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Le tigri di Monpracem

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L’INCROCIATORE

Abbandonata la disalberata e sdruscita giunca, la quale però non correva pericolo di affondare, almeno pel momento, i due legni da preda ripresero la corsa verso Labuan, l’isola abitata da quella fanciulla dai capelli d’oro, che Sandokan voleva ad ogni costo vedere.

Il vento si manteneva al nord-ovest e assai fresco ed il mare era ancora tranquillo, favorendo la corsa dei due prahos, i quali filavano dieci od undici nodi all’ora. Sandokan dopo di aver fatto ripulire il ponte, riannodare le manovre tagliate dalle palle nemiche, gettare in mare il cadavere del Ragno e di un altro pirata ucciso da una fucilata, e caricare i fucili e le spingarde, accese uno splendido narghilè proveniente senza dubbio da qualche bazar indiano o persiano, e chiamò Patan. Il malese fu pronto ad obbedire.

– Dimmi, malese, – disse la Tigre, piantandogli in viso due occhi che mettevano paura, – sai come è morto il Ragno di Mare?

– Sì – rispose Patan rabbrividendo, nel vedere il pirata tanto accigliato.

– Quando io monto all’abbordaggio, sai qual è il tuo posto?

– Dietro di voi.

– E tu non c’eri e qui il Ragno è morto in vece tua.

– È vero, capitano.

– Dovrei farti fucilare per questa tua mancanza, ma tu sei un prode e io non amo sacrificare inutilmente i coraggiosi. Al primo abbordaggio tu ti farai uccidere alla testa dei miei uomini.

– Grazie, Tigre.

– Sabau – chiamò poscia Sandokan.

Un altro malese, che aveva una profonda ferita attraverso il viso, si fece innanzi.

– Sei stato tu il primo a saltare, dopo di me, sulla giunca? – gli chiese Sandokan.

– Sì, Tigre.

– Sta bene. Quando Patan sarà morto, tu gli subentrerai nel comando.

Ciò detto attraversò a lenti passi il ponte e discese nella sua cabina situata a poppa.

Durante la giornata i due prahos continuarono a veleggiare in quel tratto di mare compreso fra Mompracem e le Romades all’ovest, la costa del Borneo all’est e nord-est e Labuan e le Tre Isole al nord, senza incontrare alcun legno mercantile.

La sinistra fama che godeva la Tigre si era sparsa in quei mari e pochissimi legni ardivano avventurarsi in quei luoghi. I più fuggivano quei paraggi, scorrazzati continuamente dai legni corsari e si tenevano sotto le coste, pronti, al primo pericolo, a gettarsi a terra onde salvare almeno la vita. Appena la notte cadde, i due legni terzarolarono le loro grandi vele onde premunirsi contro gli improvvisi colpi di vento, e si avvicinarono l’un l’altro per non perdersi di vista ed essere pronti a soccorrersi vicendevolmente. Verso la mezzanotte, nel momento in cui passavano dinanzi alle Tre Isole che sono le sentinelle avanzate di Labuan, Sandokan comparve sul ponte. Era sempre in preda ad una viva agitazione. Si mise a passeggiare da prua a poppa, colle braccia incrociate, rinchiuso in un feroce silenzio. Però di tratto in tratto si arrestava per scrutare la nera superficie del mare, saliva sulle murate per abbracciare un maggiore orizzonte, e poi si curvava e stava in ascolto. Cosa cercava di udire? Forse il brontolio di qualche macchina che indicasse la presenza di un incrociatore, oppure il fragore delle onde rompentisi sulle coste di Labuan?

Alle tre del mattino, quando gli astri cominciavano ad impallidire, Sandokan gridò:

– Labuan!

Infatti, verso est, là dove il mare si confondeva coll’orizzonte, appariva confusamente una sottile linea oscura.

– Labuan – ripetè il pirata, respirando, come se gli si fosse levato un gran peso che opprimevagli il cuore.

– Dobbiamo andare innanzi? – chiese Patan.

– Sì – rispose la Tigre. – Entreremo nel fiumicello che già conosci.

Il comando fu trasmesso a Giro-Batol e i due legni si diressero in silenzio verso l’isola sospirata.

Labuan, la cui superficie non oltrepassa i 116 chilometri quadrati, non era in quei tempi l’importante stazione navale che è oggidì.

Occupata nel 1847 da sir Rodney Mandy, comandante dell’Iris, per ordine del governo inglese che mirava a sopprimere la pirateria, non contava allora che un migliaio di abitanti, quasi tutti di razza malese e forse duecento bianchi. Avevano appena allora fondata una cittadella alla quale avevano dato il nome di Vittoria, munendola di alcuni fortini per impedire che venisse distrutta dai pirati di Mompracem, che parecchie volte ne avevano devastate le coste. Il resto dell’isola era ricoperto di fitti boschi popolati ancora di tigri, e solo rare fattorie erano state fondate sulle alture o nelle praterie.

I due prahos, dopo aver costeggiato per alcune miglia l’isola, si cacciarono silenziosamente in un piccolo fiumicello, le cui rive erano coperte da una ricchissima vegetazione, e lo salirono per sei o settecento metri ancorandosi sotto l’oscura ombra di grandi alberi.

Un incrociatore che avesse battuta la costa, non sarebbe riuscito a scoprirli, né avrebbe mai potuto sospettare la presenza di quei tigrotti, imboscati come le tigri delle Sunderbunds indiane.

A mezzodì, Sandokan, dopo di aver mandato due uomini alla foce del fiumicello e due altri nelle foreste, per non venire sorpreso, armatosi della sua carabina, sbarcava, seguito da Patan.

Aveva percorso circa un chilometro inoltrandosi nella fitta foresta, quando si arrestò bruscamente ai piedi di un colossale durion, le cui frutta deliziose, irte di punte durissime, si agitavano sotto i colpi di becco di uno stormo di tucani.

– Avete veduto qualche uomo? – chiese Patan.

– No, ascolta – rispose Sandokan.

Il malese tese l’orecchio e udì un lontano abbaiare.

– È qualcuno che caccia – disse rialzandosi.

– Andiamo a vedere.

Ripresero il cammino cacciandosi sotto le piante di pepe, i cui rami erano carichi di grappoli rossi, sotto gli artocarpi o alberi del pane e gli arenga, fra le cui foglie svolazzavano dei battaglioni di lucertole volanti.

I latrati del cane si avvicinavano sempre e ben presto i due pirati si trovarono in presenza di un brutto negro, vestito d’un paio di calzoncini rossi e che teneva a guinzaglio un mastino.

– Dove vai? – gli chiese Sandokan, sbarrandogli la via.

– Cerco la pista di una tigre – rispose il negro.

– E chi ti ha dato il permesso di cacciare nei miei boschi?

– Sono al servizio di lord Guldek.

– Sta bene! Dimmi ora, schiavo maledetto, hai udito parlare di una fanciulla che si chiama la «Perla di Labuan»?

– Chi non conosce in quest’isola quella bella creatura? È il buon genio di Labuan che tutti amano e tutti adorano.

– È bella? – chiese Sandokan, con una viva emozione.

– Credo che nessuna donna possa eguagliarla. Un forte sussulto agitò la Tigre della Malesia.

– Dimmi – riprese, dopo un istante di silenzio. – Ove abita?

– A due chilometri da qui, in mezzo ad una prateria.

– Basta così; va’ e, se ti preme la vita, non volgerti indietro.

Gli diede un pugno d’oro e quando il negro fu scomparso si gettò ai piedi di un grande artocarpo, mormorando:

– Aspettiamo la notte e poi andremo a spiare i dintorni.

Patan lo imitò, sdraiandosi all’ombra di un arecche ma colla carabina sottomano.

Dovevano essere le nove pomeridiane, quando un avvenimento inatteso venne ad interrompere la loro aspettativa.

Un colpo di cannone era echeggiato verso la costa, facendo bruscamente tacere tutti gli uccelli che popolavano i boschi. Sandokan balzò in piedi colla carabina fra le mani, tutto trasfigurato.

– Un colpo di cannone! – esclamò. – Vieni Patan; vedo del sangue!…

Si scagliò a balzi di tigre attraverso la foresta, seguito dal malese che, quantunque agile come un cervo, stentava a tenergli dietro.

TIGRI E LEOPARDI

In meno di dieci minuti, i due pirati giunsero sulla riva del fiumicello. Tutti i loro uomini erano saliti a bordo dei prakos e stavano abbassando le vele essendo il vento caduto.

– Cosa succede? – chiese Sandokan, balzando sul ponte.

– Capitano, siamo assaliti – disse Giro-Batol. – Un incrociatore ci sbarra la via alla foce del fiume.

– Ah! – disse la Tigre. – Vengono ad assalirmi anche qui questi inglesi? Ebbene tigrotti, impugnate le armi e usciamo in mare. Mostreremo a questi uomini come combattono le tigri di Mompracem!

– Viva la Tigre! – urlarono i due equipaggi, con terribile entusiasmo. – All’abbordaggio! All’abbordaggio!

Un istante dopo i due legni scendevano il fiumicello e tre minuti più tardi uscivano in pieno mare.

A seicento metri dalla costa, un grande vascello, della portata di oltre millecinquecento tonnellate e potentemente armato, navigava a piccolo vapore chiudendo la via dell’ovest.

Sul suo ponte si udivano rullare i tamburi che chiamavano gli uomini ai posti di combattimento e si udivano i comandi degli ufficiali. Sandokan guardò freddamente quel formidabile avversario e, anziché spaventarsi della sua mole, delle sue numerose artiglierie e del suo equipaggio tre e forse quattro volte più numeroso, tuonò:

– Tigrotti, ai remi!

I pirati si precipitarono sotto il ponte mettendo mano ai remi, mentre gli artiglieri puntavano i cannoni e le spingarde.

– Ora a noi due, vascello maledetto – disse Sandokan, quando vide i prahos filare come frecce sotto la spinta dei remi.

Subito un getto di fuoco balenò sul ponte dell’incrociatore e una palla di grosso calibro fischiò fra gli alberi del praho.

– Patan! – gridò Sandokan. – Al tuo cannone!

Il malese, che era uno dei migliori cannonieri che vantasse la pirateria, diede fuoco al suo pezzo. Il proiettile, che si allontanava fischiando, andò a schiantare l’asta della bandiera.

Il legno da guerra, invece di rispondere, virò di bordo presentando i sabordi di babordo, dai quali uscivano le estremità di una mezza dozzina di cannoni.

 

– Patan non perdere un solo colpo – disse Sandokan, mentre una cannonata rimbombava sul praho di Giro-Batol. – Fracassa gli alberi a quel maledetto, schiantagli le ruote, smontagli i pezzi e quando non avrai più occhio sicuro, fatti uccidere.

In quell’istante l’incrociatore parve incendiarsi. Un uragano di ferro attraversò l’aria e colpì in pieno i due prahos rasandoli come pontoni. Urla spaventevoli di rabbia e di dolore si alzarono fra i pirati, soffocate da una seconda bordata che mandò sottosopra remiganti, artiglierie ed artiglieri. Ciò fatto il legno da guerra, avvolto fra turbini di fumo nero e bianco, virò di bordo a meno di quattrocento passi dai prahos e si portò un chilometro più lontano, pronto a ricominciare il fuoco. Sandokan, rimasto illeso, ma atterrato da un pennone, si era tosto rialzato.

– Miserabile! – tuonò egli, mostrando le pugna al nemico. – Vile, tu fuggi, ma ti raggiungerò!

Con un fischio chiamò i suoi uomini in coperta.

– Presto, gettate una barricata dinanzi ai cannoni e poi avanti!

In un baleno, a prua dei due legni furono accumulati alberi di ricambio, botti piene di palle, vecchi cannoni smontati, e rottami d’ogni sorta, formando una solida barricata. Venti uomini, i più robusti, ridiscesero per manovrare i remi, ma gli altri si affollarono dietro alle barricate colle mani raggrinzate attorno alle carabine e i denti stretti sui pugnali che scintillavano fra le frementi labbra.

– Avanti! – comandò la Tigre.

L’incrociatore aveva arrestato la sua marcia retrograda e ora si avanzava a piccolo vapore, vomitando torrenti di fumo nero.

– Fuoco a volontà – gridò la Tigre.

Da ambe le parti si riprese la musica infernale, rispondendo colpo per colpo, palla per palla, mitraglia contro mitraglia.

I tre legni, decisi a soccombere, ma non a retrocedere, non si scorgevano quasi più, avvolti come erano da immense nuvole di fumo che una calma ostinata manteneva sopra i ponti, ma ruggivano con egual furore e i lampi si succedevano ai lampi e le detonazioni alle detonazioni.

Il vascello aveva il vantaggio della sua mole e delle sue artiglierie, ma i due prahos, che la valorosa Tigre conduceva all’abbordaggio, non cedevano. Rasi come pontoni, forati in cento luoghi, sdrusciti, irriconoscibili, già coll’acqua nella stiva, già pieni di morti e di feriti, continuavano a tirare innanzi, malgrado il continuo tempestare di palle.

Il delirio si era impadronito di quegli uomini e tutti altro non chiedevano che di salire sul ponte di quel formidabile vascello e, se non di vincere, almeno di morire sul campo del nemico.

Patan, fedele alla parola data, si era fatto uccidere dietro al suo cannone, ma un altro abile artigliere aveva preso il suo posto; altri uomini erano caduti e altri ancora, orrendamente feriti, colle braccia o colle gambe mozzate, si dibattevano disperatamente fra torrenti di sangue.

Un cannone era stato smontato sul praho di Giro-Batol e una spingarda non tirava quasi più, ma che importava?

Sul ponte dei due legni restavano altre tigri assetate di sangue, che facevano valorosamente il loro dovere.

Il ferro fischiava sopra quei prodi, staccava braccia e sfondava petti, rigava i ponti, schiantava le murate, frantumava ogni cosa, ma nessuno parlava di retrocedere, anzi insultavano il nemico e lo sfidavano ancora e, quando un colpo di vento sbarazzava quei poveri legni dai nuvoloni che li coprivano, si vedevano, dietro le semi-infrante barricate, volti foschi e raggrinzati dal furore, occhi iniettati di sangue che schizzavano fuoco ad ogni lampeggiar delle artiglierie, denti che scricchiolavano sulle lame dei pugnali e in mezzo a quell’orda di vere tigri, il loro capo, l’invincibile Sandokan, il quale, colla scimitarra in pugno, lo sguardo ardente, i lunghi capelli sciolti sugli omeri, incoraggiava i combattenti con una voce che risuonava come una tromba fra il rimbombo dei cannoni. La terribile battaglia durò venti minuti, poi l’incrociatore si portò altri seicento passi più indietro, per non venire abbordato.

Un urlo di furore scoppiò a bordo dei due prahos, a quella nuova ritirata. Ormai non era più possibile lottare con quel nemico che, approfittando della sua macchina, evitava ogni abbordaggio. Sandokan però non voleva ancora cedere.

Rovesciando con una irresistibile spinta gli uomini che lo circondavano si curvò sul cannone che era stato caricato, corresse la mira e vi diede fuoco. Pochi secondi dopo l’albero di maestra dell’incrociatore, sparato alla base, precipitava in mare assieme a tutti i bersaglieri delle coffe e delle crocette. Mentre il vascello si arrestava per salvare i suoi uomini che stavano per affogare e sospendeva il fuoco, Sandokan approfittava per imbarcare sul proprio legno l’equipaggio di Giro-Batol.

– Ed ora, alla costa e di volata! – tuonò.

Il praho di Giro-Batol, che si manteneva a galla per un vero prodigio, fu subito sgombrato ed abbandonato alle onde col suo carico di cadaveri e col suo pezzo d’artiglieria ormai inservibile.

Subito i pirati misero mano ai remi ed approfittando dell’inazione del vascello da guerra, s’allontanarono in fretta rifugiandosi nel fiumicello. Era tempo! Il povero legno, che faceva acqua da tutte le parti, non ostante i tappi cacciati frettolosamente nei fori aperti dalle palle dell’incrociatore, affondava lentamente.

Gemeva come un moribondo sotto il peso del liquido invasore e traballava, tendendo ad inchinarsi a babordo.

Sandokan, che si era messo alla barra del timone, lo diresse verso la sponda vicina e lo arenò su d’un banco di sabbia.

Appena i pirati s’accorsero che non correva più alcun pericolo di affondare, irruppero sulla tolda come un branco di tigri affamate, colle armi in pugno, i lineamenti contratti pel furore, pronti a ricominciare la lotta con egual ferocia e risoluzione.

Sandokan li arrestò con un gesto, poi disse, guardando l’orologio che portava alla cintura:

– Sono le sei: fra due ore il sole sarà scomparso e le tenebre piomberanno sul mare. Che ognuno si metta alacremente al lavoro onde il praho, per la mezzanotte, sia pronto a riprendere il mare.

– Attaccheremo l’incrociatore? – chiesero i pirati, agitando freneticamente le armi.

– Non ve lo prometto, ma vi giuro che verrà ben presto il giorno in cui noi vendicheremo la sconfitta. Noi mostreremo, al balenare dei cannoni, la nostra bandiera sventolar sui bastioni di Vittoria.

– Viva la Tigre! – urlarono i pirati.

– Silenzio – tuonò Sandokan. – Si mandino due uomini alla foce del fiumicello a spiare l’incrociatore e altri due nei boschi, onde evitare di farci sorprendere, si curino i feriti, poi tutti al lavoro.

Mentre i pirati si affrettavano a fasciare le ferite riportate dai loro compagni, Sandokan si recò a poppa e stette alcuni minuti in osservazione, spingendo lo sguardo verso la baia, il cui specchio d’acqua si scorgeva fra uno squarcio della foresta. Cercava senza dubbio di scoprire l’incrociatore, ma questo pareva che non avesse osato spingersi troppo vicino alla costa, forse per la tema d’incagliarsi sui numerosi banchi di sabbia che colà si estendevano.

– Egli sa di tenerci – mormorò il formidabile pirata. – Aspetta che noi usciamo nuovamente in mare per sterminarci, ma se crede che io lanci i miei uomini all’abbordaggio s’inganna. La Tigre sa anche essere prudente.

Si sedette sul cannone, poi chiamò Sabau.

Il pirata, uno dei più valorosi, che si era già guadagnato il grado di sottocapo, dopo d’aver giuocata venti volte la propria pelle, accorse.

– Patan e Giro-Batol sono morti – gli disse Sandokan con un sospiro. – Si sono fatti uccidere sul loro praho, alla testa dei valorosi che cercavano di trascinare addosso alla nave maledetta. Il comando spetta ora a te e te lo conferisco.

– Grazie, Tigre della Malesia.

– Tu sarai valoroso al pari di loro.

– Quando il mio capo mi comanderà di farmi uccidere, sarò pronto ad obbedirlo.

– Ora aiutami.

Radunarono le loro forze, spinsero a poppa il cannone e le spingarde, e le puntarono verso la piccola baia onde spazzarla a colpi di mitraglia, nel caso che le scialuppe dell’incrociatore avessero tentato di forzare la foce del fiumicello.

– Ora possiamo essere sicuri – disse Sandokan. – Hai mandato due uomini alla foce?

– Sì, Tigre della Malesia. Devono essersi imboscati fra i canneti.

– Benissimo.

– Aspetteremo la notte per uscire in mare?

– Sì, Sabau.

– Ci riuscirà d’ingannare l’incrociatore?

– La luna si alzerà tardi assai e forse farà a meno di mostrarsi. Vedo alzarsi delle nubi dal sud.

– Faremo rotta su Mompracem, capo?

– Direttamente.

– Ed invendicati?

– Siamo troppo pochi, Sabau, per affrontare l’equipaggio dell’incrociatore e, poi, come rispondere alle sue artiglierie? Il nostro legno non è più in grado di sostenere un secondo combattimento.

– È vero, capo.

– Pazienza per ora; il giorno della rivincita verrà e ben presto.

Mentre i due capi chiacchieravano, i loro uomini lavoravano con febbrile accanimento. Erano tutti valenti marinai e fra di loro non mancavano né i carpentieri né i mastri d’ascia.

In sole quattro ore rizzarono due nuovi alberetti, raccomodarono le murate, turarono tutti i fori e rinnovarono le manovre, avendo a bordo abbondanza di cavi, di fibre, di catene e di gomene.

Alle dieci il legno poteva non solo riprendere il mare, ma affrontare anche un nuovo combattimento, essendo state rizzate perfino delle barricate formate con tronchi d’albero, onde proteggere il cannone e le spingarde. Durante quelle quattro ore, nessuna scialuppa dell’incrociatore aveva osato mostrarsi nelle acque della baia.

Il comandante inglese, sapendo con quali individui aveva da fare, non aveva creduto opportuno impegnare i suoi uomini in una lotta terrestre. D’altronde si credeva certamente sicuro di costringere i pirati alla resa o di ributtarli verso la costa, se avessero tentato di assalirlo o di prendere il largo. Verso le undici, Sandokan, che era risoluto a tentare l’uscita in mare, fece richiamare gli uomini che aveva mandati a sorvegliare la foce del fiume.

– È libera la baia? – chiese loro.

– Sì – rispose uno dei due.

– E l’incrociatore?

– Si trova dinanzi alla baia.

– Lontano molto?

– Un mezzo miglio.

– Avremo spazio sufficiente per passare – mormorò Sandokan. – Le tenebre proteggeranno la nostra ritirata.

Poi, volgendosi verso Sabau, disse:

– Partiamo.

Tosto quindici uomini scesero sul banco e con una scossa poderosa spinsero il praho nel fiume.

– Che nessuno mandi un grido per qualsiasi motivo – disse Sandokan, con voce imperiosa. – Tenete invece bene aperti gli occhi e le armi pronte. Noi stiamo per giuocare una tremenda partita.

Si assise presso la barra del timone, con Sabau a fianco e guidò risolutamente il legno verso la foce del fiumicello.

L’oscurità favoriva la loro fuga. Non luna in cielo, anzi nemmeno una stella e nemmeno quel vago chiarore che proiettano le nubi quando l’astro notturno le illumina superiormente.

Dei grossi nuvoloni avevano invasa la volta celeste, intercettando completamente qualsiasi chiarore. L’ombra poi proiettata dai giganteschi durion, dai palmizi e dalle smisurate foglie dei banani, era tale che Sandokan penava molto a distinguere le due rive del fiumicello.

Un silenzio profondo, appena rotto dal lieve gorgogliare delle acque regnava sul quel piccolo corso di acqua. Non si udiva alcun sussurrio di foglie, non essendovi alcun alito di vento sotto le cupe volte di quei grandi vegetali e anche sul ponte del legno non si udiva alcun mormorio.

Pareva che tutti quegli uomini stesi fra la prora e la poppa, non respirassero più, per tema di turbare quella calma.

Il praho era già giunto presso la foce del fiumicello, quando dopo un lieve strofinìo s’arrestò.

– Arenati? – chiese brevemente Sandokan.

Sabau si curvò sulla murata e scrutò attentamente le acque.

– Sì – disse poi. – Vi è un banco sotto di noi.

– Potremo passare?

– La marea monta rapida e credo che fra pochi minuti potremo continuare la discesa del fiume.

– Attendiamo adunque.

L’equipaggio, quantunque ignorasse in seguito a quale causa il praho si era fermato, non si era mosso. Però Sandokan aveva udito lo scricchiolìo ben noto delle carabine che venivano armate ed aveva scorto gli artiglieri curvarsi silenziosamente sul pezzo di cannone e sulle due spingarde. Passarono alcuni minuti d’angosciosa aspettazione per tutti, poi si udirono verso prora e sotto la chiglia degli scricchiolii. Il praho, sollevato dalla marea che montava rapida, scivolava sul banco di sabbia. Ad un tratto si liberò da quel fondo tenace, ondulando lievemente.

 

– Spiegate una vela – comandò brevemente Sandokan agli uomini di manovra.

– Basterà, capo? – chiese Sabau.

– Per ora sì.

Un momento dopo una vela latina venne spiegata sul trinchetto. Era stata dipinta in nero, sicché doveva confondersi completamente colle ombre della notte.

Il praho affrettò la discesa, seguendo i serpeggiamenti del fiumicello. Superò felicemente la barra passando fra i banchi di sabbia e le scogliere, attraversò la piccola baia e uscì silenziosamente in mare.

– Il vascello? – chiese Sandokan, scattando in piedi.

– Eccolo laggiù, a mezzo miglio da noi – rispose Sabau.

Nella direzione indicata si scorgeva confusamente una massa oscura, sopra la quale volteggiavano di quando in quando dei piccoli punti luminosi, certamente delle scorie sfuggite dalla ciminiera.

Ascoltando attentamente, si udivano anche i sordi brontolii delle caldaie.

– Ha i fuochi ancora accesi – mormorò Sandokan. – Egli adunque ci aspetta.

– Passeremo inosservati, capo? – chiese Sabau.

– Lo spero. Vedi nessuna scialuppa?

– Nessuna, capo.

– Rasenteremo prima la spiaggia, per meglio confonderci colla massa delle piante, poi prenderemo il largo.

Il vento era piuttosto debole, ma il mare era calmo come se fosse d’olio. Sandokan comandò di spiegare anche sull’albero maestro una vela, poi spinse il legno verso il sud, seguendo le sinuosità della costa.

Essendo le spiagge coperte di grandi alberi, i quali proiettavano sulle acque una cupa ombra, vi erano poche probabilità che il piccolo legno corsaro potesse venire scorto.

Sandokan, sempre alla barra, non perdeva di vista il formidabile avversario, il quale da un istante all’altro poteva di colpo risvegliarsi e coprire il mare e la costa con uragani di ferro e di piombo.

Si studiava d’ingannarlo, però in fondo all’animo il fiero uomo si doleva di lasciare quei paraggi senza la rivincita. Avrebbe desiderato di trovarsi già a Mompracem, ma avrebbe anche desiderato un’altra tremenda battaglia. Egli, la formidabile Tigre della Malesia, l’invincibile capo dei pirati di Mompracem, aveva quasi vergogna d’andarsene così, alla chetichella, come un ladro notturno. Solamente quest’idea gli faceva bollire il sangue e gli faceva avvampare gli sguardi d’una collera tremenda. Oh! Come avrebbe salutato un colpo di cannone, anche quale segno di una nuova e più disastrosa disfatta! Il praho si era già allontanato di cinque o seicento passi dalla baia e si preparava a prendere il largo, quando a poppa, nella scia, apparve uno strano scintillìo. Pareva che miriadi di fiammelle sorgessero dalle profondità tenebrose del mare.

– Stiamo per tradirci – disse Sabau.

– Tanto meglio – rispose Sandokan con un sorriso feroce. – No, questa ritirata non era degna di noi.

– È vero, capitano – rispose il malese. – Meglio morire colle armi in pugno che fuggire come sciacalli.

Il mare continuava a diventare fosforescente. Dinanzi la prora e dietro la poppa di legno, i punti luminosi si moltiplicavano e la scia diventava ancor più luminosa. Pareva che il praho si lasciasse dietro un solco di bitume ardente o di zolfo liquefatto.

Quella striscia, che scintillava vivamente fra l’oscurità circostante, non doveva passare inosservata agli uomini di guardia dell’incrociatore. Da un istante all’altro poteva tuonare improvvisamente il cannone.

Anche i pirati, stesi sulla tolda, si erano accorti di quella fosforescenza, però nessuno aveva fatto un gesto solo o aveva pronunciato una sola parola che potesse tradire qualche apprensione. Anche loro non sapevano rassegnarsi ad andarsene senza sparare un colpo di fucile.

Una grandine di mitraglia sarebbe stata salutata con un urlo di gioia. Erano appena trascorsi due o tre minuti, quando Sandokan, che teneva sempre gli sguardi fissi sull’incrociatore, vide accendersi i fanali di posizione.

– Se ne sono accorti forse? – si chiese.

– Lo credo, capo – rispose Sabau.

– Guarda!

– Sì, vedo che le scorie sfuggono più numerose dalla ciminiera. Si alimentano i fuochi.

Ad un tratto Sandokan scattò in piedi colla scimitarra in pugno.

– Alle armi! – avevano gridato a bordo del legno da guerra.

I pirati si erano prontamente risollevati, mentre gli artiglieri si erano precipitati sul cannone e sulle due spingarde. Tutti erano pronti ad impegnare la lotta suprema.

Dopo quel primo grido era successo un breve silenzio a bordo dell’incrociatore, ma poi la stessa voce, che il vento portava nettamente fino al praho, ripetè:

– Alle armi! Alle armi! I pirati fuggono!

Poco dopo si udì un tamburo rullare sul ponte dell’incrociatore. Si chiamavano gli uomini ai loro posti di combattimento.

I pirati, addossati alle murate o affollati dietro alle barricate formate con tronchi d’albero, non fiatavano, ma i loro lineamenti, diventati feroci, tradivano il loro stato d’animo. Le loro dita si raggrinzavano sulle armi, impazienti di premere i grilletti delle loro formidabili carabine.

Il tamburo continuava a rullare sul ponte del legno nemico. Si udivano le catene delle ancore stridere attraverso le cubie ed i colpi secchi dall’argano.

Il vascello si preparava a lasciar l’ancoraggio per assalire la piccola nave corsara.

– Al tuo pezzo, Sabau! – comandò la Tigre della Malesia. – Otto uomini alle spingarde!

Aveva appena dato quel comando, quando una fiamma brillò a prora dell’incrociatore, sopra il castello, illuminando bruscamente il trinchetto ed il bompresso. Una detonazione acuta rintronò, seguita subito dal ronfo metallico del proiettile sibilante attraverso gli strati d’aria.

Il proiettile smussò l’estremità del pennone maestro e si perdette in mare, sollevando un grande sprazzo spumeggiarne.

Un urlo di furore echeggiò a bordo del legno corsaro. Ormai bisognava accettare la battaglia ed era ciò che desideravano quegli arditi schiumatori del mar Malese.

Un fumo rossastro sfuggiva dalla ciminiera del vascello da guerra. Si udivano le ruote mordere affrettatamente le acque, i brontolii rauchi delle caldaie, i comandi degli ufficiali, i passi precipitati degli uomini. Tutti si affrettarono a correre ai loro posti di combattimento.

I due fanali furono veduti cambiare posizione. Il vascello correva addosso al piccolo legno corsaro per tagliargli la ritirata.

– Prepariamoci a morire da prodi! – gridò Sandokan, il quale ormai non s’illudeva sull’esito di quella tremenda pugna.

Un urlo solo vi rispose:

– Viva la Tigre della Malesia!

Sandokan, con un vigoroso colpo di barra, virò di bordo, e mentre i suoi uomini orientavano rapidamente le vele, spinse il legno incontro al vascello per tentare di abbordarlo e scagliare i suoi uomini sul ponte del nemico.

Il cannoneggiamento cominciò ben presto da una parte e dall’altra. Si sparava a palla ed a mitraglia.

– Orsù, tigrotti, all’arrembaggio! – tuonò Sandokan. – La partita non è eguale, ma noi siamo le tigri di Mompracem!

L’incrociatore si avanzava rapidamente, mostrando il suo acuto sperone e rompendo le tenebre ed il silenzio con un furioso cannoneggiamento. Il praho, vero giuocattolo di fronte a quel gigante, a cui bastava un solo urto per mandarlo a picco spaccato in due, con un’audacia incredibile assaliva pure, cannoneggiando meglio che poteva.

La partita però, come aveva detto Sandokan, non era eguale, anzi era troppo disuguale. Nulla poteva tentare quel piccolo legno contro quella poderosa nave costruita in ferro, e armata potentemente.

L’esito finale, malgrado il valore disperato delle tigri di Mompracem, non doveva essere difficile ad indovinare.

Tuttavia i pirati non si perdevano d’animo e bruciavano le loro cariche con mirabile rapidità, tentando di sterminare gli artiglieri della coperta e di abbattere i marinai delle manovre, sparando furiosamente sul cassero, sul castello di prora e sulle coffe.

Due minuti dopo però il loro legno, oppresso dai tiri delle artiglierie nemiche, non era altro che un rottame.

Gli alberi erano caduti, le murate erano state sfondate e perfino le barricate di tronchi d’albero non offrivano più riparo a quella tempesta di proiettili. L’acqua di già entrava dai numerosi squarci, inondando la stiva. Pure nessuno parlava di resa. Volevano morire tutti, ma lassù, sul ponte nemico. Le scariche intanto diventavano sempre più tremende. Il pezzo di Sabau era ormai stato smontato e mezzo equipaggio giaceva sulla tolda massacrato dalla mitraglia.