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Il perduto amore

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IV

Noi, dunque, bevemmo, e Sterpoli per brindare urlò: – Questa sera voglio ridere!

S'era seduto sul tavolo e brandiva il bicchiere come una clava, il bicchiere che era vuoto.

Carlo Clauss stava fermo. Con voce pacata disse:

– Tu Sterpoli sei giovane. Hai buon tempo.

– Ahi! Ah! – sghignazzò Sterpoli. – Io sono giovane? Io sono pazzo. Mio buon maestro, tutte le malattie sono contagiose. Ti sembra strano? Un granello di sabbia basta, un granello di polvere è anche troppo… Ho veduto Daria ballare… Qualcuno ha detto: – Le gambe di quella donna sono le corna del diavolo! Che te ne pare? Il diavolo non è dunque così brutto come si dipinge?

Io m'ero seduto in un angolo e stavo a guardare Sterpoli che pareva davvero impazzito. Si era arruffati i capelli, e quei suoi riccioli rossi gli davano l'aspetto tragico e buffo di una furia. Clauss levava ogni tanto su lui gli occhi senza sorridere. Sterpoli anche lo guardava di sottecchi quando taceva, e trangugiava bicchieri d'un fiato. Gli altri non gli badavano, come se non ci fosse.

– Io non capisco – diceva con tono grave uno di quei giovani, rivolto a Clauss – come possano durare pregiudizi di specie così volgare. Tizio è gravemente afflitto perchè non sa che cosa pensare dell'al di là, e cerca di passare qualche ora piacevole con Eunica, che ha le poppe forti. Caio soffre per una delusione amorosa, e invita gli amici a bere un suo vecchio vino d'uva. Eumolpo è stato fischiato a teatro o ha perduto in Borsa, e va a prendere un bagno profumato. Sempronio ha sepolto suo padre, e si regala una eccezionale pietanza di tartufi a cena. Ma, in somma, signori! Per i dolori dell'anima si deve dunque consolare il corpo? E c'è ancora chi crede sul serio che anima e corpo siano due cose distinte!

– Ahimè! – esclamò un altro. – Che c'importa dell'anima e del corpo? Che siano due o uno? Quando tu baci Clarissa, la baci con l'anima o col corpo? L'importante non è di baciare Clarissa?

Clauss rise.

– Infatti, – disse, – è Clarissa che importa.

Improvvisamente, d'un colpo, la porta si spalancò e tutti ammutolirono. Una donna, avvolta in un ampio mantello scuro che ella teneva stretto alla cintura e al collo con ambo le mani, apparve sulla soglia. Volse intorno gli occhi, dardeggiando sopra gli astanti sguardi obliqui, si avanzò di due passi e si fermò in mezzo alla stanza.

– Clauss! – disse con voce così profonda e velata che mi dette i brividi. – È la seconda volta che mi insultate in pubblico, tu e il tuo seguito di servitori. Io non posso più sopportare… Io sono stanca… Io ti odio…

Come se queste parole le avessero tolto ogni forza, ella si appoggiò con una mano all'orlo del tavolo per non cadere. Il mantello, aprendosi, lasciò scoperto il suo collo, su cui brillava un grosso smeraldo. Tutti, intorno a me, sembravano pietrificati. Sterpoli era sceso dal tavolo e guardava dinnanzi a sè, bocca e occhi aperti da ebete. Soltanto Clauss pareva calmo. Egli si era alzato e si era fermato di fronte a lei. Le sue pupille diritte fissavano senza tremare il volto della donna; senza tremare sostenevano il suo sguardo torvo e minaccioso.

– Daria, – soggiunse alfine inchinandosi, – che dite mai? Chi vi ha offesa? Chi vi ha insultata?

I suoi occhi si volsero un poco verso Sterpoli, che lentamente si era avvicinato a lui ed ora gli stava a fianco. Il volto del giovane di rosso s'era fatto cinereo. Aveva la fronte imperlata di sudore e a stento tratteneva il respiro. Pareva che volesse parlare, poichè ogni tanto moveva le labbra; ma senza fiato. A un tratto avanzò ancora di un passo, tese la mano, che gli tremava, fino a sfiorare il braccio della donna, e con un filo di voce mormorò:

– Andiamo… Andiamo via… Perchè sei venuta? Perchè?

Clauss non si mosse. Nemmeno Daria si mosse, ma un sorriso pieno di disprezzo inarcò le sue belle labbra lunghe, e illuminò il suo viso.

Paolo attendeva, con la mano sollevata, tremante.

– Infine! – esclamò Clauss con un gesto d'impazienza. – Io non so di che cosa mi possiate accusare… Sono vostro amico… Ho tentato ogni via per piacervi… Che debbo fare ancora per voi?

Daria abbassò il capo, respinse con un moto violento della mano la mano sempre tesa di Sterpoli e si abbattè piangendo sopra una sedia.

Un profondo silenzio seguì quell'avvenimento inaspettato.

– Piange? – mormorò una voce alla mie spalle. – È mai possibile? È anche capace di piangere?

Il volto di Sterpoli esprimeva una vera costernazione. Anch'io ero sconvolto e guardavo ora la donna che piangeva con piccoli singhiozzi simili al tubare delle colombe, ora Clauss immobile, e ora Sterpoli che tremava.

– Che accade? – pensavo. – Chi è questa donna? E perchè piange?

Mi curvai un poco e le dissi:

– Non piangete… Non è il caso di piangere!

Ebbi paura del silenzio che accolse la mia voce. Daria infatti sollevò il capo.

– Chi è costui? – domandò dopo un istante. – Che cosa vuole da me?

– Nulla, – balbettai, – nessuno…

S'era fatto un gran vuoto nel mio cervello. Ma la vampa che m'affocò il viso m'avvertì che m'ero coperto di ridicolo.

– Nulla… – ripetei senza comprendere il senso delle mie parole. Dico che non si deve piangere… Come potete piangere dinnanzi a tanti uomini?

Poi mi ritrassi in un angolo e nascosi il viso fra le mani per coprire il mio rossore. Con gli occhi chiusi non udivo più nulla. La donna non piangeva più; aveva cessato di piangere, di tubare, e nessuno parlava. Di lontano, confuse, giungevano fino a noi le cadenze d'una danza turca, e un ronzìo di voci umane mescolate al rullar persistente di un tamburo. – Che accade? – pensavo senza trovare il coraggio di muovermi. Pareva che tutti fossero morti intorno a me o che tutti se ne fossero andati. Improvvisamente Clauss esclamò:

– Daria! Daria, ti amo!

Udii un grido, apersi gli occhi e vidi Daria alzarsi in piedi sconvolta. Con un gesto rapido, violento, strappò dal suo collo la collana con lo smeraldo e la scagliò dinnanzi a sè gridando: – E io ti odio! Poi si volse e fuggì.

Sterpoli ricevette il colpo sugli occhi come una frustata, restò un istante fermo con la mano distesa sulla fronte e le palpebre chiuse. Balbettò: – Non era per me! Era per te, per te Clauss, per te solo! – e brancolando uscì dalla stanza.

– Daria! Daria!

Il suo richiamo si ripetè due volte e poi si spense. La porta sbatacchiò. Parve, quando la porta fu chiusa, che sopra di noi si fosse dissipato un temporale.

– Sono dolentissimo, amici, – disse con dolcezza Clauss, – di quanto è accaduto. Veramente non c'è nemico peggiore di una donna…

– Come è possibile? – domandò con grande vivacità quel giovine che poco prima parlava dell'anima. – Ha pianto! Questo è straordinario!

– È una donna, – soggiunse Clauss sorridendo.

– Ma perchè è venuta? – domandò un altro.

– Per mentire… – rispose Clauss.

Poi mormorò: – Me ne vado.

Ce ne andammo: io solo lo seguii. Il teatro era ormai semivuoto. Un vecchio in marsina era caduto rotoloni giù per le scale e un servo cercava di tirarlo su per le falde. Fuori la notte, alta, serena e molto stellata ci sorrise, ed io la contemplai con gioia tra le due fila di case, lungo tutta la strada, da un lato e dall'altro. Lentamente c'incamminammo. Clauss mi teneva per mano. La sua mano era fredda.

– Vedi, – mi disse dopo un lungo silenzio appoggiandosi al mio braccio, – senza volere tu hai umiliato quella donna… Con molta semplicità (troppa semplicità) l'hai toccata nella sua piaga…

– Come? – mormorai. – Io l'ho umiliata?

– Sì. Se tu le avessi detto: – Orsù, Daria, non vi vergognate di piangere? – non l'avresti maggiormente umiliata ed offesa. Così l'hai ferita nel suo orgoglio. Infatti che cosa diventa l'orgoglio di una donna che piange? In un momento simile?

– È vero, è vero… – mormorai. – Io non sapevo… Ah! Clauss! Io non so niente!

– Ora, – soggiunse Clauss con dolcezza, – son certo che ella non odia nessuno tra noi quanto te. Tu solo sei stato pietoso. Tu e Sterpoli. Ma Sterpoli non conta.

Eravamo giunti dinnanzi al cancello della sua casa. Egli si fermò e mi disse:

– Ritorna domani. Ho bisogno di te. Addio!

Mi strinse la mano. Poi mi baciò sulla gota e soggiunse:

– Spero che non crederai davvero che io sia innamorato di Daria. Io non ho mai amato nessuno…

E mi lasciò solo.

V

Solo, nella mia camera, alla luce di un povero lume, ripensai lungamente alla strana avventura di cui ero stato spettatore. Ero ancora pieno d'onta per quella voce che aveva detto: – Chi è costui? Che cosa vuole da me? – con tanto disprezzo; e della mia voce che aveva risposto: – Nulla… nessuno. Lo stesso rossore mi avvampava il viso, ed io vedevo lei, Daria, seduta, in quell'atteggiamento aggressivo; vedevo la curva sprezzante della sua bocca, sentivo la sferza dei suoi sguardi ardenti su me, mentre diceva: – Chi è costui? Che cosa vuole da me? Certamente l'avevo offesa; volendo consolarla, l'avevo umiliata. Ella mi odiava, ora, per la mia sciocca pietà, per quelle mortificanti parole che non avevo saputo trattenere. Ma se per poco dimenticavo me stesso, un'altra sua immagine si delineava dinnanzi ai miei occhi, balzando viva dalla confusione dei miei ricordi. Vedevo la porta aprirsi e apparir lei con il mantello avvolto; e poi appoggiarsi al tavolo, senza forze, e abbandonare con le mani il mantello che si apriva scoprendo il suo collo niveo, la sua nitida gola, su cui la pietra, verde, oscillando, splendeva. – Io non posso più sopportare!.. – aveva esclamato. – Io ti odio! E la sua voce era come uno specchio velato, l'eco di un'altra voce. E Clauss, calmo, senza scomporsi, aveva risposto: – Non è vero! Una terza immagine s'illuminò: Behela.

Le stelle nel quadro della finestra, immobilmente accese, segnavano nel profondo azzurro mete irraggiungibili. Di quando in quando gli occhi, smarrendosi in quell'infinito, deviavano i miei pensieri dal loro angusto viottolo; schiudevano orizzonti verso i quali essi, come uccelli prigionieri, si lanciavano a volo per ricadere, subito, esausti, cagionandomi ogni volta un acuto dolore. Chiusi le imposte. Tutto in me acquistò maggior chiarezza, contorni precisi, una consistenza quasi materiale.

 

Daria, Daria, era bella. Non avevo pensato ancora alla sua straordinaria bellezza. Ora, sì. – È bella! ripetevo fra me. I suoi occhi, la sua bocca, la sua gola candida, si delineavano nella ombra delle mie palpebre chiuse. – È bella! È bella! Questo pensiero mi turbava. Cominciai a passeggiare irrequieto per la stanza. Nemmeno allora sapevo spiegarmi perchè mi fossi inchinato per dirle: – Non piangete. Non è il caso di piangere. Ella piangeva. Il suo sdegno, la sua forza l'avevano abbandonata. Piangeva con singhiozzi brevi, disperati. Ed io non cercavo di spiegare perchè mi fossi inchinato e avessi parlato. Immaginavo di udire un passo celere su per le scale, un colpo leggiero contro l'uscio della mia camera, una voce, un nome. L'uscio si spalancava. Una donna velata compariva tutta avvolta in un mantello scuro che teneva chiuso con ambo le mani.

– Salvatemi! – ella gridava cadendo ai miei piedi, abbracciandomi i fianchi (io sentivo contro le mie ginocchia il suo corpo molle, il tepore dei suoi abiti). – Nessuno mi difende! – diceva. – Sono sola! Sono perduta!

– Non avete quello Sterpoli? Quello che vi balbettava di fuggire? Il mio ospite, insomma? – domandavo trepidando.

– Sterpoli? un buffone! Non serve! Non serve!

Ed io la sollevavo, la tenevo stretta contro il mio petto, la baciavo teneramente.

– Amor mio, sono pronto! Occorre morire? Uccidere?

La mia persona, apparendomi improvvisamente nello specchio, mi richiamò alla realtà. Sentii una vacuità dolorosa in me, una disperazione insensata. Mi pareva che Clauss fosse a spiarmi dietro una tenda, da un foro della parete, da una fessura dell'uscio; il suo riso vitreo mi feriva l'orecchio ed io avevo vergogna. In quello specchio, con i miei abiti goffi e il mio volto infantile, fra quelle cose meschine che mi stavano intorno e si beffavano di me con la loro miseria, ero davvero una persona molto compassionevole e buffa. Quale donna avrebbe potuto guardarmi senza dire: – Chi è costui? Che cosa vuole da me? Sì, certo, io ero ridicolo. Facevo pietà e pena a me stesso. Ripensavo ai compagni di Clauss; mi ricordavo che uno aveva calze di seta porporina, e un altro un braccialetto d'oro smaltato al polso, e un altro una cravatta meravigliosa di fili intrecciati argentei e violetti, e una gardenia all'occhiello. – Che cosa sono io? – pensavo. – Tutti si befferanno di me.

Questo eccitamento durò fino a tarda notte. Verso l'alba la stanchezza s'impadronì dei miei sensi e li calmò. Allora udii un passo lento e pesante lungo il corridoio e Sterpoli entrò barcollando nella mia camera. Era impolverato da capo a piedi. Aveva gli abiti in disordine, la camicia lacera. Si sedette sul mio letto, mi guardò e si mise a ridere.

– Hai udito? Hai veduto? – esclamò. – Tu puoi testimoniare. Mi ha schiaffeggiato! Sì! Mi ha colpito sul viso…

Il riso si spense sulla sua bocca. Si strofinò la faccia con un fazzoletto, si versò un po' d'acqua e bevve.

– Tutti hanno udito, – continuò, – tutti hanno veduto, tutti possono testimoniare. Mi ha colpito sul viso. Ma non era per me. È stato un errore. Appena ella è fuggita, io mi sono precipitato giù per le scale e l'ho raggiunta in istrada, mentre stava per montare in carrozza. – Daria Daria, mia colomba, mia nemica, – le ho detto – tu mi hai acciecato! Non posso più vederti! – e ho cercato di montare sul predellino della sua carrozza. Macchè! Mi ha respinto con una mano e, credo, anche con la punta del piede. – Va via! – ha detto. – Va via! – Come! – esclamo, – mi colpisci, mi acciechi, e poi mi compensi così? Mi scacci via? Come un cane? Io sono il tuo Lippi! Non ti ricordi di questo nome? – Di nuovo cerco di salire. Di nuovo sento qualche cosa di duro, di molto duro, contro il mio petto, che mi respinge. Ella dice con astio: – Peggio, peggio di un cane! Fa sferzare il cavallo e la carrozza parte al galoppo. Io la rincorro per un buon tratto; poi inciampo e cado. Un tale si avvicina e mi rialza. È Pietro Trema: un mezzano, un galantuomo. – Non vale la pena, signore! – dice mentre mi spolvera. – Quella donna è pazza. È pazza. Andiamo a bere un sorso! – Andiamo, – rispondo. – Ma che ella sia pazza, no, non lo dire a nessuno. Entrammo non so dove, bevemmo e pagai. Gli dissi: – Ora hai bevuto. Ora, lasciami stare. – È impossibile, – pensavo, – è impossibile che mi abbia respinto, scacciato come un cane. Io non sono di quelli che si scacciano con la punta del piede, di quelli ai quali si dice: – Come un cane! Peggio di un cane! Dunque presi un ronzino e mi feci condurre. Tutto era silenzioso in casa sua: le finestre chiuse, la porta chiusa. Suono il campanello e aspetto. Nessuno risponde. Suono di nuovo, più forte, a lungo; strappo il cordone. La vecchia si affaccia al mezzanino e dice: – Non c'è. Non è ritornata. Forse non ritornerà. – Il malanno! – urlo. – Non è vero! C'è. È ritornata. E mi metto a calciare la porta. Ora s'ode un'altra voce che dice: – Lippi, Lippi mio, vattene. Sii buono. Domani sarà giorno. Ritorna domani. Io mi scosto dall'uscio e mi faccio in mezzo alla strada. Dico: – Ti debbo parlare… subito… Tu mi hai quasi acciecato. Domani sarà troppo tardi. – Perdonami! – risponde. – Non volevo farti male… Ora non è possibile. Domani… – Non t'importa dunque nulla di me? – grido io. Non hai pietà, non hai cuore? Ella ride: – Domani, Lippi! Buona notte, buona notte. E richiude le imposte e tutto ritorna silenzioso e buio. E io dico a me stesso: – Dopo tutto non è in collera… Era per quell'altro, per Clauss. Capisci? Ah! tu non capisci niente!

Rotolò giù dal letto. Si reggeva male in gambe, eppure trovò modo di abbracciarmi e di baciarmi.

– Che hai? – mormorò al mio orecchio. – Non parli? Sei addormentato? Sta allegro! Domani tutto sarà chiarito. Ah! eppure questo mi dispiace. Io preferisco la notte. Di giorno sono come un bambino; la luce mi intimidisce e arrossisco di nulla. Di notte invece no. Sono padrone di me stesso. Sono un altr'uomo.

Io sentivo contro il mio viso il suo alito di ubriaco. Si avvicinò ancora più a me fino quasi a gravarmi con tutto il peso della sua persona, e sussurrò con voce ancora più bassa:

– Anche lei, di notte, è più bella… Che dico? Ah! Dico troppo, eppure è più bella. Sì. Perchè nasconderlo? Perchè mentire con te? Tu mi piaci, perchè tu solo hai avuto pietà di lei. Tu ti sei curvato e le hai detto una parola buona. Non mi ricordo bene, ma le hai detto qualche cosa che volevo dirle io. Ti prometto di parlarle di te domani. Le dirò: – Quelle parole le avevo io sulla punta della lingua, ma egli me le ha tolte di bocca. Eppure temo che mi manchi il coraggio di dirle nulla, perchè domani sarà giorno. Di notte è un'altra cosa, sebbene sia anche più temibile. I suoi occhi sono come quelli dei gatti. La sua carne muta colore, come l'opale, o la madreperla, la madreperla levigata e cangiante. La sua carne… Ah! Io non direi queste cose a nessuno… È un gran segreto!

Tacque e si avvicinò allo specchio.

– Non ti pare, – domandò guardandosi, – non ti pare che io sia bellissimo?

Si inchinò e mi disse addio.

Io chiusi la porta dietro le sue spalle e mi gettai, esausto, sul letto.

VI

Quando, a mezzogiorno, fui pronto per uscire, decisi di andare lungo la spiaggia dove erano tirate a secco alcune flottiglie di barche e distese al sole lunghissime reti. Il meriggio era tiepido e sereno: calmo, il mare, appena ondeggiava. Vagai per qualche tempo qua e là, a caso, raccogliendo conchiglie e facendo disegni sulla sabbia, finchè vidi, sopra la punta di una penisoletta, la casa di Clauss, poco lontana, fra un giardino di palme che l'onda lambiva da tre lati. Ad essa si saliva per un viottolo disselciato, fiancheggiato da muri e da siepi di oleandri. Clauss in persona s'affacciò alla veranda, mentre io bussavo al cancello. Discese ad aprirmi, e tutti e due ci sedemmo sotto un tiglio, fra due aiuole fiorite.

– Ebbene? – mi domandò.

Non gli avevo mai veduto un viso così buono.

– Ebbene, – risposi, – ieri sera eravamo tutti pazzi.

Clauss aveva l'aspetto di un ragazzo pentito, tanto i suoi occhi erano miti e il suo atteggiamento umile. In quel momento, con quel volto stanco, con quel sorriso che appena gli sfiorava la bocca, somigliava veramente poco a sè stesso.

– Sì, – disse, – eravamo tutti pazzi, chi più chi meno. Anche tu, un poco. Anch'io. È strano. Cioè, non è strano. Hai veduto Daria? Tu la vedevi per la prima volta. È fatta così. È come una bambina capricciosa. Una bambina cattiva e viziata. E quel povero Sterpoli, che ha smarrito la ragione per lei, ha avuto ieri sera un gran colpo…

– Davvero… – mormorai. – L'ho veduto dopo, a casa. Aveva un livido sulla faccia.

Clauss di nuovo sorrise. Poi mi prese le mani e mi chiese:

– Mi vuoi bene?

– Certo… – mormorai esitando. – Perchè non dovrei volerti bene?

– Grazie, – soggiunse, – ciò mi conforta assai. Chi può dire perchè si desidera e si cerca, alla mia età, l'affetto e la dimestichezza dei giovani? Sono tristi, molto tristi, amico mio, queste basse forme, queste forme senili d'egoismo. Ma tu devi considerarmi come un moribondo al quale ogni cosa può servir di conforto.

– Che dici mai! – proruppi ridendo. – Ora tu vuoi burlarti di me…

– No, no, non mi burlo nè di te nè di me stesso, – rispose Clauss con la medesima voce sommessa, senza tralasciare di tenermi le mani e di guardarmi teneramente. – Io sono nato matematico. Tutta la mia vita, in apparenza tanto disordinata, fu sempre regolata sopra un calcolo esatto, secondo la nozione precisa e minuta delle mie forze. Quando scaglio una pietra, non so forse dove la pietra deve cadere? Ciò dipende unicamente dall'impulso che io le darò. Così per tutto il resto…

S'interruppe e guardò una farfalla sopra una rosa, un'ape sopra un fiore.

– Tu non mi hai mai domandato, – soggiunse, – perchè dunque liberassi l'uccisore di Behela. Io infatti tagliai la sua corda, vicino al nodo. Ma con quella stessa corda, come prevedevo, l'omicida s'impiccò il giorno dopo a un albero della foresta.

Io tenevo gli occhi fermi su lui, mentre parlava. Può darsi che egli non mi leggesse negli occhi altro che un ingenuo stupore; ma in realtà ero ben sveglio, e cercavo di capire, guardandolo attentamente in viso, che cosa ci fosse di tanto strano e di nuovo nella sua persona: se la voce, lo sguardo, o l'abito, che era bianco. Quanto a lui, pareva veramente turbato da non so quale nascosta preoccupazione, come inquieto, incerto, non così sicuro di sè come sempre.

– Paris, – disse ad un tratto, – ti sembrerà ch'io sia capriccioso come un ragazzo. Non so che cosa tu possa pensare di me: pure voglio che tu mi aiuti a uscire da questo equivoco che mi ripugna e mi addolora. Daria… – (e quel nome risuonò al mio orecchio come un richiamo, come un allarme) – Daria…

– Ebbene? Daria? – domandai con un palpito.

– Daria è una donna. Bisogna essere pietosi con lei e perdonarla.

Rimanemmo un momento muti. Io aspettavo che egli continuasse, ed egli non parlava.

– Perchè, – mormorai alfine, – perchè, allora, ieri sera, non sei stato pietoso con lei, quando si è messa a piangere?

Silenzio.

– Perchè, – continuai con gli occhi bassi, le gote che mi cominciavano a bruciare, – perchè mi hai rimproverato d'aver tentato, io, io solo, di consolarla quando piangeva?

Clauss m'accarezzò con dolcezza la mano e disse:

– Hai ragione… Appunto per ciò ora sento che debbo io fare qualche cosa per lei. Dunque (questo appunto volevo dirti) tu andrai a casa sua e la pregherai di venire qui, a cena con noi, stasera…

– Con noi?

– Ti dispiace forse?

– No, no, – balbettai, – no, Clauss, non andrò da lei… No, non pensarlo seriamente neppure un minuto che io possa andare da lei, presentarmi, parlarle… sostenere quello sguardo… riudire quella voce cattiva… No, no, Clauss, non è possibile!

– E di che hai dunque paura, stupido? – domandò Clauss bruscamente.

Ecco: davvero avevo paura, un'indicibile, una pazza paura. Se mi fossi imbattuto in Daria, per caso, all'angolo di una strada, sentivo che avrei preferito, a quell'incontro, di inabissarmi in una buca profonda mille metri, e non uscirne mai più. Avrei preferito qualunque supplizio, o vergogna, o castigo, al pensiero di dovermi trovare solo di fronte a lei, costretto a guardarla, a parlarle, anche semplicemente a inchinarmi senza pronunciare una parola, o muovere un gesto, o battere palpebra. Ma ero anche così sciocco, che a udire quella parola – «stupido» – la paura svanì d'un tratto, e mi sentii disarmato e pronto tuttavia a superare ogni prova con un coraggio disperato.

 

– Non è che io abbia paura, – mormorai. – Penso soltanto che riconoscendomi per quello di ieri sera non voglia neppure ascoltarmi. Un altro forse riuscirebbe meglio di me.

– Al contrario! – esclamò Clauss alzandosi. – Quando ti avrà riconosciuto non dubiterà d'un inganno. Basta che tu le dica che io non l'amo, che io non l'odio, che io non voglio essere per lei se non un amico sincero e fedele. E che noi tre insieme desideriamo questa sera concludere solennemente la pace.

Mi condusse presso il cancello. Camminando pensai ancora:

– Ora gli dirò che cerchi un altro. Io non andrò a nessun costo…

Ma quando mi strinse la mano per accomiatarmi non seppi che dirgli:

– Arrivederci.

Così attraversai la città e andai dove Clauss mi mandava. Alla porta di quella casa non c'era un campanello. Bussai, una vecchia mi venne ad aprire ed entrai in un salotto alle cui finestre pendevano pesanti cortine di velluto. La casa, dentro, aveva piuttosto l'aspetto di una bottega; tutto era gualcito e in disordine. In un angolo stava un pianoforte aperto con un quaderno di musica sul leggio. Da una stanza vicina giungeva il parlottare di più persone. Io udivo distintamente le loro voci, che erano di due donne e d'un uomo, e vedevo chiaramente, malgrado la penombra, le cose che mi stavano intorno. Non mi sentivo affatto turbato: anzi avevo una grande lucidità di sensi e un'assoluta padronanza di me stesso. Provai a muovermi; andai verso le finestre, dischiusi un poco le tende, vidi altre finestre, di fronte, e due teste di fanciulli che sporgevano da un davanzale, e una portava una maschera da arlecchino. Poi mi avvicinai al pianoforte, sfogliai il quaderno di musica, lessi due o tre parole tedesche e una frase italiana – lento, con passione – e rimisi ogni cosa al suo posto. Poi, ancora, m'avventurai in un angolo per guardar da vicino il ritratto di una donna giovane, molto giovane e bionda, che mi sorrise. Contento e soddisfatto di tante prodezze, ritornai in mezzo al salotto ed attesi. Finalmente il chiacchierìo nella stanza vicina tacque, la porta si aprì e Daria entrò.

– Daria! – esclamai subito inchinandomi, senza pensare che quel nome non conveniva nè a me nè a lei, in quel momento. – È Carlo Clauss che mi manda… Egli vorrebbe…

M'arrestai confuso. Daria era rimasta ferma nel vano dell'uscio e mi guardava. Quello sguardo mi sgomentò.

– Clauss? – sibilò ridendo ironicamente. – Avrà sempre dei servitori ai suoi ordini, questo signore? E anche voi siete del numero?

Si volse, sporse il capo nell'altra stanza e chiamò:

– Kate! Ave! Ave!

S'udì, in quello spaventoso silenzio, il rumore di un paio di ciabatte e di due tacchi di legno. Una vecchia strega e una ragazzina di quindici anni, tutta vestita di rosso, con i polpacci e le ginocchia scoperte e un gran nastro rosso nei riccioli, bocca rossa, occhi bianchissimi e immensi, s'affacciarono dietro le sue spalle e mi guardarono. La vecchia guardò piuttosto il soffitto, rovesciando le pupille che erano velate di bianco, mentre tutto il suo viso color di cera e orribilmente liscio si torceva nello sforzo di attrarre un po' di luce in quei due poveri lumi spenti.

– Soave! Guardalo! – esclamò Daria: – è uno di quelli di ieri sera! Kate, cerca di vederlo, perchè ne vale la pena! È uno dei tanti sguatteri di Clauss. Bella gente! Eccoli come son fatti! Che grandissimi signori! Guarda che portamento, che chic, che cravattino, che pettinatura, che profumo, che faccia da moccioso! Questi sono i padroni dell'Alhambra, i conquistatori di donne!

Mi danzava quasi intorno, con tanti inchini, e smorfie, e sorrisi beffardi, mentre con gli occhi pareva mi volesse divorare e graffiarmi con le sue piccole unghie rosse. Poi come un turbine si precipitò sulla porta, la chiuse sulle facce attonite della vecchia e della bambina, e mi domandò:

– Che cosa può volere ancora da me il signor Clauss? Vuole che io cada si suoi piedi, trafitta? Perchè non può vivere senza di me? Forse perchè se non l'amo si uccide?

– No, no! – gridai. – Clauss non vi ama e non chiede nulla di simile.

Ella allora uscì dal vano dell'uscio, ridendo ancora, ma più umanamente, e venne fino a me, mi porse la mano, come se con quel gesto intendesse cancellare tutto il passato, ed ambedue ci sedemmo l'uno di fronte all'altra in un angolo.

– Se è così, – mi disse, – eccomi pronta ad ascoltarvi. Ma come sapete voi che Clauss non mi ama? Lui stesso ve lo ha detto?

– Sì, – risposi, – lui stesso…

– Ed è questa la vostra ambasciata? Soltanto questa?

Ella sembrava divenuta umile, docile, mansueta; ancora un poco ironica, ma piena di dolcezza. Parlava senza levar gli occhi da terra, e la sua voce aveva una soave musicalità: era calda e modulata, come un flauto. Vedendola così diversa, così mite e benevola, io mi sentivo a poco a poco mancare la baldanza di cui m'ero compiaciuto tanto con me stesso. Già incominciavo ad avere idee confuse e un tremito nervoso dentro, non so dove. Anch'io abbassai gli occhi. Ella, ora, taceva, certo in attesa che io parlassi. Ebbi il pensiero di alzarmi e di fuggire. Ma non mi mossi e cercai invece, faticosamente, qualche parola insignificante che mi salvasse. Stando così, a capo chino, vedevo soltanto il lembo della sua veste che era azzurra, di velo, un pizzo candido, molto lavorato (mi ricordo, questa immagine è molto precisa) e la punta dei suoi scarpini, che erano ricamati d'argento. Poi i miei occhi si smarrivano sul tappeto, disegnato a grandi rose porpuree. Finalmente, dopo molto cercare dissi:

– No, signora, non è tutto…

Il suono della mia voce mi stupì. Io non sapevo di avere una voce così sottile, sottile e stonata; una voce così ridicola.

– Che c'è dunque ancora? – domandò Daria.

Sollevai il capo. Ella mi guardava, ora, con occhi un po' inquieti. Pure continuava a sorridere, e la sua bocca rossa, molto molto rossa, sorridendo si curvava ad arco. Sembrava che volesse dirmi con quello sguardo e quel sorriso:

– Che può esserci ancora? Vedo bene che sei un buon ragazzo. Soltanto hai una cravatta orrenda, veramente brutta e volgare.

– Ecco, – soggiunsi: – Clauss desidera che voi veniate a cena da lui questa sera. Egli si pente di avervi offesa. Forse non lo credete? Eppure parlandomi di voi, oggi, e di quanto è accaduto, Clauss piangeva… Vi giuro, – esclamai con maggior forza, senza sapere nemmeno di mentire, – vi giuro che piangeva dirottamente!..

– Ah! – continuai con l'impeto di un insensato, – voi non potete immaginare quanto egli soffra, e come sia degno della vostra pietà. Bisogna conoscerlo, e amarlo (sì, amarlo, anche, un poco, un poco almeno), per comprendere ciò che si cela sotto l'impassibilità del suo volto… Non si giudicano gli uomini dalla faccia, non si possono giudicare. Quell'impassibilità è una maschera, signora, niente altro che una maschera, una tristissima maschera. Chi indovinerebbe in lui un uomo che deve morire?

– Ah! Ah! Tutti dobbiamo morire, – interruppe Daria. – Non è un'eccezione!

– No! Non tutti. V'ingannate. Non tutti dobbiamo morire! – M'arrestai spaventato delle mie parole e mi sforzai di ridere.

– Dico, voglio dire, perdonatemi, che non tutti hanno i giorni contati, – continuai. – Abbiamo forse tutti i nostri giorni contati? Ebbene: Clauss ha i giorni contati. Niente può salvarlo. Oh! signora, è triste vedere un uomo morire, ascoltarlo mentre rassegnato, eppure accorato, vi dice: – Fra poco morirò, me ne andrò per sempre. Immaginate una realtà più angosciosa, un addio più commovente? Che differenza esiste fra lui, Carlo Clauss, e un uomo condannato a salire il patibolo, all'alba di un giorno stabilito, in quell'ora precisa, allo scoccare di quel minuto, non un istante prima, non un istante più tardi? Mi è stato detto che un uomo, sul punto di essere giustiziato, chiedesse in grazia che gli fosse portato un fiore, un fiore rustico, una di quelle piccole violacciocche che hanno un po' il profumo del reseda. Ebbene, quando alfine gli fu portata, nella cella della sua prigione, ed egli l'ebbe odorata a lungo, più volte, la sua faccia si illuminò di beatitudine, e disse: – Ora sbrigatevi. Ora sono felice. È una morte storica, un esempio! Sì, signora, si legge in un'antologia. Così Clauss…