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CAPITOLO XV

Trattasi piú in particolare delle specie e de' rami discendenti della lussuria.

 
        – Di questa brutta porca di Lussuria,
        bench'abbia in sé materia copiosa,
        conviene ch'io ne parli con penuria.
 
 
        Da che Natura e Dio la tien nascosa,
    5 non puote alcun giammai senza vergogna
        parlar di sí nefanda e brutta cosa.
 
 
        E forse el fece Dio, perché bisogna
        che l'Innocenza pura non impari
        la puzza occulta di questa carogna.
 
 
   10 Ma ora li maggiori han fatto chiari
        sí li minori e dotti anco in quell'arte,
        che piú che i mastri sanno gli scolari.
 
 
        Di questo vizio dirò d'ogni parte
        in general, ché, se tutto distinto
   15 volessi dire, impirei troppe carte.
 
 
        Il quarto membro (e poi dirò del quinto)
        è l'atto, che fe' Pasife col toro,
        madre del mostro chiuso in Laberinto.
 
 
        Nel quinto pecca ciascun di coloro,
   20 che, losingando ovver rapendo, tolle
        la vergin 'nanti al suo marital toro.
 
 
        E, perché d'esto mal ardito e folle
        il futur matrimonio è impedito,
        però l'antica e nova Legge volle
 
 
   25 che quello strupador gli anelli il dito
        e facciagli la dote, o che la testa
        perda, se quella nol vuol per marito.
 
 
        L'altro è chi stupra, losinga o molesta
        le vergin sacre del santo collegio,
   30 che fu giá in Roma nel tempio di Vesta.
 
 
        E questo male è detto «sacrilegio»;
        ché quella cosa, ch'è dicata a Dio,
        s'imbrutta o sforza e trattase in dispregio.
 
 
        E l'altro male ancor nefando e rio
   35 è con parenti, ed è chiamato «incesto»,
        ché macula l'amor onesto e pio. —
 
 
        Quand'io diceva: – Quanto mal è questo! —
        vedemmo dalla lunga Citarea;
        ond'ella andò piú ratto ed io piú presto.
 
 
   40 Dimonio ella mi parve e none dea,
        quando la vidi, e non pareva bella
        com'era, quando apparve al iusto Enea.
 
 
        Di fuor adorna avea la sua gonnella;
        e, quando la scoprii, sí brutta fiera
   45 mai vista fu sí come pareva ella.
 
 
        Minerva a me: – Questa puttesca cèra
        nel mondo è bella solo in apparenza,
        che fa la cosa falsa parer vera.
 
 
        E qui rassembra la Concupiscenza;
   50 e però 'l nome del pianeto piglia,
        che sopra quella parte ha piú influenza.
 
 
        Cupido è il primo mostro, ch'ella figlia,
        il qual è fanciullesco, stolto e cieco
        in quella parte, che nell'uom consiglia.
 
 
   55 Egli è che verso Dio fece esser bieco
        giá Salamone, ed Aristotil prese
        sí, che fu cavalcato come pieco.
 
 
        E, benché paia saggio nel palese,
        Cupido nel secreto e luoghi occolti
   60 è come un pazzo e fa le grandi offese.
 
 
        Egli esser fa li saggi matti e stolti,
        e fanciulleschi quei dell'etá vecchia
        negli atti turpi, lascivi e disciolti.
 
 
        Quest'è che fa che l'antica si specchia
   65 la faccia guizza e fa le trecce bionde
        del pelo altrui, che si pone all'orecchia.
 
 
        L'altro è turpe parlar parole immonde.
        Ahi, quanto è ragionevol che si taccia
        quel che Natura occulta e che nasconde!
 
 
   70 Il turpe eloquio a poco a poco caccia
        da sé vergogna, il qual è primo freno,
        ch'è posto all'uom che peccato non faccia.
 
 
        E 'l parlar brutto e turpe ovver osceno
        dimostra il core; ché quel vaso versa
   75 sempre il liquor, del qual è dentro pieno.
 
 
        L'altra figliuola iniqua e piú perversa
        è l'odio di Dio, come si legge:
        tanto Lussuria fa la mente avversa!
 
 
        Non che quel sommo Ben, che tutto regge,
   80 mai odiar si possa per se stesso;
        ma odiare si pò nella sua legge.
 
 
        Ad ogni vizio, che 'n mal far è messo,
        sempre ogni impedimento è odioso,
        ma piú alla lussuria per eccesso;
 
 
   85 però che l'atto suo è furioso,
        e quanto piú il disio corre fervente,
        tanto lo 'mpedimento è piú noioso. —
 
 
        Poscia nel fango vidi una gran gente
        coll'arco in mano e colle dur saette;
   90 e ferivansi insieme crudelmente.
 
 
        E, perché scudo mai niun si mette,
        né arme indosso, mai non tranno in fallo,
        quantunque volte l'un l'altro saette.
 
 
        Ed un gridò: – Io son Sardanapallo
   95 lussurioso, che nel gran reame
        non vissi come re, ma come stallo,
 
 
        vestito come donna tra le dame,
        seguendo della carne ogni talento:
        or posto son tra 'l fango e tra 'l letame.
 
 
  100 Vivo ebbi l'arra, ed ora ho 'l pagamento;
        ch'ogni peccato la pena riceve
        prima nel mondo e poi qui ha 'l tormento.
 
 
        Vero è che su nel mondo è ratto e brieve,
        e qui ogni dolor dura in eterno
  105 ed anco è piú intenso e vieppiú grieve,
 
 
        però che 'l mal, il qual è sempiterno,
        rispetto a quella doglia, ch'è finita,
        nulla ha proporzion, s'io ben discerno.
 
 
        E sappi ben che su la mortal vita
  110 ha l'uom della lussuria molte pene,
        se la ragion e vertú non l'aita.
 
 
        La prima è trista e furiosa spene:
        quant'è maggior l'amore, il quale aspetta,
        tanto, aspettando, piú pena sostiene.
 
 
  115 L'altra è la gelosia sempre suspetta:
        ciò, che timor possiede o gelosia,
        assai tormenta piú che non diletta.
 
 
        Ogni amadore ed ogni signoria
        vuol esser sola ed odia ed inimica
  120 ogni consorte ed ogni compagnia.
 
 
        L'altra è il periglio, affanno e la fatica.
        Mai vil gaglioffo chiese il suo bisogno,
        quanto amor chiede la cosa impudica;
 
 
        e poscia, avuto, passa come un sogno
  125 quel ch'era chiesto con tanto fervore
        e con parol, di quali ancor vergogno.
 
 
        E va languendo il misero amadore,
        chiedendo aiuto alli suoi gran martíri,
        e dice, se non l'ha, che tosto more.
 
 
  13 °Cogli occhi lagrimosi e con sospiri
        dietro alla 'manza va il misero amante,
        per grazia a lei chiedendo che lui miri.
 
 
        E quel, che acquista con fatiche tante
        e con le spese, ratto si dilegua
  135 sí come un'ombra che fugge davante.
 
 
        E, perché amore i duo amanti adegua,
        abbassa i grandi ed, a viltá condutti,
        convien che altra colpa ne consegua;
 
 
        ché si fan femminili e fansi putti,
  140 mostrando amore; e di questo poi nasce
        la bestialitá e gli atti brutti.
 
 
        E, perché Venus si notríca e pasce
        di Bacco e Cerer, ch'ogni virtú enerva
        e fa l'infermitá con le sue ambasce,
 
 
  145 il corpo infermo e la mente fa serva
        e fálla oscura, e quella parte toglie,
        ove si posa e risplende Minerva.
 
 
        In questa mota qui tra queste troglie
        stan li nefandi e vili ermafroditi,
  150 che, essendo maschi, altrui si fecen moglie.
 
 
        E i lor mariti ancor qui son puniti
        e posti meco qui tra queste mote,
        e tutti siam di duri archi feriti;
 
 
        ché questa è iusta pena, se ben note,
  155 ché quel ch'è amato dall'amor lascivo
        è l'arco e la saetta, che percuote
 
 
        il cor del tristo amante, quando è vivo;
        e l'atto consumato è 'l brutto fango,
        il qual infastidisce e viene a schivo:
 
 
160 ed io qui questo in sempiterno piango. —
 

LIBRO QUARTO

DEL REGNO DELLE VIRTÚ

CAPITOLO I

Del paradiso terrestre e di Enoc e d'Elia e dell'albero della scienza del bene e del male.

 
        Lasciata addietro avea la prava terra
        e delli vizi la maligna schiera,
        e trapassata avea tutta lor guerra.
 
 
        E sopra l'orizzonte giá 'l sole era
    5 ben quattro gradi, in quella parte posto,
        che li fa state e qui fa primavera;
 
 
        quando, per poter giungere piú tosto,
        andava dietro alla scorta benegna,
        la qual a seguitar m'era disposto,
 
 
   10 Detto m'avea che nullo è che pervegna
        ad alto fine ovver a nobil cosa,
        se non chi s'affatica e chi s'ingegna.
 
 
        Ond'io per quella via sí faticosa
        andava in fretta come il pellegrino,
   15 che, 'nsin che giunge al termine, non posa.
 
 
        Quando fui presso al fin di quel cammino,
        il paradiso vidi ch'è terrestro,
        il qual fe' Dio per singular giardino.
 
 
        E, s'egli è bello, pensisi il Maestro,
   20 il qual el fece e posel dove il sole
        ha piú vertú e 'l cielo a lato destro.
 
 
        Lí era un pian di rose e di viole
        e d'altri fiori e di maggior fragranza
        che qui, dove siam noi, esser non suole;
 
 
   25 ché ogni frutto, quanto ha piú distanza
        da quello loco, tanto ha vertú meno,
        e quanto piú s'appressa, in virtú avanza.
 
 
        Tra quelli fiori e l'aere sereno,
        e tra le melodie di quel piano
   30 io trapassai di dolci canti pieno.
 
 
        Da quel giardino er'io poco lontano,
        ch'io vidi un serafino in su la porta,
        ch'è posto lí da Dio per guardiano,
 
 
        il qual un gran coltel nella man porta;
   35 e l'uno e l'altro è di color di foco,
        talché lor fiamma al sol non parea smorta.
 
 
        Quando appressato a lui mi fui un poco,
        egli mi disse, la spada vibrando:
        – Guarda come trapassi in questo loco,
 
 
   40 dal qual per colpa fu l'uom messo in bando,
        non solamente per gustar del pomo,
        ma perch'e' trapassò di Dio il comando. —
 
 
        Minerva a me insegnato avea siccomo
        l'intrata da quell'angelo si chiede,
   45 senza il qual modo non v'entra mai uomo.
 
 
        In terra mi prostrai da capo a piede,
        ed ivi in croce spasi le mie braccia
        come nel legno Quel che a noi si diede.
 
 
        E dissi: – O angel, prego ch'e' ti piaccia,
   50 per amor del Signor, ch'è sí cortese,
        che nullo, che a lui torni, mai discaccia,
 
 
        che lí mi lassi entrar nel bel paese.
        Tu sai ch'Egli al ladron su nella croce
        simile grazia fe', quando gliel chiese. —
 
 
   55 L'angel allora, al suon di questa voce,
        la porta aprío e diedene l'entrata,
        levando via il coltel tanto feroce.
 
 
        Come buona speranza il cor dilata
        d'allegrezza, cotal a me quell'orto
   60 dava letizia e la contrada grata,
 
 
        ove null'uom giammai sarebbe morto
        senza sua voglia e non giá per natura,
        ché sol per grazia venía tal conforto;
 
 
        ché nulla cosa, c'ha in sé mistura
   65 di qualitá ed opposita azione,
        di venir men puote esser mai secura.
 
 
        Mentr'io ascoltava la dolce canzone
        degli uccelletti, ed io vidi venire
        due venerande ed antiche persone.
 
 
   70 Il meno antico a me cominciò a dire:
        – Come tu in questo luogo se' intrato?
        con qual potenzia vien'? con qual ardire? —
 
 
        Minerva allor rispose: – Io l'ho menato;
        l'agnol di Dio a lui la porta aperse,
   75 quando umilmente da lui fu pregato.
 
 
        Giú del centro d'inferno, ove s'immerse,
        colle mie mani io da primaio el trassi,
        e feci sí, ch'in quel loco non perse.
 
 
        Palla son io, che gli ho guidato i passi
   80 per mezzo a' vizi e tra le fiere crude
        insino a voi, ai qual vuol Dio che 'l lassi,
 
 
        ché demostriate a lui ogni vertude:
        quassú venute sonno e quassú stanno,
        quando fuggîr del mondo, ch'è palude.
 
 
   85 Tornar io voglio al mio beato scanno:
        a questi lascio te, dolce figliuolo:
        costor inverso il ciel ti guidaranno. —
 
 
        Cosí dicendo, in alto prese il volo;
        ed io, piangendo, dissi: – O dolce Palla,
   90 perché di te cosí mi lasci solo?
 
 
        Dietro alli passi tuoi ed alla spalla
        lasciato ho 'l mondo, o scorta e mia auriga,
        il qual, rispetto a questo, è una stalla.
 
 
        E sempre, andando insú con gran fatiga,
   95 le tue vestige, o donna, seguitai,
        tra 'l mezzo delli mostri e di lor briga.
 
 
        Ora, che tu cosí lasciato m'hai,
        per tutto l'universo, che ti trovi,
        io anderò cercando sempremai. —
 
 
  100 Un degli antichi padri ed a me novi,
        disse: – Non è bisogno tanto pianto,
        ma con noi insieme omai i passi movi
 
 
        per questo paradiso in ogni canto.
        Enoc è questo primo, ed io Elia,
  105 quai Dio ne pose in questo loco santo.
 
 
        Delle vertú ti mostrerem la via. —
        Allor pel prato di que' fiori belli
        una con lor mi mossi in compagnia,
 
 
        tra verzillanti foglie ed arbuscelli
  110 e tra le melodie dolci e gioconde,
        ch'ivi faceano inusitati uccelli,
 
 
        quando trovai un arbor senza fronde,
        ch'era di spoglio di serpente avvolto,
        sí come un'edra ch'un ramo circonde.
 
 
  115 Lo spoglio avea di forma umana il volto;
        e l'arbore di spine era pien tutto
        intorno a sé, siccome luogo incolto.
 
 
        Ogni altro legno ivi era pien di frutto,
        e di be' fiori e frondi fresco e bello;
  120 e questo solo era secco e destrutto,
 
 
        e su non vi cantava alcun uccello.
        E, non sapendo perché questo fusse,
        il padre Enoc addomandai di quello.
 
 
        – L'arbor profano è questo, che produsse
  125 – rispose Enoc – il frutto del suo ramo,
        col qual il drago il primo uomo sedusse,
 
 
        quand'egli ingannò Eva e poscia Adamo
        a non servare a Dio obbedienza
        col pomo dolce, ov'era il mortal amo.
 
 
  130 «Legno» chiamato fu «della scienza
        del bene e mal»; che è prima solo bene,
        poscia del mal il ben ha sperienza.
 
 
        Le piú fiate al miser uomo avviene
        ch'e' non conosce il ben, se non in quella
  135 che n'è privato o c'ha contrarie pene. —
 
 
        Poscia trovammo la pianta piú bella
        del paradiso, la pianta felice,
        che conserva la vita e rinovella.
 
 
        Su dentro al cielo avea la sua radice
  140 e giú inverso terra i rami spande,
        ove era un canto, che qui non si dice.
 
 
        Era la cima lata e tanto grande,
        che piú, al mio parer, che duo gran miglia
        era dall'una all'altra delle bande.
 
 
  145 – Questa gran pianta di gran maraviglia
        – disse a me Enoc – è l'arbore vitale,
        che vita dona a chi suoi frutti piglia.
 
 
        Fitto nel cielo sta il suo pedale;
        indi vien la vertú, che gli dá Dio,
  150 che possa l'uomo rendere immortale.
 
 
        Un ramoscello dall'angelo pio
        n'ebbe giá Set e piantollo in la fossa
        del padre Adamo suo, quando morío.
 
 
        E quello crebbe e féssi pianta grossa,
  155 e poscia posta fu nella piscina,
        che sol di sanar uno ebbe la possa;
 
 
        ché profetato avea Saba regina,
        che su dovea morir quel gran Signore,
        che faría nuova legge e piú divina.
 
 
  160 Allor il legno di tanto valore
        da Salamon fu di terra coperto,
        insin ch'a far suo frutto apparse fòre;
 
 
        ché, quando piacque a Dio, venne su ad erto,
        e di quel legno la croce si fece,
  165 ove l'Agnel di Dio per noi fu offerto,
 
 
quando su 'n quella il prezzo satisfece. —
 

CAPITOLO II

Della condizione del paradiso terrestre e de' fiumi, che quindi escono.

 
 
        E poscia: – Flecte ramos, arbor alta.
        – Elia e Enoc insieme alto cantâro,
        come chi in coro la sua voce esalta.
 
 
        Alla lor prece l'arbore preclaro
    5 giú s'abbassò, ed e' colson le fronde,
        che son sí dolci, che vince ogni amaro,
 
 
        dicendo a me: – Del frutto, che nasconde
        quest'arbor dentro a sé, nullo ne coglie
        salvo che l'alme felici e ioconde.
 
 
   10 E poi mi fên gustar di quelle foglie,
        che porgono alla 'ngiú que' santi rami,
        le quai mi contentôn tutte mie voglie.
 
 
        O cupidigia, che tanto t'affami
        e che quanto piú mangi e pasto hai preso,
   15 tanto apri piú la bocca e piú ne brami,
 
 
        se gustassi del legno al ciel disteso,
        ratto faresti come san Matteo,
        quando il nostro Signor egli ebbe inteso:
 
 
        che lasciò la pecunia e 'l teloneo,
   20 e sí gli piacque, ch'a rispetto a quello
        ogni altro cibo gli era amaro e reo. —
 
 
        Quindi n'andammo in un boschetto bello,
        dove Adamo fuggí e steo nascosto,
        quando mangiò del cibo amaro e fello,
 
 
   25 allor che non sostenne un sol fren posto,
        un sol comando, il quale Dio gli diede,
        ma fu ardito a romperlo sí tosto.
 
 
        Ei si nascose. Oh matto chiunque crede
        fuggir ovver celarsi da Colui
   30 che tutto puote ed ogni cosa vede!
 
 
        E poscia mi partii con ambidui
        tra' belli fiori di quel prato adorno;
        e, quando ad una fonte io giunto fui,
 
 
        considerai che era mezzo giorno,
   35 ché 'l sol toccava in alto giá 'l zenitto,
        e nullo corpo facea ombra intorno.
 
 
        Dicea fra me, insú mirando fitto:
        – Com'è che qui il caldo non offende,
        da che li raggi insú rifletton ritto?
 
 
   4 °Ché 'n quella obliquitá che 'l raggio scende,
        come si prova nella prospettiva,
        in tale a parte opposta si distende.
 
 
        Però, se 'l raggio ingiú ritto deriva,
        per linea retta ritorna in quel verso,
   45 ed ei lí si raddoppia e si ravviva.
 
 
        E questo luogo è pian, pulito e terso
        assai a questo, e nol torce in oblico
        concusso alcun, che 'l raggio mandi sperso. —
 
 
        Allor mi disse il padre piú antico:
   50 – Tu forse ammiri che qui non fa male
        il troppo caldo noioso e nimico.
 
 
        Sappi che, dove il giorno è sempre equale
        alla sua notte, quanto il dí riscalda
        il sol, che 'nver' zenitto suso sale,
 
 
   55 tanto la notte col fresco risalda;
        e però quella patria, se pon' cura,
        fie temperata, né fredda, né calda.
 
 
        E, benché tanto il sol vada in altura,
        non fa di caldo sotto il loco accenso,
   60 quando in cotale altezza poco dura.
 
 
        Non è sola cagion del caldo intenso
        l'altezza dello sol, ma sua dimora
        col raggio insú riflesso, s'io ben penso. —
 
 
        Il suo parlar mi die' piú dubbio allora,
   65 ed io di domandar non avea ardire,
        come scolar che troppo il mastro onora,
 
 
        che mostra ancor non voler assentire
        con parole, ma tien il capo basso,
        facendo vista d'altro voler dire.
 
 
   70 Ond'ello: – Parla; – ed io: – Cotesto passo
        ha forse veritá solo in quel clima,
        ov'è la gran cittá di Satanasso.
 
 
        Ma questo loco tanto si sublima,
        che ben tre ore nell'alto emisfero
   75 vedete il sole innanzi agli altri in prima.
 
 
        E cosí, quando il giorno si fa nero
        nell'occidente, a voi ben per tre ore
        luce quassú il celeste doppiero.
 
 
        Che cagion è che qui non è ardore,
   80 se qui diciotto or mostra all'aspetto
        nel giorno il sol con suo chiaro splendore? —
 
 
        Ed egli a me: – Se intendesti il mio detto,
        io parlai sú del clima di quel loco,
        ov'ha reame il primo maladetto.
 
 
   85 E, perché questo da quel dista poco,
        il sol, che dura in questo loco santo,
        come argumenti, accenderebbe il foco;
 
 
        se non che 'nsú egli è levato tanto,
        che mai vapor, che faccia pioggia o vento,
   90 salir o nocer può in nessun canto.
 
 
        Ma 'l nono ciel e 'l primo movimento
        move qui l'aere, e dolce aura spira
        tal, che conforta ciascun sentimento.
 
 
        E, quando il detto cielo intorno gira,
   95 il foco e gli altri ciel voltan con esso
        ed anche seco quest'aere tira.
 
 
        Per questo il raggio in diritto riflesso
        si frange e sparge; e, quand'è cosí sparso,
        non accagiona il caldo intenso e spesso.
 
 
  100 Però dal sol non è questo luogo arso,
        s'el manda il raggio ritto, o alto el move,
        o se la notte sol sei ore ha scarso. —
 
 
        Dal ditto loco poscia andammo dove
        nasceva un fiume, ch'era tanto grande,
  105 che mai verun maggior fu visto altrove.
 
 
        Elia mi disse senza mie dimande:
        – Questa grand'acqua, che qui ritto emerge,
        per tutto il mondo poscia si dispande.
 
 
        Imprimamente questo loco asperge;
  110 poiché la terra ha qui bagnata e infusa,
        per tutta l'altra terra si disperge
 
 
        per li meati, sí come Aretusa,
        che bagna pria Calabria e di quindi esce,
        poi va in Trinacria sotterra rinchiusa.
 
 
  115 Di questo nasce Gange e 'l Nil, che cresce
        tanto la state, ed il Danubio e 'l Reno
        ed il Tanai col saporoso pesce.
 
 
        Di questo Ibero e il grande Geon pieno,
        che passa rifrescando l'Etiopia
  120 e che bagna anco l'arabico seno.
 
 
        Di questo il Po, che d'acqua ha sí gran copia,
        che, quando il mondo seccò per Fetonte,
        tra tutti i fiumi n'ebbe meno inopia.
 
 
        Ma l'acqua d'ogni fiume e d'ogni fonte
  125 principalmente vien dall'Oceáno,
        e da Natura corre prima al monte.
 
 
        Perch'è spognoso e perché dentro è vano,
        e' scaturisce pel caldo impellente
        e poscia scende e corre giuso al piano.
 
 
  130 Ed ogni fiume piú pieno e corrente
        diventa per la pioggia, quando cade;
        e questa è l'altra causa conferente. —
 
 
        Poi ci movemmo per le adorne strade
        tra la fragranza e soavi melode,
  135 tra 'l nettar dolce in scambio di rosade.
 
 
        Ivi ogni senso si rallegra e gode,
        alla verzura si conforta il viso,
        l'orecchie a' canti degli uccelli, ch'ode.
 
 
        Rallegra tutto il cor quel paradiso;
  140 ivi ogni cosa intorno m'assembrava
        un'allegrezza di giocondo riso.
 
 
        La doppia scorta, la qual mi guidava,
        si movea innanti, ed io seguía lor piante
        e con diletto lá e qua mirava.
 
 
  145 E, quando fummo andati alquanto avante,
        trovammo in giro un ampio ed alto muro,
        ch'avea le torri di duro diamante.
 
 
        Elia mi disse: – Qui l'intrare è duro,
        se l'uomo in prima non si gitta a terra
  150 e se: – Peccai – non dice col cuor puro.
 
 
        Allor colei, che la porta apre e serra,
        gli dá l'entrata e fagli anco la scorta;
        e chi senza lei andasse, il cammin erra.
 
 
        Ella ti menerá sino alla porta;
  155 dentro la Temperanza troverai,
        che gl'impeti rifrena e 'l troppo accórta. —
 
 
Per questo al duro muro m'appressai.