Tasuta

Le figlie dei faraoni

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Kuhu peaksime rakenduse lingi saatma?
Ärge sulgege akent, kuni olete sisestanud mobiilseadmesse saadetud koodi
Proovi uuestiLink saadetud

Autoriõiguse omaniku taotlusel ei saa seda raamatut failina alla laadida.

Sellegipoolest saate seda raamatut lugeda meie mobiilirakendusest (isegi ilma internetiühenduseta) ja LitResi veebielehel.

Märgi loetuks
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

Dopo alcuni minuti, Ounis s’arrestò dinanzi ad una sfinge mostruosa, lunga una ventina di metri e alta per lo meno quattro, che aveva sui fianchi delle iscrizioni rassomiglianti a segni geometrici.

«Qui dentro è racchiuso il tesoro di Qobhou,» disse il sacerdote. «Vuoi vederlo?»

«Mostramelo,» rispose Mirinri.

Ounis si guardò intorno e vista una pesante mazza di bronzo appoggiata ad una colonna, l’alzò e percosse la sfinge sul muso.

La testa girò subito su se stessa, poi cadde innanzi rimanendo sospesa mediante due grosse cerniere.

Un’apertura circolare, formata dal collo dell’enorme statua stava dinanzi ai due egiziani.

«Guarda lì dentro,» disse Ounis, avanzando la lampada.

Il giovane s’avvicinò, poi arretrò, mandando un grido di meraviglia.

«Quanto oro!» esclamò.

«Si dice che vi siano lì dentro dodici milioni di talenti()» disse Ounis, «ma non è tutto. Le zampe sono piene di smeraldi e di altre pietre preziose, dalle quali, se tu ne avrai bisogno, potrai ricavare molti altri milioni! Credi tu con queste ricchezze di poter armare un poderoso esercito?»

«Sì,» disse Mirinri. «Ma, come mio padre ha potuto sapere che in questo sepolcreto si trovava nascosto un tesoro così favoloso?»

«Da un antichissimo papiro, da lui scoperto nella biblioteca dei primi Faraoni.»

«E non confidò a nessuno il segreto?»

«A me solo.»

«E le hai serbate per me queste ricchezze?»

«Sì, perché a te solo appartenevano. Appena noi saremo partiti vi sarà chi s’incaricherà di trasportare una parte di questo tesoro a Menfi.»

«E chi, se nessuno ne conosce l’esistenza?»

«Degli amici devoti, rimasti fedeli a tuo padre ed al suo successore. Domani saranno informati che la profezia si è avverata e che tu sei pronto a conquistare il trono e punire l’infame usurpatore.»

«Dunque qualcuno viene allora qui.»

«Sì, e mi sono ben guardato di fartelo vedere. D’altronde non veniva che di notte, quando tu dormivi e ripartiva allo spuntare del giorno. Ora giura su Toth, il dio ibis, che tu t’impegni di liberare la patria dall’usurpatore.»

«Le prove che io sia realmente un Faraone tu non me le hai ancora date,» disse Mirinri.

«È vero: torniamo nella caverna e partiamo subito. È molto tardi e la statua di Memnone non suona che allo spuntare del sole.»

Rifecero in silenzio il cammino percorso, ripassarono per la galleria dei gatti e uscirono, strisciando attraverso la sfinge che occupava l’estremità della caverna.

Ounis prese un’anfora di terracotta ed empì due vasi di vetro grossolano d’una specie di birra molto dolce, che secondo la tradizione, Osiride l’aveva donata ai mortali nel medesimo tempo del vino di palma ed invitò il giovane a bere, dicendo:

«Che l’impuro demonio della morte tocchi chi mancherà al giuramento.»

Poi prese in un canto due corte spade di bronzo, molto larghe e molto pesanti e ne diede una a Mirinri.

«Partiamo,» disse. «La notte è a metà cammino.»

CAPITOLO TERZO. Il sangue dei Faraoni

Chiusa l’entrata della caverna con una lastra di pietra affinché durante la loro assenza qualche animale feroce non ne prendesse possesso, essendo in quelle lontane epoche molto popolato l’Egitto di leoni e di jene, il sacerdote ed il giovane si erano messi in marcia, tenendosi l’uno presso l’altro e volgendo le spalle al Nilo.

Il deserto, che più tardi gli Egiziani dovevano, con pene infinite, rendere fertile, stava dinanzi a loro, stendendosi verso levante. Veramente non era proprio un deserto, simile a quello libico od al Sahara, assolutamente arido e privo di vegetazione; si poteva chiamare una immensa pianura incolta, che dalle rive del Nilo si spingeva fino alle rive del mar Rosso.

Infatti qua e là si scorgevano dei gruppi di palme dum, chiamate alberi del pan pepato e che acquistano rapidamente uno sviluppo straordinario, anche sui terreni sterili, e qualche palma deleb dal fusto rigonfio nel mezzo e che è amante piuttosto della solitudine, non formando mai delle selve.

Degli sciacalli urlavano in lontananza e fuggivano, rapidi come saette, all’accostarsi dei due uomini, mentre delle jene sghignazzavano in mezzo alle dune sabbiose, senza osare mostrarsi, non godendo nemmeno a quei tempi maggior coraggio di quello che hanno anche oggidì.

La notte era splendida e tranquilla, regnando nelle pianure egiziane una calma assoluta. La luna splendeva sempre al di sopra delle foreste costeggianti il Nilo, allungando smisuratamente le ombre dei due uomini, e la cometa scintillava vivissima fra le stelle, avanzandosi su un cielo purissimo, d’una trasparenza che solo si può ammirare in quelle regioni.

Né Ounis, né Mirinri parlavano: parevano entrambi immersi in profondi pensieri.

Solo il primo, di quando in quando, alzava gli occhi verso la cometa, fissandola intensamente. Il secondo sembrava invece che seguisse cogli sguardi qualche cosa che gli fuggiva dinanzi, forse la fanciulla che gli aveva fatto battere forte il cuore per la prima volta da che era nato.

Avevano percorso già così parecchie miglia, sempre avanzandosi nel deserto, quando Ounis appoggiò famigliarmente una mano sulla spalla del giovane, chiedendogli a bruciapelo:

«A che cosa pensi, Mirinri?»

Il figlio dei Faraoni trasalì bruscamente, come se fosse stato improvvisamente destato da qualche dolce sogno, poi rispose, esitando: «Non so: a molte cose.»

«Al potere sconfinato che tu raccoglierai in Menfi?»

«Può darsi.»

«O alla vendetta?»

«Anche questo può essere vero.»

«No: tu m’inganni. Io ti osservo da quando abbiamo lasciata la nostra dimora. Non è né il potere, né l’ambizione, né l’odio che turba il cervello ed il cuore del figlio del grande Teti, il fondatore della dinastia. «disse Ounis, con una certa amarezza.»

«Che cosa ne sai tu?»

«I tuoi occhi non hanno guardato nemmeno una volta la stella caudata che segna il tuo destino e il tuo cammino.»

«È vero,» rispose Mirinri con un lungo sospiro.

«Tu pensavi alla fanciulla che hai salvato dalla morte, sulle rive del Nilo.»

«A che negarlo? Sì, Ounis, pensavo a lei.»

«Ti ha dato dunque da bere qualche filtro misterioso, costei?»

«No.»

«Come puoi amarla così tanto da dimenticare la grandezza suprema, che tutti i mortali t’invidierebbero?»

Mirinri rimase alcuni istanti silenzioso, poi volgendosi con uno scatto improvviso verso il sacerdote, che si era fermato e che lo guardava tristamente, gli disse:

«Io non so se gli altri uomini siano eguali a me, perché in tanti anni io non ho veduto che le acque del Nilo, le grandi palme che lo circondano, le sconfinate dune di sabbia e le belve che le abitano. Io non ho udito fino ad oggi che la voce tua, quella del vento quando strappava le foglie piumate o torceva i rami, ed il mormorìo delle acque, colanti dai misteriosi laghi dell’interno. Come potevo io, giovane, rimanere insensibile ad un essere diverso da me e da te e che parlava una lingua armoniosa, più dolce del sussurrìo della brezza notturna? Tu mi dici che io l’amo. Non so veramente comprendere questa parola, io che sono vissuto sempre lontano dalle terre abitate e mai seppi che cosa possa significare. La malìa gettatami nel cuore da quella fanciulla potrà chiamarsi così. Io so che quando penso a lei mi vedo brillare sempre dinanzi, sia di giorno o di notte, quei grandi occhi neri ripieni d’una infinita tristezza e che provo entro di me una sensazione strana, che non saprei spiegarti e che prima non avevo mai sentito, né ascoltando il mormorìo delle acque, né i sibili del vento, né l’urlo delle fiere affamate vaganti pel deserto».

«Una sensazione pericolosa, Mirinri, che potrebbe esserti fatale e fermarti nel tuo glorioso cammino. Toglie le forze ai guerrieri, addormenta i forti, spegne le energie e rende talvolta l’uomo perfino vile. Guardati! La tua grande impresa non ha bisogno di quel fremito.»

«Rende perfino vili!» esclamò il giovane, colpito da quella parola.

«Sì, vili.»

«Ebbene guarda se io potrei diventarlo.»

Si era voltato guardando le dune di sabbia che si estendevano dietro di loro, interrotte qua e là da qualche cespuglio intristito.

Un’ombra gigantesca, che Ounis non aveva prima osservata, ma che non era invece sfuggita agli sguardi del giovane, era comparsa sulla cima d’uno di quei minuscoli monticelli di sabbia, guatando i due egiziani.

«Lo vedi?» chiese Mirinri, senza che nella sua voce si sentisse alcuna alterazione.

«Un leone!» aveva esclamato il sacerdote, trasalendo.

«È da qualche poco che ci spia.»

«E non mi hai avvertito?»

«Se è vero che io ho nelle vene il sangue dei guerrieri, perché dovevo preoccuparmi della sua presenza? Mio padre non sarebbe fuggito, lui che ha vinto, come mi hai narrato, le sterminate falangi dei Caldei.»

«Che cosa intendi di dire e di fare?» chiese Ounis, guardandolo con ansietà.

«Accertarmi se io sono veramente un Faraone, innanzi a tutto, e poi provarti che se anche quella fanciulla ha gettato una malìa su di me, non sarei capace di diventare un vile.»

La corta spada di bronzo brillò nella destra del giovane.

«A me, leone!» gridò. «Vedremo se sarà più forte il re del deserto od il futuro re dell’Egitto!»

Come se la formidabile fiera avesse compresa la sfida gettatagli dall’audace giovane, aprì le fauci e fece rintronare le dune d’un ruggito poderoso, che parve un colpo di tuono.

Ounis aveva afferrato con ambe le mani il braccio armato, dicendo:

«No, tu non puoi esporti contro quella belva. Io sono vecchio e non ho alcuna missione da compiere al mondo, lascia quindi che l’affronti io se verrà ad assalirci. Non ho bisogno che tu mi dia una prova del tuo coraggio. Mi basta veder brillare nei tuoi occhi il lampo fiero che animava quelli del grande Teti.»

 

Il giovane, con una brusca mossa, si svincolò e mosse intrepidamente verso la fiera, che ruggiva sordamente, sferzandosi i fianchi colla coda.

«Quando un Faraone getta una sfida non retrocede!» gridò Mirinri. «Vince o muore! Il leone l’ha accettata: a noi due!»

Il sacerdote non aveva più cercato di trattenerlo. D’altronde la belva, che doveva essere affamata, non avrebbe tardato ad assalirli egualmente.

«Prode come suo padre,» mormorò il sacerdote che lo seguiva, tenendo in mano la spada e che lo guardava muovere diritto verso la fiera, con un misto d’angoscia e d’orgoglio. «L’avevo giudicato male: ha nelle vene il mio…»

Si morse le labbra per non lasciarsi sfuggire il seguito di quelle parole, e allungò il passo onde porgere aiuto al giovane Faraone.

Il leone che fino allora era rimasto accovacciato, vedendo avanzarsi la preda che credeva di abbattere con un solo colpo delle sue poderose zampe, si era alzato, scuotendo la sua folta criniera.

Era un superbo animale, di taglia grossa e robusta, dal pelame fulvo e la criniera nerastra come quella dei leoni delle montagne dell’Atlante, che rappresentano oggidì la razza più bella di quei terribili carnivori.

Mirinri, punto spaventato dall’aspetto imponente del suo avversario, né dai suoi ruggiti, che diventavano di momento in momento più possenti, muoveva avanti senza nemmeno guardarsi alle spalle, per vedere se era o no seguito da Ounis.

I suoi occhi, che erano diventati ardenti, fissavano intrepidamente l’avversario, spiandone le più lievi mosse.

Se Ounis era orgoglioso di vederlo così calmo e così audace, il bel giovane si sentiva del pari orgoglioso di non provare quel sentimento di paura che coglie tutti gli uomini, anche i più intrepidi, dinanzi a quei re dei deserti e delle foreste africane. Aveva dunque nelle vene il sangue degli antichi guerrieri? Era dunque proprio un Faraone? Sì, ormai ne era convinto, quantunque non avesse ancora udito a crepitare la statua colossale di Memnone, né avesse ancora veduto il fiore d’Osiride schiudere le sue corolle e rivivere, dopo tante migliaia e migliaia d’anni.

Giunto a dieci passi dalla belva, tese l’arma e si arrestò, gridando: «Ti aspetto a piè fermo: assalimi! Vedremo se il grande Osiride proteggerà me, che discendo dagli dei o te ladrone del deserto.»

Il leone lanciò un ultimo ruggito, poi scattò, mettendosi a correre attraverso le dune con balzi giganteschi. Volteggiava intorno ai due uomini, descrivendo un largo giro, che, a poco a poco, restringeva, cercando il momento opportuno per sorprenderli alle spalle.

Mirinri, sempre freddo, sempre impassibile, ma col viso animato da una collera intensa, girava su se stesso mostrando sempre alla belva la lama della sua spada di bronzo, che i raggi della luna facevano scintillare vivamente.

Ounis invece si era inginocchiato a breve distanza dal giovane tenendo la sua arma tesa in alto. Non perdeva di vista il suo compagno, occupandosi più di lui che del leone.

Una profonda emozione alterava i suoi lineamenti. Vi era nell’espressione dei suoi occhi, che in quel momento brillavano non meno intensamente di quelli di Mirinri, lo stesso senso di prima: orgoglio, gioia e terrore.

Si comprendeva che, quantunque paventasse che il giovane potesse essere vinto da quel formidabile avversario e ridotto un cadavere informe, dall’altro lato era superbo di vederlo così coraggioso e così pronto a sfidare il pericolo, e quale pericolo!

Il leone continuava la sua corsa circolare. Scattava come se le sabbie fossero coperte da migliaia di molle invisibili e sembrava che le sue forze, invece di scemare, aumentassero sempre poiché i suoi slanci diventavano più impetuosi.

Mirinri, fermo come una statua di bronzo, col braccio armato sempre teso, attendeva l’assalto. Un sorriso di sfida coronava le sue labbra sottili.

Ad un tratto la belva, che non aveva cessato di stringere sempre più il cerchio, si precipitò sui due uomini, mandando nel medesimo tempo un ruggito spaventevole, che parve una fanfara di guerra udita in lontananza. Non scelse però il giovane come prima preda.

Con un salto immenso era piombato sul sacerdote, cercando di fracassargli la spina dorsale o di aprirgli un fianco con un colpo di zampa. Aveva però prese male le sue misure, giacché gli cadde vicino, urtandolo solo con una spalla e rovesciandolo al suolo.

Stava per rivoltarsi, onde mettere in opera le sue unghie, quando Mirinri gli fu addosso colla rapidità del lampo.

Colla sinistra l’afferrò per la folta criniera, tenendolo per un istante fermo, poi coll’altra gl’immerse fino all’impugnatura la larga lama di bronzo, squarciandogli il petto.

«Il giovane Faraone ti ha vinto!» gridò. «Sono più forte di te! L’Egitto sarà mio!»

Non era ancora una vittoria completa. La belva, quantunque orribilmente ferita e tutta sanguinante, con uno scatto improvviso gli era sfuggita e si era accovacciata a dieci passi, ruggendogli in viso, pronta a ricominciare l’assalto.

«Guardati, Mirinri!» gridò Ounis, con voce angosciata, rialzandosi prontamente.

Il giovane parve che non l’avesse nemmeno udito.

Cogli sguardi sempre sfavillanti, fissi in quelli della fiera, s’avanzava colla spada alzata, rossa di sangue fino alla guardia.

«Bisogna che ti uccida,» disse.

E si slanciò sul leone, che non osava più affrontare quel giovane avversario, che aveva dapprima disprezzato e che pareva lo magnetizzasse colla potenza dei suoi occhi.

L’urto fu breve e terribile. Ounis vide per alcuni istanti sollevarsi intorno ai due combattenti come una nube di sabbia, che glieli nascose, poi si udì un ruggito soffocato ed un grido che gli parve di trionfo:

«Muori!»

Quando la sabbia finissima cadde al suolo, vide Mirinri ritto, colla fronte alta, la spada grondante sangue in pugno ed un piede posato sul corpo della belva, che sussultava ancora fra gli ultimi spasimi della morte.

«Sì, mio…» gridò Ounis, «degno allievo! Sì, sei il figlio di Teti, il fondatore d’una dinastia che darà la gloria e la potenza alla terra dei Faraoni. Solo un uomo creato da lui avrebbe potuto compiere una simile impresa. Osiride ti protegge ormai e tutto puoi osare.»

Mirinri si volse e dopo d’averlo guardato per qualche istante in silenzio, rispose:

«Ora io non dubito più che l’anima dei Faraoni si sia trasfusa in me. Come io ho ucciso il re dei deserti, ucciderò l’usurpatore, che rapì a me ed a mio padre il trono. Vedi, Ounis, se si può essere audaci anche quando il cuore vibra per una fanciulla. La prova ultima, la prova!»

«Sei grande,» rispose il sacerdote. «Partiamo subito. Gli astri cominciano ad impallidire e anche la coda della cometa va spegnendosi. Vieni, Figlio del Sole!»

Il giovane asciugò la lama sulla criniera del leone, se la rimise lentamente nella fascia che gli stringeva le anche e raggiunse il sacerdote coll’indifferenza tranquilla d’un uomo che avesse compiuta una cosa di nessuna importanza.

«Sangue freddo, forza ed audacia,» disse Ounis, la cui ammirazione non pareva che fosse ancora cessata. «Tu sei l’uomo del destino.»

Mirinri sorrise senza rispondere.

Gettò un ultimo sguardo sulla belva, che non aveva più alcun sussulto e che sembrava addormentata, alzò per un istante gli occhi verso la cometa, che cominciava a smorzarsi e seguì il sacerdote, ricadendo nei suoi pensieri.

Non si udiva più alcun rumore fra le dune sabbiose. La voce formidabile del morente leone aveva allontanato jene e sciacalli, ed un profondo silenzio regnava sulla sterile landa,

Camminarono così, senza parlare, per qualche mezz’ora ancora: poi Ounis ruppe pel primo quell’immensa calma.

«La vedi? La piramide fatta costruire da tuo padre sorge laggiù.»

Mirinri si scosse, alzò il capo, che fino allora aveva tenuto curvo sul petto e spinse lo sguardo dinanzi a sé.

Due masse enormi si delineavano fra le dune, spiccando vivamente sull’orizzonte, che cominciava ad imbianchirsi sotto i primi riflessi dell’alba.

«Le due statue di Memnone!» esclamò, sussultando.

«Questa è l’ora.»

Mirinri girò lo sguardo verso settentrione e scorse una massa ancora più enorme, tutta nera, giganteggiante fra le semioscurità e che s’innalzava in forma di piramide.

«Il sepolcreto della mia dinastia,» disse.

«Dove troveremo il fiore sacro d’Osiride. Affrettati, o giungeremo troppo tardi. La pietra suona solo quando nasce e tramonta il sole.

CAPITOLO QUARTO. Il Figlio del Sole

Le statue di Memnone godevano presso gli antichi egizi una venerazione grandissima, che non cessò nemmeno dopo, quando i romani, quei formidabili conquistatori del mondo allora noto, ebbero invase le rive del sacro Nilo, anzi ebbero anche essi una vera venerazione pel fatto, allora straordinario ed inesplicabile, che una di esse, sia allo spuntare del sole che al tramontare dell’astro, dava un suono.

Gli antichi egizi affermavano che solo quando un Faraone s’accostava alle due statue, quella nota strana, che somigliava al crepitìo dello zolfo quando è riscaldato colla mano, ma infinitamente più forte, si faceva udire.

Che realmente suonasse la pietra, nessuno lo mette in dubbio, quantunque oggi sia muta come qualunque altra pietra.

Strabone fu il primo ad affermarlo, avendo udito quello strano crepitìo in compagnia d’Elio Gallo, che era governatore dell’Egitto, quantunque non potesse discernere se quella vibrazione partisse dal piedistallo o dalla statua. Giovenale, che meno d’un secolo dopo fu esiliato a Sienne, nell’alto corso del Nilo, pure lo udì e anche Plinio parlò di quel prodigio.

Se agli Egiziani la cosa sembrava meravigliosa, si trattava invece d’un fatto semplicissimo che fu più tardi spiegato.

La statua parlante, come la si chiamava, e che sembra rappresentasse un Faraone delle prime dinastie, in seguito ad un terremoto, era stata spezzata all’altezza del ventre, mentre la sua vicina aveva resistito alla formidabile scossa. Da quell’epoca cominciò a suonare.

La natura del sasso, formato da materiali eterogenei, tenuti insieme da una pasta silicea durissima, era tale che sotto le repentine variazioni della temperatura crepitava. Ora quella variazione non accade che al sorgere del sole, dopo le notti freschissime di quel clima, e un po’ dopo il tramonto.

Ed infatti, durante il giorno e la notte, la statua non faceva udire alcun suono.

Quando Settimio Severo, forse per superstizione o per onorare Memnone, figlio dell’aurora, secondo le antiche leggende egiziane, fece restaurare il colosso con cinque enormi massi di marmo di grès, che si vedono tuttora, perché quelle due statue hanno resistito, al pari delle poche piramidi, alle ingiurie del tempo, la voce cessò d’un tratto. Quei massi furono una sordina: la vibrazione fu inceppata e Memnone, con grande dispiacere degli egizi, non parlò più: d’altronde i Faraoni erano ormai scomparsi e non erano più là per imporle di farsi udire.

Ounis e Mirinri, non scorgendo nessuno nei dintorni dei due colossi, s’avvicinarono rapidamente, cominciando il cielo a prendere, verso levante, una leggera tinta rossa che indicava l’imminente sorgere del sole.

Quelle due statue, che erano quattro o cinque volte più alte d’un elefante, rappresentavano due uomini seduti sulle ginocchia ed erano formate di massi enormi, di forma quadrata, saldamente cementati fra di loro.

Sul capo avevano una specie di fichu triangolare, che cadeva lungo i lati della faccia, allargandosi al di sopra delle spalle ed avevano sotto il mento quelle strane barbe, formate da una specie di dado, più stretto in cima e più largo sotto, che si osserva in tutti gli antichi monumenti egiziani.

Il basamento, che era di proporzioni enormi e tanto alto che Mirinri non vi poteva giungere nemmeno allungando le mani, era tutto coperto di lettere e adorno d’ibis, gli uccelli sacri degli antichi egizi ed emblema dei Faraoni delle prime dinastie.

Sulla statua di destra si scorgeva distintamente la spaccatura prodotta dalla scossa del terremoto, allargantesi a circa metà del ventre.

Mirinri si era arrestato, guardando con visibile emozione i due colossi. Se egli era veramente un Faraone, il suono doveva udirsi; se rimaneva muto quale delusione!

Guardò con un po’ d’ansietà Ounis e lo vide tranquillo, come un uomo sicuro del fatto suo. Quella calma lo rassicurò.

«Vieni,» disse il sacerdote, dopo aver guardato il cielo. «Questo è il momento.»

Girarono intorno alla statua che era offesa e trovata una gradinata salirono sul piedestallo mettendosi fra le gambe che il colosso teneva aperte. Era quello il punto migliore per udite il suono.

 

«Parlerà il figlio dell’aurora?» chiese Mirinri che era diventato pallido e che pareva nervosissimo.

«Sì, perché tu sei il figlio di Teti,» rispose il sacerdote.

«E se ti avessero ingannato?»

Un sorriso comparve sulle labbra d’Ounis.

«Ascolta,» disse poi. «Dopo mi dirai se tu sei o no un Faraone.»

Il sole s’alzava in quel momento radioso, sfolgorando sui due colossi i suoi raggi, che appena sorti erano già diventati ardenti.

«Ascolta! Ascolta!» ripetè Ounis.

Mirinri, curvo verso la massa della statua, tendeva gli orecchi. Il cuore, che dinanzi al leone non si era alterato nemmeno un istante, ora gli batteva forte come quando aveva stretta fra le braccia la fanciulla che aveva strappato al coccodrillo, la prima donna che aveva veduto da quando il sacerdote l’aveva portato nel deserto.

Il sole s’alzava rapido, allungando i suoi raggi sulla sconfinata pianura, ma la statua rimaneva muta. Anche Ounis aveva aggrottata la fronte.

Ad un tratto si fece udire un leggero crepitìo, che andò aumentando d’intensità, poi una nota limpida, un do echeggiò.

Un grido era sfuggito dalle labbra del giovane.

Si era alzato rapidamente, cogli occhi accesi, il viso trasfigurato da una gioia inesprimibile. Guardò il sole e gridò con voce tuonante:

«Sì, io discendo da te, Osiride, sono un Faraone! L’Egitto è mio!»

Ounis sorrideva, lieto di quell’improvviso scatto d’entusiasmo. Anche egli sembrava profondamente commosso.

«Ounis, amico mio, alla piramide!» disse poscia il giovane, con esaltazione. «Dammi l’ultima prova che io sono il figlio di Teti, che il mio corpo è divino ed io andrò a uccidere, con questo istesso ferro che spense il re dei deserti, l’usurpatore.»

«Così ti volevo vedere,» rispose il sacerdote. «Il sangue della stirpe guerriera, che io temevo si fosse addormentato per sempre, si è finalmente risvegliato.»

«Alla piramide, Ounis» ripetè il giovane, il cui entusiasmo non si era ancora calmato. «Andiamo ad interrogare il fiore d’Osiride.»

«Lo vedrai dischiudere le sue corolle millenarie,» rispose il sacerdote.

La piramide, come abbiamo detto, che avrebbe dovuto servire di tomba alla dinastia iniziata da Pepi, non era lontana.

La sua mole imponente si ergeva appena ad un mezzo miglio dalle due gigantesche statue, lanciando la sua cima a centocinquanta metri.

Tutte le piramidi, fatte innalzare dalle diverse dinastie che regnarono in Egitto migliaia d’anni prima della nascita di Gesù Cristo, avevano proporzioni colossali.

Molte furono distrutte, per edificare coi loro materiali Tebe ed altre città sorte dopo la gloriosa Menfi, tuttavia ne sussistono anche oggidì parecchie e le più celebri e le più visitate sono quelle di Cheope, di Chefrèn e di Micerino, le quali sono d’altronde le più gigantesche che si conoscano, coprendo suppergiù ciascuna cinque ettari di terreno ed avendo un’altezza che varia fra i centoquaranta ed i centoquarantasei metri.

Si calcola che per costruire quelle tombe, siano occorsi per ciascuna 250.000 metri cubi di materiali!

Quali somme poi abbiano costato e quante migliaia e migliaia di operai siano stati necessari per innalzarle, sarebbe impossibile dirlo. Si sa solo, consultando gli antichi papiri, che per erigere quella di Cheope non si spesero meno di quattro milioni di talenti egiziani, pari a più di dieci milioni di lire in solo aglio, prezzemolo e cipolle, vegetali che costituivano però il principale nutrimento di quegli infaticabili lavoratori reclutati, sempre per maggior economia, fra i prigionieri di guerra.

La piramide fatta innalzare da Teti, come abbiamo detto, non poteva rivaleggiare con quelle tre sopra menzionate; tuttavia era ancora così enorme da far arrossire – se fosse possibile – i più grandi edifizi moderni, anche i palazzoni a venti piani che costruiscono oggidì i nord-americani.

Una gradinata, di nove metri per lato, misura tenuta per tutte le piramidi, conduceva sulla cima, ove doveva trovarsi, al pari che nelle altre, una piccola piattaforma.

Ounis, che doveva aver visitato ancora, in altri tempi, l’enorme sepolcreto, mosse sollecito verso due colossali sfingi, che pareva fossero state collocate a guardia d’una porta di bronzo, che andava restringendosi verso lo stipite come tutte quelle costruite dagli antichi egizi.

La esaminò per qualche istante, come se volesse accertarsi che la serratura non fosse stata guastata, poi trasse di sotto la lunga veste una chiave di forma strana, che rassomigliava ad un serpente aggrovigliato e introdusse una estremità in un buco intagliato, in modo da sembrare una foglia di loto.

«Come possiedi tu quella chiave?» chiese Mirinri, che cadeva di sorpresa in sorpresa.

«Me l’ha data tuo padre prima di morire» rispose laconicamente il sacerdote. «Se tu fossi per caso morto dove vorresti che ti avessi sepolto? Un Faraone dormire fra le sabbie?»

«Ma mio padre non riposa lì dentro.»

«Quando tu avrai conquistato il trono che ti spetta, anche lui dormirà, fra queste muraglie ciclopiche, il sonno eterno.»

Spinse la massiccia porta di bronzo, accese una piccola lampada d’argilla, che aveva portato seco, adoperando due pietre nere che percuotendole l’una con l’altra sprigionavano fasci di scintille vivissime, poi, volgendosi verso il giovane, gli disse:

«A te spetta il diritto di entrare per primo, giacché tuo padre più non esiste.»

Con un’emozione visibile Mirinri varcò la soglia e che entrò nell’immenso sepolcreto, destinato ad accogliere tutte le salme della sua dinastia.

Anche là dentro, come già nell’immensa caverna funeraria dove trovavasi il tesoro, regnava un tanfo di muffito e d’umido, tuttavia l’aria, che penetrava forse per mille fessure invisibili, era più respirabile, sicchè i due uomini poterono avanzarsi liberamente.

Nelle pareti massiccie vi erano molti vani di forma quadrata, destinati a ricevere le bare, con sotto una tavola di marmo nero per ricevere le offerte destinate al morto, onde non dovesse soffrire la fame durante la traversata dell’Amenti, per raggiungere il regno d’Osiride o la «regione nascosta», il luogo di delizie.

Non erano quei vani, che d’altronde erano tutti vuoti, che interessavano Ounis e tanto meno Mirinri. Il sacerdote cercava ansiosamente un masso enorme, che doveva trovarsi nel centro della piramide e che celava il famoso fiore d’Osiride.

Essendo la luce della lampadina troppo fioca e lo spazio immenso e tenebroso, dovette percorrere parecchie centinaia di passi prima di scoprirlo.

«Eccolo,» disse finalmente.

Un gran dado di pietra bianca sormontato da una statua rappresentante Toth, il dio ibis, era comparso nel cerchio proiettato dalla luce.

Ounis s’accostò e rimosse colla mano un cumulo di vegetali che copriva la superficie, dei fiori di loto bianco ed azzurro, dei crisantemi, dei mazzi di trifoglio, dei sedani e dei melloni d’acqua seccati, che conservavano tuttavia ancora il loro color verde e dopo d’aver frugato entro una cavità trasse una piccola pianta disseccata, mostrandola trionfalmente al giovane.

Quella pianta meravigliosa, che doveva migliaia d’anni dopo far stupire i botanici europei ed americani, che la chiamarono il fiore della risurrezione e che fu scoperta da un beduino nel seno d’una principessa faraonica e donata dal possessore al dottor Deck nel 1848, era quella che gli antichi Egizi chiamavano il fiore d’Osiride.

Era una pianticella magra, esile, con dei bottoncini ingialliti dal tempo e ormai completamente disseccati.

«È proprio quella che il grande Osiride lasciò ai suoi successori?» chiese Mirinri, guardandola cogli occhi luccicanti.

«La stessa,» rispose Ounis, dopo averla osservata attentamente. «La riconosco benissimo perché io l’ho portata qui assieme a tuo padre.»

«E tu credi che riviverà?»

«Sì, se tu sei un vero Faraone. Se la statua di Memnone ha suonato in tua presenza, non ho ora alcun dubbio che questi due bottoncini schiuderanno le loro corolle.»

«Da quanti anni è così disseccata?»

«Chi potrebbe dirlo? Da migliaia e migliaia di certo, ma molte volte è risuscitata e certo per volere del grande Osiride. A te, prendila e versa su questi bottoncini due goccie.»

Gliela porse, unitamente ad una piccola fiala di vetro che conteneva un po’ d’acqua.