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Le figlie dei faraoni

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CAPITOLO TREDICESIMO. Il tatuaggio di Nefer

Gli antichi Egiziani avevano, per la maggior parte, una vera venerazione per quel brutto anfibio che rappresentava e rappresenta anche oggidì la voracità, la rapacità e la distruzione; venerazione interessata perché lo riguardavano come un essere benemerito distruggendo i rettili di piccole dimensioni.

Ne avevano anzi fatto una specie di semidio, consacrandolo a Tifone, il genio simboleggiante il male, del quale i coccodrilli calmavano il furore.

A Eracleopoli la grande, a Tebe, a Coptos, a Ombos presso la quale sorgeva una città chiamata La città dei coccodrilli, si adoravano quei brutti mostri e specialmente a Menfi, dove si aveva una grande venerazione per una specie di coccodrillo, forse oggi scomparso, molto meno vorace di quello attuale e che gli antichi Egiziani chiamavano serchus.

I sacerdoti di quella città ne tenevano un gran numero in bacini appositamente scavati, li addomesticavano, li paravano con ornamenti preziosi, braccialetti, orecchini, collane e perfino mettevano sulla loro testa dei cappelli, forse per ripararla dai raggi troppo ardenti del sole. Che più? Nelle loro feste religiose serbavano per quegli schifosi sauriani il miglior posto d’onore ed i devoti non trascuravano mai, il giorno in cui scadeva la festa di Tifone, di accorrere in massa a offrire loro un gran numero di vivande chiamate sacre e perfino del vino! Sembra che in quell’epoca non sdegnassero il succo che ci ha regalato papà Noè.

Alla loro morte poi, quei rettili venivano accuratamente imbalsamati con sale e olio di cedro ed altri aromi e si collocavano in grandi urne attorno alle quali venivano tracciati dei cerchi che poi si consacravano con un rito speciale.

In alcune città e sopratutto a Menfi, l’adorazione degli Egiziani per quei mangiatori d’uomini era spinta a tale grado che se un povero diavolo moriva vittima dei denti formidabili d’uno di quei sauriani, sia in terra che nelle acque del Nilo, i suoi resti, se ne rimanevano, venivano imbalsamati e sepolti con grandi onori nelle tombe più superbe della città, e se si trattava d’un personaggio d’alta condizione questi veniva tumulato nel medesimo luogo ove aveva trovata la morte.

Nessun parente od amico poteva toccare quella salma, dopo che i sacerdoti vi avevano tracciato intorno il circolo sacro, perché il morto veniva considerato come possedente una natura superiore alla comune dei mortali… semplicemente perché non era stato tanto lesto da darsela a gambe prima di venire mezzo divorato!

Da questi esempi si può giudicare come fossero grandi il fanatismo e la superstizione di quel popolo antico, che pure giunse al culmine della civiltà nei primordi della vita umana.

Dobbiamo però dire che non tutti gli Egiziani consideravano il coccodrillo come un semidio, poiché ogni città ed ogni provincia aveva il suo animale sacro, che onorava alla sua maniera e avveniva sovente che in una provincia limitrofa a quella in cui si rendevano fanatici onori al coccodrillo, questo culto fosse detestato come cosa abominevole, divergenza che era sovente causa di rappresaglie sanguinose.

Gli abitanti di Elefantina per esempio, non vedevano altro in quel brutto rettile che un nemico dell’uomo ed invece di rispettarlo lo cacciavano assiduamente e non avevano alcun scrupolo a mangiarne le carni, poco curandosi del suo sgradevole odore di muschio.

Il piccolo veliero, dopo l’eroica impresa del giovane Faraone, aveva ripresa la sua corsa, aiutata da una fresca brezzolina che soffiava da mezzodì.

Il Nilo si gonfiava rapidamente, coprendo a poco a poco i papiri che ingombravano le sue rive e le larghe foglie delle piante di loto. Le sue acque a poco a poco perdevano la sua tinta verdastra e diventavano rossastre, come se vi avessero versato dentro delle enormi quantità di sangue.

Di quando in quando una grande ondata sopraggiungeva, allargandosi con lunghi muggiti e scuotendo fortemente il veliero.

Mirinri, dopo d’aver salvato la maliarda, pareva che fosse ricaduto nelle sue fantasticherie, poiché aveva ripreso il suo posto abituale, sull’orlo del casseretto di poppa, su una grande cassa, come se l’impresa straordinaria che aveva compiuto ed il pericolo fosse stato un semplice giuoco. Sembrava che avesse dimenticato completamente Nefer che pure aveva riportata a bordo fuori dei sensi.

Ounis e Ata si erano però subito occupati della giovane, che avevano fatta trasportare nel casotto di poppa. Sia l’emozione provata o l’acqua che aveva inghiottito, la fanciulla non era ancora in sé, quantunque Ounis si fosse subito occupato di lei per riattivarle la respirazione. Stava strofinandole vigorosamente le membra, quando un grido sfuggì al vecchio.

«Possibile! Che io sia diventato cieco? Guarda anche tu, Ata! Io stento a credere ai miei occhi!

La leggera mussola variopinta che copriva il corpo della fanciulla si era slacciata e sulle bronzee e ben tornite spalle il vecchio sacerdote aveva veduto, con suo immenso stupore, tatuato un piccolo serpente colla testa d’avvoltoio, in colore azzurro.

Ata, udendo il grido del vecchio, si era rapidamente accostato al lettuccio su cui giaceva la fanciulla.

«Il tatuaggio del diritto di vita e di morte!» aveva esclamato a sua volta. «Il simbolo dei Faraoni, dei Figli del Sole!»

«Lo vedi?»

«Sì, Ounis.»

«Dunque questa fanciulla ha mentito quando affermava di essere una principessa nubiana! Solo i Faraoni hanno il diritto di portare questo tatuaggio.»

«È vero, Ounis,» rispose Ata che guardava, con crescente stupore, quel serpentello che spiccava vivamente sulla spalla destra della fanciulla.

Il vecchio aveva incrociate le braccia guardando Ata.

«Che cosa ne dici tu?»

«Che questa fanciulla deve essere di stirpe reale,» rispose Ata. «Il simbolo lo dimostra chiaramente, nessuno oserebbe portare un simile tatuaggio se non ne avesse il diritto. La morte ed una morte orrenda attenderebbe colui che si facesse incidere sulle proprie carni un tale segno e tu lo sai meglio di me Ounis, tu che…»

«Taci!» disse il vecchio, interrompendolo bruscamente.

Era diventato pensieroso e guardava intensamente Nefer, ancora assopita, ma che già respirava liberamente.

«Che sia la Faraona che Mirinri ha salvato? E come sotto queste vesti?»

«L’avrebbe riconosciuta,» disse Ata.

«Tu che hai vissuto alla corte di Pepi sai bene quante figlie ha?»

«Una sola: Nitokri.»

«Nessun’altra?»

«No.»

«Sei ben certo?»

«Sì, Ounis.»

«E… l’altra?»

«La tua?»

«Taci, Ata!» disse il vecchio con voce strozzata. «Dov’è? Non si è mai saputo nulla?»

«Scomparsa, forse uccisa da Pepi.»

Uno spasimo supremo aveva alterato il viso del vecchio; ma non ebbe che la durata d’un lampo.

«Un giorno Pepi me ne renderà conto,» disse con voce cupa e come parlando fra sé.

I suoi occhi si erano nuovamente fissati su Nefer specialmente su l’ureo, sul simbolo faraonico che era rimasto ancora scoperto.

«Sì,» rispose, dopo parecchi istanti di silenzio. «Questa fanciulla non può essere che una Faraona che forse Pepi, chissà per quali scopi, ha tenuta lontana dalla corte e che a nessuno ha fatto conoscere. Che sua madre fosse un’ebrea?»

«Mi era venuto il medesimo sospetto, Ounis,» disse Ata.

«Od una caldea?»

«Può darsi anche questo.»

«Lasciami solo, Ata, e che nessuno entri. Nefer sta per tornare in sé.»

Infatti la fanciulla aveva fatto un gesto colla mano destra, come per allontanare qualche cosa, poi un lungo sospiro le era uscito dalle labbra.

Ata era uscito in punta di piedi, chiudendo dietro di sé la porta.

Il vecchio continuava a fissare intensamente Nefer. Pareva che cercasse di scoprire sul bellissimo viso della maliarda qualche segno, qualche particolare ma senza riuscire nell’intento poiché di quando in quando scuoteva la testa con un moto d’impazienza e di collera e mormorava:

«Troppo tempo è trascorso.»

Ad un tratto Nefer fece un nuovo movimento, poi gli uscì dalle labbra, debole come un soffio, un nome:

«Mirinri!»

Ounis aveva aggrottata la fronte poi subito si rasserenò.

«L’ama,» mormorò. «Anche questa è una Faraona ma è meno nemica dell’altra. Se riuscisse a far breccia nel cuore di Mirinri e scacciare l’altra sarebbe una fortuna. Chissà!»

Prese la fanciulla per una mano e la scosse dolcemente dicendole:

«Apri gli occhi, Nefer. Devo parlarti.»

La fanciulla tardò alquanto a obbedire, poi le sue palpebre s’alzarono lentamente ed i suoi occhi nerissimi, sempre animati da quell’intensa fiamma, si fissarono su Ounis.

«Tu, mio signore,» disse.

Poi, come se avesse riacquistato improvvisamente le sue forze, s’alzò a sedere di scatto, coprendosi la spalla sulla quale stava impresso il simbolo di vita e di morte.

«E Mirinri?» chiese con angoscia.

«Non temere per lui,» rispose Ounis. «Quel Figlio del Sole non si lascia divorare dai coccodrilli.»

«Io non lo vedo qui.»

«È in coperta.»

Una viva espressione di dolore alterò per qualche istante il volto della maliarda.

«Pensa sempre all’altra» mormorò.

«Sei caduta o ti sei gettata in acqua, Nefer?» chiese a bruciapelo Ounis.

«Perché mi fai questa domanda, mio signore?» chiese la fanciulla sussultando.

«Perché in quel momento la barca era quasi immobile e l’onda era già passata. Una danzatrice, che sembra possegga la leggerezza e l’agilità d’uno sparviero, non può lasciarsi sfuggire un piede. Non sei caduta: ti sei gettata.»

Nefer lo guardò senza rispondere: aveva però un aspetto così imbarazzato che non sfuggì agli sguardi indagatori del vecchio sacerdote.

«Hai voluto provare se Mirinri ti amava, è vero?» riprese Ounis. «Volevi assicurarti se per te avrebbe fatto ciò che aveva osato colla giovane Faraona.»

 

Nefer chinò il capo e rimase ancora muta.

«Io ho sorpreso il tuo segreto, fanciulla, tu l’ami.»

La maliarda fece colla testa un segno di diniego; Ounis l’arrestò con un gesto.

«Ti sei tradita da per te,» disse poi. «La prima parola che ti è uscita dalle labbra appena sei tornata in te è stato il nome del Figlio del Sole. E perché non potresti tu amarlo? Sei anche tu una Faraona.»

«Io?!» esclamò Nefer scattando, mentre un lampo di gioia infinita le brillava negli occhi. «È impossibile! Tu ti sei ingannato o ti hanno ingannato. Io sono una etiope e non già una egiziana.»

«Io ho scorto poco fa, su una delle tue spalle, il simbolo che solo i Faraoni hanno il diritto di portare. Chi ti ha fatto dunque quel tatuaggio?»

«Non lo so, mio signore,» rispose Nefer. «So di avere un segno su una delle mie spalle e mai ho saputo che cosa volesse significare, né chi me lo avesse fatto. Certo doveva essere ancora una bambina quando me lo incisero sulla carne.»

«Rappresenta l’ureo, il distintivo di regalità dei Faraoni.»

«Anch’io una Faraona!» esclamò per la seconda volta la fanciulla. «No, è impossibile.»

«Fruga nella tua memoria e cerca di risvegliare dei lontani ricordi. Tu non hai conosciuto tuo padre?»

«Forse, ma quando morì in guerra contro gli Egiziani dovevo essere piccina.»

«E tua madre, sì?»

«Te lo dissi già. Godeva fama di essere una grande indovina.»

«Era bianca o bruna?»

«Bruna, molto bruna: era vero tipo delle donne dell’Alto Nilo.»

«Bella?»

«Sì, bellissima.»

«Quando è morta?»

«Io era ancora giovanissima quando fu divorata da un coccodrillo presso la seconda cateratta.»

«Sei scesa sola verso il basso Egitto?»

«No, insieme ad un uomo che seppi poi essere un grande sacerdote.»

«Chi era?»

Nefer ebbe una lunga esitazione, poi disse: «Non lo so.

«Dove ti ha lasciato?»

«Sulle rive dell’isola ove sorge il tempio di Kantapek.»

«E non l’hai più riveduto?»

« Mai più,» rispose la fanciulla, dopo una seconda esitazione.

«Della tua prima infanzia non ricordi nulla?»

Nefer sembrò raccogliersi e fare uno sforzo prodigioso, poi disse con voce lenta:

«In certi momenti, quando il mio pensiero ricorre al passato, mi sembra di rivedere delle sale immense sfarzosamente ammobiliate, dei templi grandiosi pieni d’idoli, dove legioni di sacerdoti e di danzatrici facevano echeggiare i sistri sacri; delle piramidi immense e degli obelischi colossali, poi un grande fiume coperto di barche dorate. Mi sembra di vedere ancora soldati e schiavi inginocchiati dinanzi ad un uomo che sedeva su un trono d’oro, tutto cinto di grandi ventagli di penne di struzzo col manico lunghissimo. Ma vi è nel mio cervello come una nebbia che io sono impotente a diradare. Sono sogni o realtà? Io non lo so.»

«Cerca di ravvisare quell’uomo che sedeva su quel trono,» disse Ounis.

«È impossibile, mio signore. Quando lo tento mi pare che un fitto velo cali fra me e lui e me lo nasconda.»

«Eppure io non dispero che tu possa un giorno ricordartelo.»

«Perché t’interessa tanto quell’uomo?» chiese Nefer con un po’ di diffidenza.

Questa volta fu Ounis che non rispose. Stette per alcuni istanti immobile, poi uscì dalla cabina e risalì in coperta, molto pensieroso.

Nefer si era lasciata scivolare dal lettuccio e lo aveva seguito silenziosamente.

«Dunque?» chiese Ata, quando vide ricomparire Ounis.

«Non sono riuscito a saper nulla,» rispose il vecchio. «Eppure vi è in me un terribile dubbio.»

«Quale?»

«Che Sahuri non sia morta.»

«Tua…»

«La figlia di Teti,» disse Ounis, precipitosamente.

«Eppure io non ho trovato più nessuna traccia di lei alla corte di Pepi, né in Menfi. Io sono certo che l’hanno annegata nel Nilo.»

Uno spasimo supremo alterò il viso di Ounis.

«Un giorno noi lo sapremo,» disse poi con voce cupa.

Si era bruscamente voltato. Nefer s’avanzava lentamente, accostandosi a Mirinri, che stava appoggiato alla murata di babordo, guardando distrattamente le acque che rumoreggiavano fra i papiri e che cominciavano già a coprire le rive più basse.

«Ti debbo la vita, mio signore,» disse la fanciulla toccandolo lievemente su una spalla.

«Ah! Sei tu, Nefer?» rispose il giovane. «Sei ancora bagnata?»

«S’incaricherà il sole di asciugarmi.»

«Sai che il coccodrillo che ti voleva divorare l’ho ucciso? Le ferite che io dò non guariscono.»

«Tu sei un prode.»

«Mio padre era un grande guerriero, «rispose semplicemente Mirinri, senza nemmeno volgersi.»

«Eppure non credevo che tu ti gettassi in acqua per salvarmi.»

«Perché?»

«Io non sono quella Faraona; sono un’altra, ma pur io Faraona.»

Mirinri si era voltato vivamente, guardandola, con profondo stupore.

«Tu dici?» chiese, corrugando la fronte.

«Porto tatuato su di me l’ureo.»

«Tu!» ripetè.

«Io.»

Mirinri con uno strappo improvviso si lacerò la leggera tunica che gli copriva il dorso e mise a nudo la sua spalla poderosa.

«Guarda qui, Nefer,» disse.

«Lo vedo: il simbolo del potere.»

«È uguale al tuo?»

«Sì.»

«Chi sei tu dunque?» gridò Mirinri.

«Te lo dissi: una Faraona, ma non quell’altra che hai salvato prima di me, «rispose Nefer con sottile ironia.»

«Tu mi avevi detto di essere una principessa etiope.»

«Io ignoravo che cosa volesse significare quel tatuaggio.»

«Chi te lo spiegò?»

«Io,» disse Ounis che si era fermato a breve distanza.

«Tu non puoi ingannarti,» disse Mirinri.

Poi, dopo d’aver guardato Nefer, le disse:

«Ebbene, se siamo entrambi Figli del Sole, saremo come fratello e sorella.»

Nefer non rispose. Aveva solo abbassato il capo e quell’ombra intensa di tristezza che già il vecchio sacerdote aveva notata, era ricomparsa sul suo viso.

In quel momento si udì Ata a gridare:

«Ecco la fortezza di Abon ed ecco là delle colazioni pei coccodrilli. Aprite gli occhi e stiamo in guardia. Un pericolo forse si cela laggiù.»

CAPITOLO QUATTORDICESIMO. L’isola delle ombre

Tutti si erano voltati, guardando verso la riva sinistra, dove, su di un’altura, sorgeva una costruzione di forme massiccie, formata da parecchie torri colle pareti in pendenza e le cime irte di merlature grossolane, collegate da grosse muraglie che sembravano bastioni.

Gli Egiziani di quelle remote epoche se avevano curato molto la costruzione dei loro giganteschi monumenti, non avevano trascurate le loro fortificazioni, quantunque nessuna di esse avesse dato prova di resistere lungamente agli attacchi degli invasori, che si rovesciarono sull’Egitto durante le ultime dinastie.

In ciò erano molto inferiori agli Incas del Perù ed agli Aztechi del Messico, tuttavia ne avevano create molte, abbastanza formidabili, specialmente ad Abydos, dove sussistono ancora molti avanzi di fortificazioni con poche feritoie, porte aperte a grandi distanze che davano accesso a tortuosi corridoi costruiti nello spessore delle pareti, pieni di insidie pel nemico che riusciva a cacciarvisi dentro.

Non era però quella specie di castello ciò che aveva attirati gli sguardi di Mirinri e dei suoi compagni.

Erano due o trecento antenne, allineate lungo la riva del fiume, proprio dinanzi alla fortezza, e ognuna delle quali portava infisso un cadavere umano dalla pelle quasi nera. Tutti quei disgraziati avevan la punta dell’asta infissa profondamente nel petto e le loro braccia e le loro gambe pendevano inerti, già mezze scarnate dal becco degli sparvieri che volavano intorno in gran numero.

«Chi sono quegli uomini?» aveva chiesto Mirinri, il quale non aveva potuto celare un fremito d’orrore.

«Dei prigionieri di guerra, che hanno avuto la disgrazia di cadere vivi nelle mani dei soldati di Pepi,» rispose l’egiziano.

«È così che si uccidono?»

«Quando invece non si tagliano loro le mani, onde non possano più impugnare un’arma,» disse Ounis.

«E forse quegli uomini avevano combattuto valorosamente per la difesa del proprio paese,» disse Mirinri, come parlando fra se stesso. «È questa la civiltà egizia? Quando salirò io sul trono queste infamie non si commetteranno più.»

«Tu sei un generoso ed un nobile cuore,» disse Nefer, guardandolo con ammirazione.

«E costoro chi sono?» chiese il giovane, che osservava attentamente la fortezza.

«Sembrano soldati,» rispose Ata, aggrottando la fronte. «Vedo delle barche nascoste al di là dell’altura. Che vengano a farci una visita? Ecco quello che non desidererei.»

Due drappelli d’uomini, che avevano attorno alle anche dei perizomi di grossa tela, con un piccolo grembiale di cuoio che scendeva fino alle ginocchia, il petto avvolto in larghe fascie per difenderlo dai colpi di picca e sul capo degli ampi berretti a grandi righe, che ricadevano sulle loro spalle in modo da riparare tutta la nuca, scendevano la china avviandosi verso la riva.

Tutti portavano scudi di pelle, quadrati sotto e semirotondi in cima, ed erano armati di picche a tre punte, di certe specie di scuri col manico lunghissimo, nonché di daghe dalla lama larga e pesante.

«Che vengano qui?» chiese Ounis, che sembrava inquieto.

«Non sono che una quarantina,» disse Ata. «I miei etiopi avranno facilmente ragione di loro, se vorranno arrestarci.»

«Che siano stati avvertiti che io sono su questa barca?» chiese Mirinri.

«Non so, mio signore; però si direbbe che intorno a noi aleggi il tradimento. Eppure dei miei uomini sono sicuro come di me stesso.»

«Forse non sono che delle semplici supposizioni,» disse Ounis. «Non vi siamo che noi e abbiamo tutto l’interesse di mantenere l’incognito.

«Eppure vengono: guarda. Non vedi, Ounis, che s’imbarcano?»

«E noi lasciamoli venire e prepariamoci ad affogarli tutti, Ata,» disse Mirinri, che conservava la sua calma abituale. «Non si prende un reame lasciando la spada nella guaina.»

I due drappelli erano scomparsi per un momento dietro un gruppo di enormi palme, poi erano ricomparsi a bordo di due barche che non rassomigliavano affatto a quella di Ata, che era un vero veliero che anche i fenici, quegli intrepidi navigatori del Mediterraneo, grandi commercianti e grandi pirati insieme, gli avrebbero invidiato; quelle erano barche di forme massiccie, che terminavano sia a poppa che a prora in due punte altissime, in forma quasi d’un mezzo S, con un casotto che occupava quasi tutta la lunghezza e sulla cui cima si erano collocati alcuni guerrieri armati di archi.

Gli altri soldati si erano messi ai due lati e manovravano i remi.

Quantunque la corrente fosse aumentata di velocità, le due pesanti imbarcazioni non tardarono a giungere a portata di voce, essendo da qualche po’ il vento caduto.

«Ohe!» gridò uno dei due comandanti del drappello. «Che Hathor vi protegga e che Tifone tenga sempre lontani da voi i temsah (coccodrilli) ma ditemi chi siete e dove andate.»

«Siamo mercanti che si recano a Denderah,» rispose Ata, mentre i suoi etiopi scivolavano silenziosamente dietro le murate, onde essere pronti ad impedire un abbordaggio. «Che cosa vuoi da noi?»

«Venivo a chiederti se hai uno scriba a bordo.»

«Per che cosa farne?»

«Abbiamo da tagliare quattrocento mani e non vi è fra tutti noi uno che possa prendere nota degli uomini destinati al supplizio e mandare una copia al re.»

«Chi sono costoro?»

«Dei nubiani che abbiamo fatti prigionieri ieri. Ne vedi già un bel numero impalati sulla riva, ma ne abbiamo ancora trecento,» rispose il comandante del drappello, «e debbono subire anche essi le leggi della guerra.»

In quel momento dietro la folta linea di palme che s’allungava sulla riva si udirono delle urla spaventevoli, che parevano mandate non già da esseri umani, bensì da belve in furore. Era un coro infernale di ululati, di ruggiti, di rantoli da far gelare il sangue.

Mirinri, a rischio di compromettersi, erasi rizzato dietro alla murata, colla daga in mano, gridando con voce minacciosa:

«Che cosa fanno laggiù?»

«Strappano la pelle del petto a quelli che non subiranno la mutilazione delle mani,» rispose tranquillamente il comandante.()

«Voi non siete dei guerrieri, siete dei vili sciacalli!» tuonò il giovane.

I soldati che montavano le due barche, sbalorditi da quel linguaggio, che mai prima di allora avevano certo udito, si erano guardati l’un l’altro.

«Giovane, in nome di chi parli?» chiese il comandante.

«Se l’osi, sali sulla mia barca e vieni a vedere il simbolo di vita e di morte tatuato sulla mia spalla, ma quando l’avrai veduto, ti farò gettare nel fiume in pasto ai coccodrilli e sterminerò i tuoi uomini.»

 

«Imprudente!» disse Ata. «Che cosa hai fatto, mio signore?»

Mirinri non lo ascoltava.

«Su, amici!» gridò, volgendosi verso gli etiopi.

I trenta battellieri si erano alzati come un solo uomo dietro le murate, cogli archi tesi, pronti a far piovere sulle due scialuppe una tempesta di dardi.

L’atto audace del futuro re e anche l’attitudine decisa ed il numero degli etiopi, parve che calmasse l’umore bellicoso del comandante e dei suoi uomini. La possibilità poi che egli fosse un vero principe, viaggiante in incognito, li decise a volgere frettolosamente indietro ed a fuggire più che in fretta verso il castello, senza aver osato lanciare una sola freccia.

«Seguiamo anche noi il loro esempio,» disse Ata. «Tu, signore, hai commesso una grave imprudenza. Noi ignoriamo quanti uomini ci sono in quella rocca e di quante barche possono disporre.»

«Vengano,» rispose semplicemente Mirinri. «Basterà mostrare loro l’ureo che io ho tatuato sulla pelle se è vero che questo serpente colla testa d’avoltoio è l’insegna del potere supremo. È vero Ounis?»

«Tu un giorno sarai un gran re,» si limitò a rispondere il vecchio. «Tuo padre avrebbe fatto altrettanto e anche quello era un grande sovrano.»

«Purché possa sedermi sul trono dei miei avi…» rispose Mirinri, sorridendo.

«Ti ho mostrato l’astro che faceva scintillare la sua lunga coda e quello era un buon segno che annunciava un cambiamento prossimo della dinastia regnante.»

«Vedremo: confido nell’avvenire.»

Mirinri aveva ripreso il suo posto consueto, sedendosi sull’orlo del piccolo cassero; Nefer si era collocata a breve distanza da lui e sembrava occupata a guardare le rive del maestoso fiume, tutte coperte di gigantesche palme dum, che già tuffavano nelle acque le loro radici.

Il Nilo continuava a gonfiarsi, invadendo a poco a poco le campagne, dove ormai non si trovavano più né grano, né orzo, né lino. Dove trovava un’apertura, la corrente irrompeva con lunghi muggiti e si riversava attraverso le terre con incredibile rapidità, fertilizzandole col suo prezioso limo.

Fra gli animali appiattati fra i cespugli avveniva allora un fuggi fuggi generale e si vedevano balzare attraverso i solchi, con rapidità prodigiosa, truppe di graziose gazzelle, bande di antilopi dalle lunghe corna sottili e sciami di sciacalli urlanti, mentre s’alzavano per l’aria immensi stormi d’ibis bianche e nere, di aironi e di anitre.

La barca, che aveva il vento in favore, correva rapidissima, tenendosi costantemente verso la riva sinistra, sulle cui alture apparivano, di quando in quando, delle rovine imponenti, che parevano di antichi templi o di fortezze diroccate, forse avanzi di città distrutte dai Faraoni delle prime dinastie, i quali avevano portate le loro armi ben lungi dal Delta, scacciando a poco a poco i popoli nubiani che le occupavano.

Anche quel giorno trascorse, senza che apparisse sull’immensa distesa d’acqua, che sempre più allargavasi, l’obelisco che doveva indicare l’isola misteriosa. Alle domande che Ounis e Ata avevano rivolte a Nefer, questa aveva semplicemente risposto:

«Aspettate: il Nilo non ha raggiunto la gran piena.»

Altri due giorni trascorsero. Le rive erano ormai scomparse. Il Nilo pareva che fosse diventato un grande lago dalle acque torbidissime, quasi rossastre.

Verso il tramonto del quarto giorno, Ata segnalò quattro grossi punti neri, che scendevano la corrente, tenendosi a breve distanza l’uno dall’altro. Quasi nel medesimo istante si udì Nefer a gridare:

«Ecco l’obelisco profilarsi dinanzi a noi: l’isola di Kantapek è là.

Mirinri e Ounis si eran voltati, guardando nella direzione che la fanciulla indicava col braccio teso.

Sulla superficie delle acque, che il sole faceva rosseggiare e scintillare vivamente, si distingueva ad una grande distanza un’alta linea oscura che spiccava nettamente sul luminoso e purissimo orizzonte.

«Lo scorgi, mio signore? chiese Nefer al giovane Faraone, con uno strano tono di voce.

«Sì,» rispose Mirinri.

Poi la guardò aggiungendo:

«Che cos’hai Nefer? Mi sembri commossa.»

La fanciulla volse altrove il capo, come per sfuggire lo sguardo del giovane, poi rispose:

«No, t’inganni, mio signore.»

Ata in quel momento li raggiunse, dimostrando sul suo viso una estrema apprensione.

«Te lo avevo detto, mio signore, che tu avevi commessa una grave imprudenza,» disse, volgendosi verso Mirinri.

«Perché?»

«Vi sono quattro grosse barche che scendono il fiume e che mi hanno l’aria di volerci dare la caccia.»

«Che siano legni armati da guerra?» chiese Ounis che aveva trasalito.

«Ne sono certo.»

«Da che cosa lo arguisci?» domandò Mirinri.

«Dall’altezza del loro albero e dall’ampiezza della loro vela.»

«Che siano montate da quei soldati che suppliziavano i prigionieri di guerra?»

«Questo è il mio sospetto.»

«Che cosa puoi temere ora che l’isola di Kantapek è in vista?» chiese Nefer, intervenendo. «Quale egiziano oserebbe accostarsi a quelle rive, dove si crede che le anime dei re nubiani errino per vendicare la loro razza distrutta dai primi Faraoni? Essa è là, dinanzi a noi, pronta a offrirci un rifugio e nessuno ci seguirà fino al gigantesco obelisco.»

«E troveremo anche là altri nemici e più pericolosi,» dissero Ounis e Ata.

«Come ho scongiurati i piccioni fiammeggianti, scongiurerò gli spiriti dei nubiani,» rispose la fanciulla. «Non sono forse io una maliarda? Con una mia invocazione li obbligherò a rientrare nei loro sarcofaghi dove da secoli dormivano.»

«Sei certa della tua potenza?» chiese Ounis.

«Sì, mio signore, e se vuoi io te ne darò una prova sbarcando da prima sola su quell’isola, essendo necessario che il mio incantesimo, onde abbia efficacia, io vada a recitarlo in mezzo agli alberi che coprono l’isola.»

«E tu, fanciulla, oseresti tanto?» chiese Mirinri, che non poteva fare a meno di ammirare tanta audacia.

«Sì, pur di salvare il futuro mio re,» rispose Nefer.

«All’isola e senza perdere tempo,» disse Ata. «Quelle barche si dirigono verso di noi. Vi è su quelle rive una cala qualunque che sia sufficiente per ancorare la nostra barca?»

«Sì, dinanzi all’obelisco.»

Ata corse a poppa e prese il lungo remo che serviva in quell’epoca da timone, mentre Mirinri e Ounis si portavano a prora per sondare il fondo del fiume.

Essendo la corrente molto rapida, non trattenendola più le masse fitte dei papiri ormai tutti scomparsi sotto la piena, il piccolo veliero s’avanzava veloce, mentre le quattro barche segnalate sembravano non aver nessuna fretta d’accostarsi all’isola, che cominciava a delinearsi nettamente.

L’obelisco ingrandiva a vista d’occhio, giganteggiando sull’orizzonte, che gli ultimi raggi del sole tingevano d’un rosso ardente e mandava dei riflessi acciecanti come se fosse interamente dorato o coperto di qualche altro metallo risplendente.

«Chi lo ha innalzato?» chiese Mirinri a Nefer che lo guardava attentamente.

«Non lo so, mio signore,» rispose la fanciulla, quasi distrattamente.

«Lo si direbbe tutto d’oro.»

«È solo dorato(), almeno così mi dissero.»

«Che le favolose ricchezze dei re nubiani siano nascoste là dentro?»

«No,» rispose Nefer asciuttamente. «So io dove si trovano.»

«Dunque sei stata parecchie volte qui?»

«Una sola, te lo dissi.»

«Ma vi sono dei sacerdoti che guardano quei tesori?»

«Scongiurerò anche quelli, se ci saranno ancora; credo però che il mio fidanzato abbia scambiato delle ombre per degli esseri viventi.»

«Non lo avrebbero acciecato.»

Nefer non rispose. Pareva che fosse assai preoccupata ed inquieta. Anzi un tremito nervoso agitava fortemente le sue braccia ed i suoi occhi cercavano di non incontrarsi mai con quelli del Figlio del Sole.

Con due bordate, soffiando la brezza abbastanza forte, la barca raggiunse finalmente l’isola, rifugiandosi in una piccola cala le cui rive erano coperte da immense palme e alla cui estremità si rizzava maestoso l’enorme obelisco dorato, lanciando la sua punta a più di quaranta metri d’altezza.