Io so che poco fa una lettiga, coperta d’un gran drappo nero, è uscita da questo palazzo scortata da un drappello dei tuoi arcieri. Chi vi era dentro?»