Tasuta

Le figlie dei faraoni

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Kuhu peaksime rakenduse lingi saatma?
Ärge sulgege akent, kuni olete sisestanud mobiilseadmesse saadetud koodi
Proovi uuestiLink saadetud

Autoriõiguse omaniku taotlusel ei saa seda raamatut failina alla laadida.

Sellegipoolest saate seda raamatut lugeda meie mobiilirakendusest (isegi ilma internetiühenduseta) ja LitResi veebielehel.

Märgi loetuks
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

CAPITOLO SETTIMO. La maliarda

Gli adoratori di Bast, sempre più esaltati pel troppo vino bevuto e che non dovevano aver ancora digerito, come abbiamo detto, si erano gettati in massa sul sett muovendo risolutamente verso il veliero, che si trovava sempre stretto ed immobilizzato fra le erbe acquatiche, non ostante gli sforzi prodigiosi degli etiopi per aprirsi un passaggio.

Parecchi si erano muniti di rami resinosi, che bruciavano come torcie e che non dovevano certo servire a rischiarare la via, essendo le notti, in Egitto, d’una trasparenza meravigliosa, che permette di discernere un oggetto, anche piccolo, a distanze incredibili.

Erano appunto quelle torcie vegetali che avevano impressionato Ata, il quale non era già la prima volta che combatteva sulle rive del Nilo.

«Guardiamoci!» aveva esclamato. «Ci copriranno di freccie ardenti e corriamo il pericolo di morire abbruciati.»

Anche Ounis aveva aggrottata la fronte ed una profonda inquietudine si era diffusa sul suo viso.

«Che il Figlio del Sole debba finire qui, prima ancora d’aver potuto vedere l’orgogliosa Menfi?»

Mirinri, che si sentiva ardere nelle vene il sangue di prodi guerrieri, aveva prontamente organizzata la difesa. Sembrava che tutto d’un tratto fosse diventato un vecchio ed esperimentato condottiero.

«Coprite il ponte colle vele ed innaffiatele d’acqua!» aveva gridato.

Poi, volgendosi verso la maliarda, che conservava sempre la sua impassibilità, come se tutto quello che accadeva non la riguardasse, le disse:

«E tu, ritirati nella camera di poppa.»

La maliarda scosse il capo con un gesto di diniego e si limitò a fissare con intensità il giovane.

«Mi hai compreso?» chiese Mirinri, stupito.

«Sì,» rispose Nefer con voce dolcissima, ma ferma.

«Le freccie stanno per cadere e saranno munite di fiocchi infuocati.»

«Nefer non ha paura. Se tu, che mi hai salvato, sfidi la morte, perché dovrò cercare di evitarla io? E poi io, umile donna, salvata da te!… La luce che brilla nei tuoi occhi mi dice che il tuo corpo è divino.»

«Che cosa ne sai tu?»

«Nefer legge il futuro.»

Le grida furibonde degli ubriachi interruppero il loro dialogo. Quei frenetici accorrevano all’assalto del piccolo veliero, con slancio irrefrenabile, balzando come una legione di demoni sul sett.

Ata aveva mandato un grido d’allarme:

«Attenzione!»

Gli etiopi avevano tesi gli archi, saettando i più vicini e trapassandone parecchi colle loro lunghe freccie, le cui punte mobili rimanevano entro le carni.

Mirinri era a sua volta accorso dietro la murata, brandendo una mazza pesantissima, col capo dentellato, che solo il suo braccio vigoroso poteva reggere. Nella sinistra aveva lo scudo di pelle coperto di lamine di metallo dorato e così spesso da ripararlo benissimo dai dardi nemici.

La gagliarda risposta degli etiopi arrestò per un momento gli assalitori, ma una voce tuonante, che si alzò in mezzo all’orda, li decise a ritornare all’attacco:

«Il gran sacerdote lo vuole!»

Ata avea mandato un grido di rabbia.

«Lo avevo sospettato! Era un agguato!»

I bevitori avevano ripresa la corsa attraverso il sett, riparandosi dietro i loro grandi scudi. Delle freccie, la cui punta era impregnata d’una materia ardente, che bruciava, spandendo una luce azzurrognola, volavano attraverso le tenebre, conficcandosi nei fianchi del veliero e contro l’alberatura, minacciando di sviluppare un incendio a bordo.

Gli etiopi non si perdevano tuttavia d’animo, e continuavano a saettare gli assalitori, facendone cadere parecchi sulle erbe galleggianti. Quelli che lavoravano all’apertura del canale erano pure entrati in lotta, abbattendo a gran colpi d’ascia i primi arrivati.

La lotta stava per assumere proporzioni spaventose, quando la voce della maliarda echeggiò strillante fra le urla dei combattenti.

«Bacino di fuoco! Anime dei boschi! Toro delle tenebre! Spirito della notte! uditemi! Eh! Eh! Eh! Ih! Ih! Ih! Oh! Oh! Oh! Che Api, il dio del Nilo, spenga per sempre, nelle viscere delle vostre donne i figli vostri; che Hakaon, dio della fertilità, inaridisca per sempre le vostre campagne; che Ovadjit il simbolo del Nord e che Nekhbit il simbolo del Sud devastino l’alto e basso Egitto; che Khnum, il fabbricatore degli esseri umani, spenga la vostra razza infame se voi non vi arrestate! Non penetra nei vostri cuori la potenza divina che il giovane guerriero emana e che io sento? Egli ha lo spirito d’Osiride: la sua carne è sacra. Osate toccarlo! Nefer, la maliarda, ha letto nel suo cuore: uccidetelo e l’Egitto sarà finito!»

Mirinri, Ata e Ounis, stupiti da quello strano linguaggio, si erano voltati.

La maliarda stava ritta, rigida come una statua di bronzo, colle mani alzate, come se stesse per scagliare qualche terribile maledizione, gli occhi sfolgoranti d’una luce intensa ed i lineamenti alterati da una collera impossibile a descriversi.

Gli assalitori si erano arrestati. Pareva che un improvviso terrore si fosse impadronito di loro, poiché avevano lasciati cadere gli scudi, gli archi e le spade.

Ata si era slanciato verso la maliarda, colla spada alzata, gridando:

«Miserabile! Tu ci hai traditi annunciando la presenza d’un Faraone a bordo del mio veliero.»

«Salvo il Figlio del Sole,» rispose Nefer, con voce metallica.

Mirinri aveva fermato Ata, il quale stava già per colpire la fanciulla.

«Non vedi che gli assalitori arretrano?» esclamò. «Perché vuoi uccidere chi mi salva?»

I bevitori infatti si ripiegavano lentamente verso la riva del Nilo, senza più scagliare alcuna freccia. Tutti i loro occhi erano fissi su Mirinri e quegli sguardi, che pochi momenti prima esprimevano una rabbia folle, sembravano terrorizzati.

L’improvvisa rivelazione della maliarda era caduta sui loro crani eccitati dal vino, come una goccia gelata, calmando di colpo i loro cervelli.

Chi avrebbe osato lanciare ancora una freccia contro quella barca montata da un Faraone, da un dio? Era troppo grande la potenza di quei discendenti del Sole perché osassero rivolgere contro di loro le armi.

Se la maliarda lo aveva detto, gli assalitori che, come tutti gli altri egizi, credevano a quelle donne che affermavano saper leggere nel futuro e tutto indovinare di primo acchito, doveva essere vero. Lottare contro un dio sarebbe stato impossibile ed i Faraoni non rappresentavano sulla terra che la più grande divinità adorata dai popoli abitatori delle terre fecondate dal Nilo.

Narrano le antiche cronache egizie, che tutta quella regione racchiusa all’est dal mar Rosso e all’ovest dal deserto libico, era stata per un numero infinito di secoli governata da un dio chiamato, secondo gli uni Horus e secondo gli altri Osiride; che quel dio un giorno, stanco, la abbandonò nelle mani d’un essere umano chiamato Mêna, che fu il primo dei Faraoni, ed a cui passò il diritto divino.

Potevano dunque quei miserabili beoni alzare le armi contro un uomo che discendeva da un dio e che la maliarda aveva loro rivelato?

La ritirata degli assalitori non tardò a cambiarsi in una fuga precipitosa e ben presto, con grande stupore di Mirinri, che non si rendeva ancora conto della sua infinita potenza, la riva del Nilo rimase deserta.

«Fuggiti tutti!» esclamò, guardando Nefer che si teneva sempre ritta sulla murata, colle mani tese in alto. «Chi è costei e quale forza occulta nasconde nel suo corpo per mettere in rotta un piccolo esercito?»

«Ella ti ha tradito, mio signore,» disse Ata che teneva ancora la spada in mano e che pareva in preda ad una vivissima eccitazione.

«Mi ha salvato invece,» rispose Mirinri.

«No: essi ormai sanno che nella mia barca si nasconde un Faraone e fra giorni questa voce giungerà a Menfi. Uccidila! Il Nilo è qui profondo e non restituisce la preda che gli si affida. I coccodrilli faranno sparire ogni traccia.»

«Quando un Faraone salva, non sopprime l’essere che ha strappato alla morte. Se è vero che sono un Figlio del Sole quella giovane donna vivrà.»

«Ecco che parla il sangue di suo padre,» disse Ounis, guardandolo con ammirazione. «Tu hai ragione, Mirinri. Quella fanciulla, chiunque sia, ha tratto da un grave pericolo il futuro re dell’Egitto e per noi è sacra.»

Ata, come era sua abitudine, scosse il capo e non rispose subito. Dopo però alcuni istanti di silenzio riprese:

«Non siamo ancora a Menfi. Quegli uomini ci avevano teso un agguato e non ci lascieranno scendere tranquillamente il Nilo. È Pepi che li ha mandati. Egli ha sospettato che tu, mio signore, non eri morto.»

Poi, volgendosi improvvisamente verso la maliarda, le chiese:

«Tu conoscevi quegli uomini?»

«Sì» rispose Nefer.»

«Perché hanno scelto quel luogo per ubbriacarsi e festeggiare Bast?»

«Non lo so.»

«Chi sono costoro?»

«Battellieri e pescatori ma…»

«Continua.»

«Ho notato fra di loro delle persone che non ho mai veduto nelle borgate bagnate dal Nilo.»

«Gente venuta da Menfi?»

«Lo sospetto,» rispose la maliarda.

«Tu conosci questi luoghi?

«Da parecchi anni erro di villaggio in villaggio, predicando la buona e la cattiva ventura perché io so leggere nel futuro. Mia madre era una famosa indovina.»

Mirinri si fece innanzi.

«Come hai potuto tu sospettare che io sia un Faraone?»

«Quando ti ho veduto, mio signore, mi sono subito sentita correre un fremito strano per le vene, quel fremito che io ho provato quando predissi la sorte alla principessa che un mese fa salì il Nilo.»

«Come!» esclamò Mirinri, che ebbe un rapido sussulto. «Tu hai veduto quella principessa?»

«Sì, mio signore.»

«E le hai predetta la sorte?»

Nefer fece col capo un cenno affermativo.

«Che cosa le hai detto?» chiese Ounis con voce alterata.

 

La maliarda esitò un istante, poi, vedendo che Mirinri la fissava con uno sguardo imperioso, disse:

«Che un grande disastro minacciava suo padre, e che questo disastro avrebbe, in un tempo non lontano, travolta la sua potenza e offuscata per sempre la sua gloria.»

«Vuoi predire anche a me la mia sorte?» chiese il giovane Faraone.

«Sì, ma non ora,» rispose Nefer. «Bisogna che aspetti lo spuntare del sole perché tu sei un Figlio del Sole e non già delle tenebre. In quel momento l’anima del grande Osiride vibrerà nel mio cervello e la profezia sarà più sicura, perché ispirata da lui.»

«Aspetterò,» disse Mirinri, «quantunque io creda poco alle tue profezie.»

«Eppure, mio signore, ti ho dato poco fa la prova che io difficilmente m’inganno. Solo io ho riconosciuto in te un essere divino e me ne sono accorta appena ti vidi dinanzi a me.»

«Forse tu lo avevi saputo prima.»

«In quale modo, mio signore, e da chi?»

«Dai bevitori.»

«Io non ho mai udito parlare da loro che aspettassero un Faraone.»

«Loro, forse no; quelli che tu sospetti giunti da Menfi, sì; dovevano saperlo od almeno sospettare che su questa barca si trovava il figlio di un grande Faraone,» disse Ata. «La festa non doveva essere che un pretesto per nascondere un agguato e uccidere il futuro Figlio del Sole.»

«Io non ho parlato con loro, quindi non potevo sapere nulla.»

«E perché ti volevano uccidere?» chiese Ounis.

«Per vendicare la morte d’un giovane pescatore che era stato mio fidanzato e che, per appagare la mia smania di ricchezza, si era recato nel tempio di Kantapek a raccogliervi l’oro colà nascosto.»

«Che istoria ci narri tu?» chiese Ata, guardandola con diffidenza.

Nefer stava per rispondere, quando delle grida di stupore e anche di terrore s’alzarono fra gli etiopi che stavano tagliando l’ultimo tratto del sett.

«Tornano i beoni?» chiese Ata, slanciandosi verso prora.

«Guardate, padrone, guardate!» gridavano gli etiopi.

«Dove? Non vedo nessuno sulla riva,» rispose Ata.

«Là, in alto.»

Tutti alzarono gli occhi e con loro grande stupore scorsero volteggiare al di sopra delle palme, che coprivano la riva del Nilo, un numero infinito di punti luminosi che avevano dei riflessi azzurrognoli e che pareva si dirigessero verso il veliero.

«Che cosa sono?» chiese Mirinri. «Delle stelle?»

«Sì, delle stelle che portano fuoco alla nostra nave se non fuggiamo,» rispose Ata. «Quei miserabili non hanno avuto il coraggio di assalire un Faraone, ma si servono dei volatili.»

Si volse verso gli etiopi, che avevano sospeso il lavoro e che guardavano con ispavento quella falange immensa di punti luminosi, che s’accostava con rapidità prodigiosa.

«Quanto manca perché il passo sia libero?» chiese.

«Fra cinque minuti la massa erbosa sarà tagliata,» rispose uno per tutti.

«Affrettatevi se vi è cara la vita. Questo pericolo è forse peggiore dell’altro. Sei uomini a bordo per spiegare le vele. Il vento è favorevole e la corrente è forte al di là della barra.»

Poi, tornando verso Ounis e Mirinri, aggiunse:

«Prendete gli archi e non risparmiate le freccie. Fra pochi minuti saremo avvolti in una rete di fuoco. Che il grande Osiride protegga il futuro re dell’Egitto.»

CAPITOLO OTTAVO. I piccioni incendiarii

L’uso dei piccioni viaggiatori in guerra e anche come rapidi ausiliari del servizio postale, risale alla più remota antichità e gli egizi sembra che siano stati i primi a servirsi di quei gentili messaggeri, come furono pure quelli che più lungamente degli altri popoli li adoperarono.

Li ammaestravano sopratutto per la guerra, onde ardere le città che resistevano troppo ai loro assalti, facendo di essi degli uccelli incendiarii. Possessori di materie ardenti, che non si spegnevano nemmeno coll’acqua e che dovevano essere forse simili ai famosi fuochi greci di cui fu perduto per sempre il segreto, usavano attaccarli alla coda di quei graziosi ed intelligenti volatili ed a colpi di freccia dirigevano grosse schiere sulle città assediate, determinando in tal modo degli incendii spaventevoli, che costringevano ben presto i difensori alla resa.

Non furono d’altronde i soli antichi egizi a servirsi dei piccioni viaggiatori. Anche i greci, molte migliaia d’anni più tardi, li adoperarono pei servizi di guerra, del commercio e sopratutto nei giuochi olimpici. I giostratori che prendevano parte a quelle sfide atletiche, li mandavano regolarmente ai lontani parenti ed amici, apportatori di loro novelle.

Dicesi che Anacreonte, che visse 500 anni avanti l’êra volgare, spedì un piccione a Bathyll, latore d’una sua lettera e Pherekraters narrò ai suoi tempi, – 430 anni prima della nascita di Cristo, – che in Atene i piccioni servivano di messaggeri per le corrispondenze fra paesi e paesi.

Anche i romani se ne servirono, avendo appreso dai Greci l’arte di ammaestrarli e Plinio anzi racconta dei messaggi di guerra scambiatisi per loro mezzo, durante l’assedio di Mutina, e, secondo Geliano, lo stesso avvenne fra Pisa e Algina.

Nessuno però giunse ad addestrare quei volatili come i sudditi dei Faraoni e servirsene per incendiare le città e talvolta perfino le flotte nemiche, che s’impegnavano nei canali dell’immenso delta del Nilo.

Erano forse quei piccioni di specie diversa e più intelligente di quella odierna? Può darsi che appartenessero a quella chiamata più tardi di Bagdad, di cui si servirono i mussulmani per una lunga serie di anni e che è anche oggidì la migliore.

Lo stormo immenso, segnalato dagli etiopi, s’avvicinava rapido al Nilo, solcando le tenebre come una tromba di scintille, spinte da un vento impetuoso. La sua mèta era decisa: la barca montata dal giovane Faraone.

Gli ubriachi o almeno coloro che li avevano aizzati contro i naviganti, non osando assalire direttamente il Figlio del Sole, si erano serviti dei piccioni per combatterlo o meglio per annientarlo, prima che potesse giungere a Menfi. Era quella una prova chiara che alcuni conoscevano l’esistenza del figlio del grande Teti, il vincitore dei Caldei e che qualcuno aveva tradito il segreto, così gelosamente conservato per tanti anni.

«Lo vedi, mio signore,» disse Ata, rivolgendosi verso Mirinri, che guardava, senza manifestare alcuna apprensione, quel turbine di fuoco che stava per abbattersi sulla nave sempre immobilizzata. «Tu non volevi credere che quegli uomini ti avevano preparato un agguato!»

«Sì, avevi ragione,» rispose il giovane. «Ed ora giungeranno qui quei volatili?»

«Certo.»

«Ma chi li dirige?»

«Non vedi, signore, sui fianchi di quell’immenso stormo, salire verso il cielo delle freccie fiammeggianti, per impedire ai colombi di disperdersi?»

«Sì, scorgo infatti delle linee di fuoco che s’alzano fra i palmizi e che formano come una rete ardente.»

«Sono gli adoratori di Bast.»

«Non mi sembra tuttavia che noi corriamo un pericolo così grave come credi, Ata» disse Ounis. «Le nostre vele sono ancora calate e quei volatili non fanno altro che passare in mezzo a noi.»

«È vero, ma molti cadranno qui arsi ed il fuoco che portano appeso alla coda s’appiccherà al ponte. Avranno prima calcolata la durata della corda che sostiene la materia ardente. Guarda, guarda bene: non vedi che i fuochi cominciano già a cadere?»

«Facciamo affrettare il taglio del canale,» disse Mirinri.

«Se possiamo uscire dalle erbe prima che quei volatili siano qui, non avremo più nulla da temere.»

«Manca molto?» gridò Ata, rivolgendosi agli etiopi.

«Pochi colpi ancora, signore,» risposero.

«Sbrigatevi: i colombi giungono.»

In quel momento Nefer che fino allora era rimasta muta senza mai staccare, nemmeno un solo istante, gli sguardi da Mirinri, fece udire la sua voce.

«Io lancierò la maledizione sui messaggeri dell’aria,» disse. «Iside, la grande dea delle incantatrici, mi udrà e ci proteggerà da questo nuovo pericolo.»

Un sorriso d’incredulità apparve sulle labbra del giovane Faraone.

«Provati,» le disse.

Nefer, il cui viso bellissimo appariva in quell’istante trasfigurato ed i cui occhi si erano nuovamente accesi di quella strana fiamma che aveva colpito Mirinri, si slanciò verso la poppa del piccolo veliero, salì sulla murata con un solo salto, poi, tendendo le braccia verso la tromba di fuoco che filava già al di sopra delle palme costeggianti la riva del Nilo, lasciando cadere di quando in quando delle fiamme che non si spegnevano nemmeno se andavano a finire fra gli umidi papiri, gridò, con voce stridula:

«O Iside, grande dea delle incantatrici, vieni a me e liberaci dal pericolo che minaccia il giovane Figlio del Sole. Vieni, Horus, col tuo sparviero! Egli è piccolo, ma tu sei grande! Egli è debole, ma tu puoi dargli la forza e disperderà i tristi volatili che stanno per piombare su di noi. Dea del dolore e dio del dolore, dea dei morti e dio dei morti, salvate vostro figlio che ha nelle sue vene il sangue di Horus. Io sono entrata nel fuoco, io sono uscita dall’acqua e non sono morta. O Sole, fa parlare la tua lingua! O grande Osiride intercedi e scatena la tua potenza. Venite tutti, liberateci dal periglio, salvate il giovane Faraone. Dio del dolore, dea del dolore: dio dei morti, dea dei morti, accorrete!»

Così parlando, la maliarda vibrava tutta, come se una forza misteriosa facesse sussultare le sue carni. I suoi lunghi capelli neri, che erano sciolti sulle nude spalle, si attortigliavano come serpenti attorno al suo superbo collo ed i suoi braccialetti ed i suoi monili tintinnavano armoniosamente.

Mirinri la guardava stupito, chiedendosi se quella bellissima fanciulla era stata creata da un buon dio o da qualche genio del male. Vi era però nel suo sguardo qualche cosa più dello stupore: vi era dell’ammirazione.

«Questa fanciulla vale la Faraona che mi ha stregato» mormorò ad un tratto.

Quantunque avesse pronunciate quelle parole con una voce così bassa da non poterle udire nemmeno Ata che gli stava presso, la maliarda girò lentamente il capo verso di lui e un sorriso le apparve sulla piccola bocca.

Poi si rizzò tutta, mostrando le sue forme scultorie, che la leggera kalasiris multicolore appena velava e, fissando i suoi occhi sulle stelle, mormorò a sua volta:

«Morire, che importa? Scendere nel regno delle tenebre sì, ma col bacio del Figlio del Sole sulle labbra!»

Un gran grido, uscito dai petti degli etiopi, strappò Mirinri da quella contemplazione e fece sobbalzare Ata e Ounis.

«Il passo è aperto!»

La corrente, fino allora trattenuta dalla massa del sett, irrompeva gorgogliando attraverso il canale, aperto dalle scuri di bronzo degli erculei figli dell’alto Nilo. Il piccolo veliero, non trattenuto da nessuna corda, cominciava a scivolare fra i papiri e le foglie del loto, con un dolce fruscìo.

«A bordo! In alto le vele!» tuonò Ata, slanciandosi al timone. «Il vento soffia dal sud! Iside ha ascoltato l’invocazione della maliarda!»

Pareva infatti che la dea delle incantatrici non fosse stata sorda alle parole di Nefer, poiché la tromba di fuoco cominciava a disperdersi, forse perché non più guidata dalle freccie fiammeggianti, avendo dovuto gli arcieri arrestarsi sulle rive del Nilo.

Era formata da migliaia e migliaia di piccioni, che portavano, appesa alla coda, un pezzo di materia ardente che bruciava, spandendo all’intorno quella luce azzurrognola che si osserva nel zolfo liquefatto.

Di quando in quando un gran numero di colombi, investiti dal fuoco, cadevano nel fiume, e quella strana materia anche a contatto coll’acqua non cessava di ardere, crepitando fra i papiri e le larghe foglie di loto.

Quell’uragano di fuoco passò, con velocità vertiginosa, dietro la poppa del veliero ad un tiro d’arco e proseguì la corsa disordinata verso la riva opposta al fiume gigante, illuminando fantasticamente le tenebre.

Nefer non aveva abbandonata la murata, quantunque parecchi piccioni fossero caduti dinanzi a lei. Sempre ritta, come una meravigliosa statua di bronzo, con un braccio alzato in atto di scagliare qualche nuova maledizione, col petto sporgente, aveva sfidato intrepidamente il nembo infuocato, ripetendo:

«Isis! Isis! Grande divinità, proteggi il giovane Figlio del Sole!»

Quando tutti quei fuochi si perdettero nel lontano orizzonte, al di là delle immense foreste che coprivano la riva opposta del Nilo e il veliero, uscito ormai dal canale con tanta fatica aperto, si cullò sulle acque libere, si volse verso Mirinri, che non aveva cessato di guardarla.

«Sei salvo, Figlio del Sole!» gli disse.

«Quale potere soprannaturale possiedi tu?» chiese il giovane. «Io scorgo nei tuoi occhi una fiamma che la figlia dei Faraoni non aveva.»

 

Nefer ebbe un sussulto ed il suo viso si contrasse dolorosamente. Stette un momento, come immersa in un profondo pensiero, poi chiese, con uno strano tono di voce:

«Di quale figlia del Faraone intendi di parlare, mio signore?»

«Di quella a cui tu predicesti la ventura.»

«Tu l’hai veduta?»

«L’ho salvata anzi dalla morte.»

«Come hai salvato me!» esclamò la maliarda, con un sordo singhiozzo.

«L’ho strappata dalle fauci d’un coccodrillo.»

«E ti ha, in compenso, bruciato il cuore, è vero mio signore?»

«Che cosa ne sai tu?» chiese Mirinri, aggrottando la fronte.

«Forse che io non leggo nel passato e nel futuro e tutto indovino?»

«Ah! È vero, me l’hai detto: anzi aspetto la tua profezia.»

Nefer guardò il cielo. Le stelle declinavano ed in mezzo a loro scintillava, presso l’orizzonte, la cometa. La fissò per parecchi istanti, poi riprese, come parlando fra sé:

«È quella che racchiude il tuo destino, mio signore. Ma io devo attendere lo spuntare del sole, da cui tutti i Faraoni sono discesi.»

«Mancherà ancora qualche ora.»

Ounis interruppe la loro conversazione, chiedendo a Mirinri:

«Vedi più nulla tu, che hai gli occhi migliori dei miei, sulla riva destra?»

«No,» rispose il giovane dopo d’aver lanciato un rapido sguardo al di sotto dei palmizi. «Io credo che gli ubbriaconi, veduti i loro sforzi inutili, se ne siano andati o russeranno sotto le piante attorno ai vasi di vino di palma.»

«E noi approfitteremo per poggiare verso la riva opposta» disse Ata, che aveva fatto spiegare le immense vele. «Colà vi sono delle isole che formano molti canali e che non sono abitate che da ippopotami, da coccodrilli, da ibis e da pellicani.»

«Potremo passare inosservati?»

«Lo credo, mio signore,» rispose Ata a Mirinri. «D’ora innanzi noi dobbiamo prendere le più grandi precauzioni o Pepi ci farà arrestare, prima che noi possiamo scorgere gli alti obelischi della superba Menfi. Si sa già che sulla mia barca si nasconde il figlio del grande Teti e l’usurpatore farà il possibile per darci in pasto ai coccodrilli del Nilo.»

«Attraversiamo il fiume dunque,» disse Mirinri, «e guardiamoci dagli agguati.»

Il piccolo veliero, che aveva il vento in favore, tagliò obliquamente la corrente, accostandosi alla riva sinistra che appariva coperta da colossali palme dum e fiancheggiata da una fitta rete di papiri e di piante del loto.