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Il Quadriregio

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CAPITOLO VI

Della fortezza e delle sue spezie.

 
        Menommi poi l'Umilitá piú suso,
        tanto ch'io giunsi al reame secondo;
        e, come il primo, il varco aveva chiuso,
 
 
        ed anco 'l muro avea girante in tondo
    5 ed era tutto quanto d'oro fino,
        alto ben cento piè da cima al fondo.
 
 
        Enginocchiato, al mur mi fei vicino;
        allora l'uscio grande ne fu aperto;
        e noi intrammo su per quel cammino.
 
 
   10 Forse duo miglia era ito suso ad erto
        tra dolci canti e tra li belli fiori,
        da' quai tutto quel pian era coperto,
 
 
        ch'io vidi in mezzo delli sacri còri
        star la Fortezza ardita e triunfante
   15 come una dea adorna di splendori.
 
 
        Mirava al cielo e tenea le sue piante
        fisse e fermate su 'n una colonna,
        ch'era tutta di fino adamante.
 
 
        La spada in mano avea la viril donna
   20 e l'elmo in testa ed in braccio lo scudo,
        e la panziera in scambio della gonna.
 
 
        – O vertú alta, o nobil Fortitudo
        – diss'io a lei inginocchiato appresso, —
        che non curi Fortuna e suo van ludo,
 
 
   25 per l'aspero viaggio mi son messo,
        passando i vizi insú con grande affanno,
        per veder questo regno a te commesso,
 
 
        e per veder le dame che qui stanno;
        e vengo, alta regina, ché m'insegni
   30 l'offizio e l'operar, che da te hanno.
 
 
        Se 'l priego basso mio, donna, disdegni,
        Minerva disse a me ch'io ti richieggia
        e che venissi qui, ove tu regni. —
 
 
        Siccome, quando le sue schier vagheggia,
   35 si mostra ardito il nobil capitano,
        ed ognun delli suoi, perch'egli il veggia,
 
 
        cosí fec'ella con la spada in mano,
        e cosí se mostroe ogni sua ancilla,
        in forma femminile ardir umano.
 
 
   40 Non mai Pantasilea ovver Camilla
        tanto valor nell'arme dimostrâro,
        né donna d'Amazona o d'altra villa.
 
 
        – Da c'hai passato il cammin cosí amaro
        – rispose quella, – e mándati Minerva,
   45 degno è che io t'insegni e faccia chiaro.
 
 
        La parte, che nell'uom debbe esser serva,
        per due cagioni alla ragion s'oppone
        e contra buona legge sta proterva.
 
 
        Prima è dolcezza delle cose buone
   50 secondo il senso, e, quando troppo move,
        a questa Temperanza il fren gli pone.
 
 
        L'altra è quand'ella andar non vuol lá, dove
        la ragion ditta e fállo per paura
        o per diletto, che la tiri altrove.
 
 
   55 Ora a' due offizi miei porrai ben cura.
        Uno è che arma l'uom e che lo sprona
        alla vertú contra ogni cosa dura.
 
 
        E, perch'abbia vittoria, la corona
        io gli dimostro; e, se vince l'asprezza,
   60 prometto fama e premio, che 'l ciel dona.
 
 
        L'altro è che, come Ulisse, la dolcezza
        lassa di Circe e, come Sanson fiero,
        svegliato, i lacci di Dalida spezza.
 
 
        E giammai non ti caggia nel pensiero
   65 che di fortezza virtual sia armato
        chi il mal fa forte o casual mestiero,
 
 
        cioè per furia o ira, o che infiammato
        sia d'amor troppo, e forse per temenza
        o per guadagno ovver come soldato.
 
 
   70 Per molta ovver per poca esperienza
        alcun par forte; ma vera radice
        nullo ha di questo, ma sola apparenza;
 
 
        ché la fortezza, che fa l'uom felice,
        è animo costante a non volere
   75 ciò ch'a ragione ed a Dio contradice,
 
 
        per questo apparecchiato a sostenere
        ogni fatica, ogni briga e periglio
        e voler contrastar con suo potere,
 
 
        e per le quattro cose, a quali è figlio,
   80 la patria, il padre, la vertú e Dio,
        ire alla morte con allegro ciglio.
 
 
        Non ha però di morte ella il disío;
        ché quanto al mondo è utile sua vita,
        tanto il morir gli dole e pargli rio.
 
 
   85 Ma la sua carne libera e espedita
        tiene alla morte, e sol quando bisogna
        e in bene di color che l'han largita;
 
 
        ch'è meglio assai che l'uom la vita pogna,
        che Cloto fila e fa corte le tele,
   90 che viver vizioso e con vergogna.
 
 
        Perché non fusse a' nemici infedele
        nelle promesse, il buon Regulo Marco
        tornò alla morte ed al dolor crudele.
 
 
        Ristette solo Orazio su nel varco
   95 del ponte, insin che gli fu dietro rotto,
        portando de' nemici tutto il carco,
 
 
        e poi nel Tever si gittò di sotto
        non per fuggir, ma che non contentasse
        color ch'a ritener s'era condotto.
 
 
  100 Fortezza fe' che Curzio si gittasse
        nella ruina, acciò che la sua morte
        da morte la sua patria liberasse.
 
 
        Omai contempla la mia bella corte.
        Questa che 'n testa porta due ghirlande,
  105 perché a destra ed a sinistra è forte,
 
 
        Magnanimitá è, che ha 'l cor sí grande,
        che Fortuna nol flette, se minaccia,
        né lieva in alto con losinghe blande;
 
 
        ma tra la gran tempesta e gran bonaccia
  110 conduce la sua barca con salute,
        e troppa spene o tèma non l'impaccia.
 
 
        Non per ambizion, ma per vertute
        s'ingegna di salir in grande onore,
        e solo a questo ha le sue voglie acute,
 
 
  115 e, non perch'i subietti ella divore,
        ma per far prode, sí come fa 'l lume,
        che, posto in alto, mostra piú splendore.
 
 
        Il vizio d'arroganza, e che presume,
        ha ella in odio e la gloria vana
  120 sí come cosa opposta al buon costume.
 
 
        Troppa audacia ancor da lei è lontana
        e 'l timor troppo e l'animo pusillo,
        e la temeritá da lei è strana;
 
 
        ed è verace, e l'animo ha tranquillo
  125 e tra li grandi mostra aspetto magno,
        ed eccellente ed alto è 'l suo vessillo,
 
 
        ed usa tra' minor come compagno.
        L'onor e la vertú vuol che antiposta
        sia all'utilitá ed al guadagno.
 
 
  130 Quell'altra donna, che gli siede a costa,
        è sua sorella, chiamata Fidanza:
        questa è seconda, in questo regno posta.
 
 
        Questa comincia con molta baldanza
        le cose dure, pria pensando il fine
  135 e la fatica ed ogni circumstanza.
 
 
        La terza poscia di queste regine
        è Pazienza, ed ella è che sostiene
        della battaglia le piú acute spine.
 
 
        E sono dolci a lei l'amare pene,
  140 pensando il premio e 'l grande onor che spera,
        ché senza affanno non si monta al bene.
 
 
        La quarta è la vertú che persevéra
        insin al fine, e l'opera conduce
        tutta perfetta e tutta quanta intera.
 
 
  145 Ogni atto buono ed arduo, che produce
        la volontá zelante ed iraconda,
        a questo mio reame si reduce.
 
 
        Io dico l'ira, quando non abbonda
        tanto che offusche il lume della mente,
  150 ma quella che a ragion sempre seconda.
 
 
        In questo regno mio tanto eccellente
        stanno i romani antichi e li gran reggi
        e gli uomin forti dell'antica gente,
 
 
        i quai voglio che odi e che li veggi.
  155 Quivi sta Ettòr e quivi stan coloro
        che in magnanimitá fûn li piú egreggi. —
 
 
        Allor partíssi, e tutto il sacro coro,
        seguendo la Fortezza, i passi mosse,
        sin che trovammo una gran porta d'oro.
 
 
  160 La donna principal quella percosse;
        e senza alcun indugio ne fu aperta;
        ma quel portier che aprío, non so chi fosse:
 
 
tanto attesi a seguir la scorta esperta.
 

CAPITOLO VII

De' magnanimi e valentissimi, ne' quali risplendette la virtú della fortezza.

 
        Non credo che sia loco, sotto il cielo,
        sí delettoso e di tanta allegrezza,
        né tanto temperato in caldo e 'n gielo,
 
 
        quanto quel dove andai con la Fortezza.
    5 E lí trovai armato il fiero Marte,
        quanto un gigante grosso ed in altezza.
 
 
        E molta gente avea da ogni parte
        e tanto appresso a lui, quanto vantaggio
        ebbon in forza e in battagliosa arte.
 
 
   10 E sopra tutti lor scendeva un raggio,
        il qual si derivava dal pianeta,
        che dá nella battaglia buon coraggio.
 
 
        Sí come luce ch'esce di cometa,
        cosí scendeva lor sopra la chioma,
   15 secondo la vertú piú chiara e lieta.
 
 
        Quando piú bella e piú in fior fu Roma,
        non ebbe in sé sí bella baronia,
        né quella che di Troia ancor si noma.
 
 
        Come tra' fiori e dolce melodia
   20 l'anime vanno tra gli elisii campi,
        facendo insieme festa in compagnia;
 
 
        cosí su' prati dilettosi ed ampi
        givano questi in gran solazzo e gioco
        col raggio in capo, che par che gli avvampi.
 
 
   25 – Secondo il raggio, quanto è assai o poco
        – Fortezza disse, – qui si manifesta
        la vertú de' baron di questo loco.
 
 
        Colui, che sí gran fiamma ha su la testa,
        Ercule fu, quel valoroso e forte,
   30 che morto fu con venenosa vesta.
 
 
        Tornò d'inferno e fuor delle sue porte
        Cerbero trasse e menollo nel mondo
        con tre catene a tre sue gole attorte.
 
 
        L'altro, ch'è dopo lui e poi secondo,
   35 è Cesar ceso nel ventre materno,
        che 'l raggio ha poi piú chiaro e piú giocondo.
 
 
        Tutta la zona donde viene il verno,
        la Francia, il Reno e l'antica Bretagna,
        sommise a Roma sotto 'l suo governo.
 
 
   40 E poi quel terzo, il qual egli accompagna
        e che da tanti è qui menato a spasso
        su per li prati della gran campagna,
 
 
        è quel che di combatter mai fu lasso
        nella battaglia, il fortissimo Ettorre,
   45 per la cui morte Troia venne al basso.
 
 
        Non bastò, Achille, a lui la vita tôrre,
        ma 'l trascinasti intorno delle mura
        delle porte troiane e delle torre.
 
 
        Il quarto, c'ha la luce chiara e pura
   50 su nella testa, è Alessandro altèro,
        che fece a tutto il mondo giá paura.
 
 
        Egli ebbe l'Oriente tutto intero:
        forse, se non che morte el lievò tosto,
        di vincer Roma gli riuscía 'l pensiero.
 
 
   55 L'altro, a cui tanto raggio in capo è posto,
        è quell'Ottavian, da cui si dice
        ogni altro imperator «Cesare Agosto».
 
 
        O alto core, o anima felice,
        la terra tutta facesti subietta
   60 fin dove il caldo accende la fenice.
 
 
        Fatt'hai di Cesar tuo la gran vendetta,
        e Perugia condutta a trista fame,
        e guasta tutta pompeiana setta.
 
 
        Recasti tutto il mondo ad un reame;
   65 per tua virtú, dal ciel discese Astrea
        e chiuse a Ian del tempio ogni serrame.
 
 
        Risguarda omai el magnanimo Enea,
        che si rallegra e parla con lui insieme,
        e ben in vista par figliuol di dea.
 
 
   70 Vedi da lui disceso il nobil seme,
        Romulo dico, innanti al cui valore
        tutte l'altre fortezze fûnno sceme.
 
 
        Vedi che tutti que' gli fanno onore
        e stangli innanzi come figli al padre;
   75 ed ha dal forte Marte piú splendore.
 
 
        La grande Roma e l'opere leggiadre
        di farsi grande e vendicare il zio
        e la Sabina a Roma dar per madre,
 
 
        il Capitolio e 'l tempio, che fe' a Dio,
   80 la milizia, il senato e la virtude
        el fan sí grande in questo regno mio.
 
 
        Oh secolo feroce! oh genti crude!
        il padre de' roman da' roman poi
        fu ucciso ed occultato in la palude.
 
 
   85 Quell'altro, che piú presso sta a loi,
        è il gran Pompeo, il quale in mare e in terra
        fe' gloriosi li triunfi suoi.
 
 
        Questo fu vincitor in ogni guerra,
        in Grecia, nell'Egitto ed in Tessaglia
   90 e ove 'l libico mar la secca serra,
 
 
        sinché col suocer ebbe la battaglia,
        u' Fortuna mostrò che contra lei
        non è fortezza o senno che vi vaglia.
 
 
        Vedi il piatoso amator delli dèi,
   95 difensor delle leggi, il buon Catone,
        refugio a' buon e riprensor de' rei.
 
 
        Mira il chiaro splendor di Scipione,
        in tanta gioventú verenda immago,
        tanta onestá in etá di garzone,
 
 
  100 a cui die' 'l nome la vinta Cartago,
        l'Affrica subiugata ed Anniballo,
        che contra Roma fu peggior che drago.
 
 
        L'altro è che 'l gran francioso da cavallo
        gittò a terra, e detto fu Torquato
  105 dal torque, che gli tolse, argenteo e giallo.
 
 
        Mira Camillo, il forte Cincinnato,
        il qual fortezza e vertú fe' sí grande,
        ch'andò al triunfo, tratto dell'arato.
 
 
        Se di quegli altri tre tu mi domande,
  110 che vanno inseme, a cu' il figliol di Iove
        del raggio a lor fa 'n capo tre grillande,
 
 
        quello, che i passi innanzi agli altri move,
        è 'l sovran re di Francia Carlo Magno,
        che contr'a' sarracin fe' le gran prove.
 
 
  115 L'altro, che va con lui come compagno,
        è 'l valoroso Boglion Gottifredo;
        che della Terrasanta fe' 'l guadagno.
 
 
        Il sepolcro di Cristo e 'l santo arredo
        ei conquistò; ed ora l'ha 'l soldano,
  120 non iusto possessor, ma come predo.
 
 
        Il terzo, ardito, con la spada in mano
        è 'l re Artus, e i suoi atti pregiati
        nomati son da presso e da lontano. —
 
 
        E giá la dea a me avea mostrati
  125 li gran troiani ed anche li gran greci,
        che eccellenti e forti erano stati,
 
 
        e detto avea de' Fabi e delli Deci;
        quando vidi un con molta gente intorno:
        ond'io a domandar oltra mi feci:
 
 
  130 – Chi è colui, che 'l raggio ha tanto adorno,
        o dea Fortezza, che sí come 'l sole
        faría la notte parer mezzogiorno,
 
 
        e che di fiori, rose e di viole
        li spargon sopra il petto e sopra il viso,
  135 sí come a' novi amanti far si sòle? —
 
 
        Ed ella a me: – Colui, che festa e riso
        riceve qui per la vertú che vince,
        or ora debbe andare in paradiso.
 
 
        Ed è concesso a lui che passi quince,
  140 che 'l suo valore a te sia manifesto:
        chiamato fu 'l cortese signor Trince.
 
 
        Innanzi a quell'Urbano, il qual fu sesto,
        sotto il vessillo scritto in libertade,
        che servitú per chiosa ebbe nel testo,
 
 
  145 tutte sue terre e tutte sue contrade
        di santa Chiesa a lei volson le piante
        e rivoltônsi con lance e con spade.
 
 
        Ma questo con pochi altri fu costante,
        e tra quei pochi di costui apparse
  150 la fede ferma piú che diamante;
 
 
        tanto ch'egli per questo il sangue sparse,
        drizzando a Dio il core e le sue mani,
        che 'n liberalitá mai fûnno scarse.
 
 
        Per questo greci, dardani e romani
  155 l'aspergono di fior, come tu vedi,
        e fangli festa in questi grati piani.
 
 
        – O sacra dea – diss'io, – se mel concedi,
        andrò a lui, e reverente e chino
        abbracciar voglio i sui amorosi piedi;
 
 
  160 ché 'l suo figliol dal mondo pellegrino
        quassú salir mi mosse: egli mi manda:
        per lui messo mi son in 'sto cammino.
 
 
        – Consentirei – respuse – a tua dimanda;
        se non che su nel ciel tu 'l trovarai,
  165 se il core e tua vertú tanto insú anda. —
 
 
        In questo sopra lui disceson rai,
        quali il sol la mattina all'oriente
        intensi manda li splendor primai.
 
 
        Li tre colle grillande prestamente
  170 insieme in compagnia a lui n'andâro,
        facendo via a lor tutta la gente,
 
 
        ed entrôn dentro in quello splendor chiaro.
        Allor vennon da cielo agnoli molti,
        che quelli quattro a Dio accompagnâro.
 
 
  175 Quelli bei fiori, ch'elli avíeno còlti,
        spargean sopra la gente, andando insue,
        che ammiravan con sospesi volti,
 
 
sinché, allungati, non si viddon piue.
 

CAPITOLO VIII

Nel quale la Fortezza scioglie un dubbio dell'autore, e appresso incominciasi a trattare della prudenza.

 
 
        L'intelletto dell'uom, che mai non posa,
        che sempre cerca e sta ammirativo,
        sinch'e' non trova la cagion nascosa,
 
 
        dicea fra sé: – Nel loco sí giolivo
    5 come star puote chi non si battezza
        o non credette in Cristo, essendo vivo? —
 
 
        Però addomandai la dea Fortezza:
        – Come qui 'n questo loco tanto ameno,
        di tanta festa e di tanta dolcezza,
 
 
   10 stan questi che 'l battesmo ebbono meno?
        Non so se fuor del cielo è luogo al mondo,
        che sia sí bello e di letizia pieno. —
 
 
        Ed ella a me: – Tu cerchi sí profondo,
        che scusata serò, se bene aperto
   15 alla domanda tua io non rispondo.
 
 
        Ma sappi in prima, ed abbilo per certo,
        ch'ogni male da Dio será punito,
        ed anco addolcirá ogni buon merto.
 
 
        Ma del voler di Dio, ch'è infinito,
   20 quanto a cercar alcun piú vi s'affanna,
        tanto pel grand'abisso va smarrito.
 
 
        Se li non battizzati egli condanna,
        sol che li tien per sempre del ciel fòre,
        per questo non gl'iniuria e non gl'inganna;
 
 
   25 ché quei, che ebbon di vertú 'l valore,
        di pena sensitiva non martíra,
        s'altro peccato non dá lor dolore.
 
 
        E ciò che 'l ciel non toglie, mentre gira,
        dico memoria, volontá, intelletto
   30 e ciò che l'alma sciolta seco tira,
 
 
        possono usare ed usan con diletto,
        e la vertú che ama e che ragiona,
        e contemplar con atto piú perfetto.
 
 
        Ma 'l ben che Dio per grazia ne dona,
   35 se 'l dá a costui ed a quel nol concede,
        non però fa iniuria a persona.
 
 
        Per grazia è solo, non giá per mercede
        salir al paradiso; e tal acquisto
        far non si pò senza battesmo e fede;
 
 
   40 ché i battezzati col ben far permisto
        son quelli, a' quali Dio promette il cielo
        ed alli circoncisi innanzi a Cristo.
 
 
        Che alcun puniti siano in caldo e gelo
        per gran delitti e scelerosi mali,
   45 apertamente ne 'l mostra il Vangelo.
 
 
        Ma questi, ch'ebbon le vertú morali,
        benché del ben di grazia sien privati,
        non però perdon li ben naturali.
 
 
        E però qui tra questi belli prati
   50 a te mostrati son, che ti sia nota
        la gran vertú, della qual fûn dotati.
 
 
        Sí come Ezechiel vide la rota
        e vide Ieremia un'olla accesa,
        ed altro intende la mente devota;
 
 
   55 cosí qui altra cosa s'appalesa
        agli occhi tuoi, ed altra dalla mente
        nel senso vero debbe esser intesa. —
 
 
        Poiché mostrata m'ebbe la gran gente,
        quelle sante donzelle si partîro;
   60 ed io su salsi una piaggia repente,
 
 
        tanto che io pervenni al quarto giro,
        ove la quarta porta era chiusa anco;
        e 'l muro tutto avíe de fin zaffiro.
 
 
        Inginocchiato il pié diritto e il manco,
   65 come chi vuol intrar quivi far usa,
        venne una ninfa vestita di bianco.
 
 
        Io percepetti ben ch'era una musa,
        ché 'n capo avea d'alloro una grillanda;
        e questa aprí a me la porta chiusa.
 
 
   70 Tutti i bei fior, che Zefiro ne manda,
        e tutto il canto della primavera,
        allor che amor la compagnia domanda,
 
 
        nulla saríeno al canto che quivi era:
        il lume di quel regno era sí accenso,
   75 che ogni luce di qua parría da sera.
 
 
        E, benché lo splendor fusse sí intenso,
        non però quello i mortali occhi offende,
        ma piú acuto fa il visivo senso:
 
 
        cosí l'occhio mental, quand'egli intende,
   80 si fa piú vigoroso e fassi forte,
        quanto l'obietto visto piú risplende.
 
 
        Della Prudenzia pervenni alla corte;
        e ben pareva la casa del Sole:
        tanti splendori uscían delle sue porte.
 
 
   85 Intorno al pian vid'io le grandi scole
        de' filosofi saggi e de' poeti,
        d'Apollo e di Mercurio santa prole.
 
 
        Pensa se gli occhi miei erano lieti,
        vedendo di Parnaso il sacro monte,
   90 qual per veder sostenni fami e seti;
 
 
        vedendo intorno al pegaseo fonte
        le nove muse, e di peneia fronda
        incoronarsi le tempie e la fronte;
 
 
        vedendo lo stillar della sacra onda;
   95 udendo i dolci canti e le favelle,
        a' quai degno parea che 'l ciel risponda.
 
 
        Come dal sole è 'l lume delle stelle,
        cosí dalla gran corte di Prudenza
        venía la luce in queste cose belle.
 
 
  100 Nell'aula di tanta refulgenza
        la musa intrar mi fe', di cui le piante
        venni seguendo insú con riverenza.
 
 
        Tra molte donne in mezzo a tutte quante
        una ne vidi, e dietro avea due occhi,
  105 duo nelle tempie e duo ne avea dinante.
 
 
        Io dissi a lei, calando li ginocchi:
        – O donna, che 'l passato a mente rechi
        e che 'l presente miri e 'l fine adocchi,
 
 
        priego che l'ignoranza in me resechi;
  110 e la mia mente illustra, acciò che io
        non caggia o vada errando com'e' ciechi.
 
 
        Venuto son quassú dal mondo rio
        dietro a Minerva, ed ella fu mia duce;
        ella è che ha guidato il passo mio.
 
 
  115 Ella mi disse che tua chiara luce
        delle tre tue sorelle illustra ognuna
        e dietro a te ciascuna il piè conduce;
 
 
        e che lor mente sería oscura e bruna,
        sí come stella senza l'altrui raggio
  120 o come senza il sole oscura luna.
 
 
        Io vengo a te per l'aspero viaggio,
        come scolar che volentieri impara,
        ch'a lungi cerca chi lo faccia saggio. —
 
 
        Sí come, quando a Febo s'interpara
  125 alcuna nube, e poscia manifesta
        la bella faccia, che il mondo rischiara;
 
 
        cosí schiarò sei occhi della testa,
        de' quai gli risplendette tutto il volto;
        poi mi rispose con parola onesta:
 
 
  130 – Sí come il senso e l'appetito stolto
        la Temperanza regge e fren lor pone,
        che è mesura tra lo troppo e 'l molto,
 
 
        e sí come Fortezza lo sperone
        porge al voler, s'è tardo o se declina
  135 dalla vertú e dalle cose buone;
 
 
        cosí qui illustro con la mia dottrina
        la luce d'intelletto ovver mentale,
        ché l'arte e l'uso la vertú raffina.
 
 
        Questo splendore e luce naturale
  140 è prima legge all'uomo, ed ella è atta
        poter discerner tra lo ben e 'l male.
 
 
        Ed in duo modi può diventar matta,
        quand'ella non al fin del corso umano,
        ma nella via il suo piacere adatta:
 
 
  145 cioè in diletti, ovver nell'amor vano,
        in troppa cupidigia, in usar froda,
        o in rapina, o nell'arte di Gano.
 
 
        Io dirò 'l vero, e voglio ch'ognun l'oda:
        inganno, tradimento e falso gioco,
  150 pur ch'util abbia, per vertú si loda.
 
 
        Prudente è chi al fine, ovver al loco,
        al qual creato fu, drizza il cammino,
        e non al mondo, ov'egli ha a viver poco;
 
 
        e per la via fa come il pellegrino,
  155 che per la via, s'è saggio, non si carca,
        per ritornar ov'egli è cittadino,
 
 
e, mentre il corpo posa, col cor varca. —