Бесплатно

Il Quadriregio

Текст
Автор:
0
Отзывы
iOSAndroidWindows Phone
Куда отправить ссылку на приложение?
Не закрывайте это окно, пока не введёте код в мобильном устройстве
ПовторитьСсылка отправлена

По требованию правообладателя эта книга недоступна для скачивания в виде файла.

Однако вы можете читать её в наших мобильных приложениях (даже без подключения к сети интернет) и онлайн на сайте ЛитРес.

Отметить прочитанной
Шрифт:Меньше АаБольше Аа

CAPITOLO VII

Dove trattasi del regno d'Acheronte.

 
        Miglia' di mostri piú oltre trovai,
        i quai bench'io li narri e li racconte,
        appena a me si crederá giammai.
 
 
        Anime vidi al lito d'Acheronte,
    5 ch'avean sette persone e sette facce;
        e queste su in un ventre eran congionte.
 
 
        Pensa sette uomin, che l'un l'altro abbracce
        dietro alle reni e con sette man manche,
        con sette destre ed altrettante bracce.
 
 
   10 Ed avean sol un ventre e sol due anche
        e sol due gambe e sol un umbillico:
        sí fatti mostri non son trovati anche.
 
 
        E ciascun delli visi, i quali io dico,
        quant'era piú appresso a quel davante,
   15 piú giovin era e dietro piú antico,
 
 
        sí che la prima faccia era d'infante
        or ora nato, e l'altra puerile,
        d'adolescente il terzo avea sembiante,
 
 
        giovine il quarto, il quinto era virile,
   20 il sesto di canuti era cosperso,
        e l'ultimo un vecchiaccio tristo e vile.
 
 
        Miglia' di mostri fatti a questo verso
        stavano a lato di quell'acqua bruna,
        per passar l'onde del lago perverso,
 
 
   25 il qual avea assai maggior fortuna,
        che mai Carribdi, Scilla o l'Oceáno,
        quando ha reflusso o quando volta luna.
 
 
        Vidi Caròn non molto da lontano
        con una nave, in mezzo la tempesta,
   30 che conducea con un gran remo in mano.
 
 
        E ciascun occhio, ch'egli avea in testa,
        parea come di notte una lumiera
        o un falò, quando si fa per festa.
 
 
        Quand'egli fu appresso alla riviera
   35 un mezzo miglio quasi o poco manco,
        scòrsi sua faccia grande, guizza e nera.
 
 
        Egli avea il capo di canuti bianco,
        il manto addosso rappezzato ed unto;
        e volto sí crudel non vidi unquanco.
 
 
   40 Non era ancor a quell'anime giunto,
        quando gridò: – O dal materno vaso
        mandati a me nel doloroso punto,
 
 
        per ogni avversitá, per ogni caso
        vi menerò tra la palude negra
   45 incerti della vita e dell'occaso.
 
 
        Pochi verran di voi all'etá intègra;
        spesso la vita alli mortali io tollo,
        quand'ella è piú secura e piú allegra. —
 
 
        Dava col remo suo tra testa e 'l collo
   50 a' mostri, che mettea dentro alla cocca;
        e forte percotea chi facea crollo.
 
 
        Poscia rivolto a me, colla gran bocca
        gridò: – Or giunto se', o tu, che vivi,
        venuto qui come persona sciocca. —
 
 
   55 Minerva a lui: – Costui convien ch'arrivi
        all'altra ripa sotto i remi tui,
        'nanzi che morte della vita il privi.
 
 
        – Su la mia nave non verrete vui
        – rispose a noi con ira e con disdegno, —
   60 ché altre volte giá ingannato fui.
 
 
        Un trasse Cerber fuor del nostro regno,
        l'altro la moglie; or simil forza temo:
        però voi non verrete sul mio legno. —
 
 
        Minerva a lui: – Io chiedo ora il tuo remo,
   65 ch'io vo' menar costui, o vecchio lordo,
        da questo basso al mio regno supremo.
 
 
        Lassame andar, consumator ingordo,
        ché a te non è subietta quella vita,
        per la qual vive uom sempre per ricordo. —
 
 
   70 Ratto ch'egli ebbe esta parola udita,
        si vergognò ed abbassò le ciglia,
        e senza piú parlar ne die' la ita.
 
 
        Navigato avevam ben giá due miglia,
        ed io mi volsi addietro, e vidi ancora
   75 venuta alla rivera altra famiglia,
 
 
        solcando noi per quella morta gora,
        con gran tempesta tra le morte schiume,
        col vento non da poppa, ma da prora.
 
 
        Sí come il falso argento torna in fume
   80 nel ceneraccio, che fa l'alchimista,
        o cera che al foco si consume;
 
 
        cosí a' mostri la lor prima vista
        vidi mancare ed anche la seconda,
        come cosa non stata o non mai vista.
 
 
   85 E poi la terza colla testa bionda,
        la quarta e poi la quinta venne meno,
        navigando oltra per quell'acqua immonda;
 
 
        mancò poi il sesto di canuti pieno;
        sicché di lor rimase un sol vecchiaccio:
   90 non sette piú, ma un tutti pariéno.
 
 
        La nave a riva avea a venir avaccio,
        quand'io addomandai un gran vecchione,
        che stava a lato a me a braccio a braccio.
 
 
        E dissi a lui: – Perché 'l demòn Carone
   95 sí vi disfá? e perché, navigando,
        sei parti ha tolte alle vostre persone? —
 
 
        Rispose: – Quel Signor, che 'l come e 'l quando
        sa della morte e la vita concede
        non mai a patti, ma al suo comando,
 
 
  100 nel mondo sú lunga vita ne diede;
        e fummo negligenti alla virtude
        e ratti a far le cose brutte e fède.
 
 
        Però menar ne fa per la palude,
        e nella ripa esto crudel pirata
  105 la vita a noi vecchiacci ancora chiude.
 
 
        E quando addietro la nave è tornata
        e mena quei che stan dall'altro canto,
        in quel rifatti siamo un'altra fiata.
 
 
        E ritornamo a quella riva intanto,
  110 ove pria fummo; e lí da noi s'aspetta
        anche 'l nocchier con pena e con gran pianto.
 
 
        Questa è da Dio a noi giusta vendetta,
        da che a ben far nostra vita fu tarda,
        che sempre a morte nostra vita metta.
 
 
  115 La Morte non è mai all'uom bugiarda,
        ché lo minaccia in viso e fallo accorto;
        ma egli chiude gli occhi e non si guarda.
 
 
        E, benché l'uom si vegga giunto al porto
        degli anni suoi, è sí ne' vizi involto,
  120 che prima il viver che 'l mal fare è scòrto.
 
 
        In quell'etá, che fa canuto il volto,
        alcun nell'operar tanto è difforme,
        ch'e' non par vecchio, ma fanciullo stolto.
 
 
        Ed io lassú, dove si mangia e dorme,
  125 fui giá Del Bruno chiamato Francesco
        e fiorentin lascivo vecchio enorme.
 
 
        Qui sta, (or poni un «vo» di dietro al «vesco»,)
        Pier d'Alborea, che 'n tre vescovati,
        secco negli anni, nel peccar fu fresco. —
 
 
  130 Noi eravamo al porto giá appressati;
        e tutti vennon men su nella riva,
        sí come un'ombra ed uomin non mai stati.
 
 
        Io scesi in terra con la scorta diva,
        ed ella disse a me: – Se ben pon' mente,
  135 la vita umana non si può dir viva;
 
 
        ché solo solo un punto è nel presente,
        e nel futur non è ed anco è 'ncerta,
        e del passato in lei non è niente.
 
 
        E, perché questa cosa ti sia esperta,
  140 pensa che un oro puro a parte a parte
        a poco a poco in piombo si converta.
 
 
        Se un venisse a te a domandarte,
        tu non potresti dir che quel fusse oro,
        da che dall'esser òr sempre si parte.
 
 
  145 Cosí è la vita di tutti coloro,
        che 'l tempo mena a morte; e chi ben mira,
        non dirá mai: – Io vivo, – ma – Io moro; —
 
 
        ché, mentre il cielo sopra voi si gira,
        logra la vita, ed è cagion quel moto
  150 del caso e qualitá che a morte tira. —
 
 
        In questo ad ira Caròn fu commoto
        e gridò forte: – Questa simil pena
        ha l'uom; ma, come a cieco, non gli è noto;
 
 
        ché 'l ciel fa il tempo, quel nocchier che mena
  155 l'uom navigando d'una in altra etade
        sino alla ripa, ov'è l'ultima cena.
 
 
        Dal tempo ha 'l corpo ogni infermitade;
        e ciò, che è nel mondo all'uom molesto,
        sí vien dal cielo o da natura cade. —
 
 
160 Poi si partí Caròn fiero e rubesto.
 

CAPITOLO VIII

Dove trattasi della pena del gigante Tizio e quello ch'e' significhi.

 
        Caròn la nave irato addietro mosse
        e Palla opposta a lui mosse le piante;
        e quasi un miglio credo andato fosse,
 
 
        che trovammo giacere un gran gigante
    5 legato in terra e dietro resupino,
        e sopra lui un gran vóltore stante,
 
 
        che 'l becco torto avea come un uncino:
        il petto gli smembrava il grande uccello
        con grave doglia al misero tapino.
 
 
   10 – Minerva mia – diss'io, – che mostro è quello,
        a cui il fegato dal vóltore è roso
        tanto, che poco n'è rimaso d'ello? —
 
 
        Perché «mostro» il nomai, gli fu noioso,
        al mio parer; però la testa grande
   15 alzò, parlando irato e desdegnoso.
 
 
        E disse: – O tu, che qui di me domande,
        Tizio son io, a cui 'l fegato pasce
        questo avoltore e tutto il giorno prande.
 
 
        E poi la notte in petto mi rinasce
   20 e fassi preda allo bramoso rostro:
        queste pene sostengo e queste ambasce.
 
 
        Simile a me, che m'hai chiamato «mostro»,
        in ciascun uomo è la parte mortale;
        e che questo sia vero, io tel dimostro.
 
 
   25 Come vóltore, il caldo naturale
        l'umido radicale in voi divora,
        poi rinasce del cibo, ma non tale,
 
 
        però che sempre la lega peggiora;
        oltre la gioventú putrido fasse;
   30 per questo l'uomo invecchia e discolora.
 
 
        Se 'l cielo sopra voi non si voltasse,
        non averebbe il detto uccello il pasto,
        né converria che cibo il ristorasse.
 
 
        E se a me il petto è roso e guasto,
   35 la notte integramente lo risaldo;
        sí che io in sempiterno vivo e basto.
 
 
        Ma quel ch'è in voi consumato dal caldo,
        se si rifá per prandio ovver per cena,
        non sempre è sí perfetto, né sí saldo.
 
 
   40 E questo alla vecchiezza e morte mena,
        e fame e sete; sí che vostro stato
        vien meno ed ha a questa simil pena. —
 
 
        Io non risposi, quand'ebbe parlato,
        ché non volle Minerva; ond'ei la testa
   45 ripose risupina insú quel prato.
 
 
        Trovammo poi in una gran foresta,
        quant'un gigante grande, la Vecchiezza
        tra molta gente dolorosa e mesta.
 
 
        Ell'era guizza e piena di gravezza,
   50 magra, canuta e senza nessun dente,
        poggiata ad un baston per debilezza.
 
 
        Dirieto a lei veniva una gran gente,
        che parevano vivi, ognun coniunto
        inseme con un morto puzzolente.
 
 
   55 Cosí erano uniti a punto a punto,
        sí come san Macario e san Bordone,
        quand'un viveva e l'altro era defunto.
 
 
        Quand'io considerai cotal passione
        esser coniunti i vivi colli morti:
   60 – Oimè! – diss'io, – oh quanta afflizione! —
 
 
        La vecchia mi guatò con gli occhi torti
        e dissemi: – Se mai nel mondo riedi
        dietro a colei che t'ha li passi scorti,
 
 
        simile a quella pena, che tu vedi,
   65 lí troverai e le person penose.
        Ma, perché forse questo a me non credi,
 
 
        sappi che 'l mondo nomina le cose
        non per diritto, ma per lo traverso:
        però le veritá gli son nascose.
 
 
   70 Quando l'uom nasce nel mondo perverso,
        che a vivere incomincia usate dire;
        ma questo dir dal ver tutto è diverso,
 
 
        però ch'allora incomincia a morire;
        e, perché insieme insieme vive e more,
   75 col vivo il morto è lí anco l'unire.
 
 
        Tutti gli anni, li mesi e tutte l'ore
        che son passate, e ciò c'ha 'l tempo scemo,
        nell'uomo è morto ed è di vita fuore.
 
 
        Oh quanto è stolto quel, che 'l «ben faremo»
   80 conduce insino al serrar delle porte
        e 'l ben poi principiar in sull'estremo!
 
 
        Queste alme son dannate a cotal sorte,
        perché nel mondo non fûr le lor vite
        vive nell'operar, ma pigre e morte.
 
 
   85 E, se ben miri, son qui ben punite,
        ché vive dalli morti hanno tormenti,
        e come morte a morti sono unite. —
 
 
        Quando ebbe detto delli negligenti,
        piú oltre mi mostrò quivi dappresso
   90 l'Infermitá, che facean gran lamenti.
 
 
        E disse: – Su nel mondo vanno spesso;
        non può fare Ipocráte ed Avicenna
        che 'l corpo uman non sia da loro oppresso. —
 
 
        Non poteria giammai scriverlo penna
   95 la schiera grande che io vidi de' Morbi,
        che fere all'uom, o che ferir gli accenna.
 
 
        Quivi eran zoppi, monchi, sordi e orbi;
        quivi era il Mal podagrico e di fianco,
        quivi la Frenesia cogli occhi torbi.
 
 
  100 Quivi il Dolor gridante e non mai stanco,
        quivi il Catarro con la gran cianfarda;
        l'Asma, la Polmonia quivi eran anco.
 
 
        L'Idropisia quivi era grave e tarda,
        di tutte Febbri quel piano era pieno,
  105 quivi quel Mal che par che la carne arda.
 
 
        Sí d'ammirazione io venni meno,
        ch'arei laudato l'error d'Origene,
        se non che Fede a me tirò il freno.
 
 
        Dice che l'alma, che nel corpo viene,
  110 è un dimonio, il qual Iddio rinchiude
        dentro alla carne sol per dargli pene.
 
 
        E però il corpo umano è fatto incude
        di tutti i colpi che 'l mondo saetta,
        perché di sua superbia si denude.
 
 
  115 – Sta' fermo su la Fede, ch'è perfetta, —
        disse Minerva, che, senza mio sermo,
        vedea l'opinion, ch'i' avea concetta.
 
 
        Ed io a lei: – Perché nel corpo infermo,
        subietto al cielo e brutto e tanto vile,
  120 che tanto o poco piú è vile un vermo,
 
 
        l'anima nostra, ch'è tanto gentile,
        Dio la rinchiude ed in lui la trasfonde?
        Trovò piú miser loco o sozzo o vile,
 
 
        ove materia in nulla corrisponde
  125 alla sua forma? E però maraviglio
        che l'anima del corpo si circonde. —
 
 
        Come si schiara il padre verso il figlio,
        che si rallegra quando egli ha ben detto,
        cosí la dea ver' me rallegrò il ciglio.
 
 
  130 E disse: – Se 'l volere e lo 'ntelletto
        con vostra carne fosse insieme unito,
        il vostro arbitrio saria al ciel subietto.
 
 
        E s'egli fosse dal cielo impedito,
        non ritrarria la carne, che rimove
  135 spesse fiate dal vano appetito;
 
 
        ché, se lo corpo all'obietto si move
        e 'l voler vostro fusse uno con lui,
        fren non sarebbe a ritirarlo altrove.
 
 
        Questo è principio per provare a vui
  140 che puote l'anima aver subsistenza,
        forniti che ha 'l corpo i giorni sui. —
 
 
        Io anche dissi: – O dea di sapienza,
        se 'l ciel mi tira, ed io tirato vado,
        mosso dal corso ovver dall'influenza,
 
 
  145 dunque che biasmo avrò, se fo alcun lado?
        O che loda e che onor io debbo avere,
        s'io surgo al bene o s'io nel mal non cado? —
 
 
        Ed ella a me: – Il ciel 'n voi ha potere
        solo nel corpo, e s'e' al mal corresse,
  150 il vostro velle il puote ritenere.
 
 
        Se prava ancor complessione avesse
        da tempo o loco o da suoi genitori,
        esser potrebbe ch'al mal si movesse;
 
 
        perché, secondo che 'n voi son gli umori,
  155 cosí si move il carnal desidèro
        ad ire, invidie, ad odii ed amori.
 
 
        Ma volontá in voi ha 'l sommo impero
        di ciascun senso umano, e può guidarlo
        e soggiogarlo ad ogni ministero.
 
 
  160 Dunque l'arbitrio, del qual io ti parlo,
        perché guida il timon di tutto il legno
        e può a scoglio ed a porto drizzarlo,
 
 
        di biasmo e loda egli diventa degno,
        secondo che va ritto o che devia
  165 dal dritto porto ovver dal dritto segno. —
 
 
Poscia di quindi noi andammo via.
 

CAPITOLO IX

Come l'autore trova la Morte, la quale parla acerbamente contro i mortali.

 
 
        – Le rote delli ciel tanto son vòlte
        – disse Minerva, – che, da che venisti,
        tre ore della vita t'hanno tolte.
 
 
        La vita e 'l tempo, se tu ben udisti,
    5 son una cosa; e quanto dell'un perde,
        tanto perdi dell'altro e tanto acquisti.
 
 
        Convien omai che tu cammini inver' de
        colei, la quale a ciò che nasce è fine,
        e che fa secco ciò che pria fu verde.
 
 
   10 Non col passo dei piè te gli avvicine
        o meno o piú, ma di sopra li cieli
        voltati fan che tu ver' lei cammine.
 
 
        – Con tanta oscuritá il dir mi veli
        – risposi a lei, – che ben io non l'intendo
   15 qual fine è questo, se tu non riveli.
 
 
        Per quel che tu m'hai detto, ben comprendo
        che giá tre ore mia vita è scemata,
        mentre noi queste cose andiam vedendo. —
 
 
        Ed ella a me: – Stolto è colui che guata
   20 solo alla vita e non rimira il porto,
        al qual fa ogni dí una giornata.
 
 
        In questa valle, nella qual t'ho scorto,
        vedrai la Morte – Palla mi sobiunse; —
        però fa' che, passando, tu sie accorto. —
 
 
   25 Sí gran timore allora al cor mi giunse,
        quand'io udii dover veder la Morte,
        che ancor mi punge: tanto allor mi punse.
 
 
        E le mie guance diventonno smorte,
        ché 'l sangue si restrinse tutto al core,
   30 come natura fa, perché 'l conforte.
 
 
        Però la dea a me: – Perc'hai timore
        di quella cosa, che convien che sia
        e debbesi aspettar in tutte l'ore?
 
 
        Dato è il quando e l'ordine e la via
   35 del pervenire al termine giá posto:
        né fia la morte piú tarda, né in pria.
 
 
        E, se non sai se egli è tardo o tosto
        della tua vita il tuo ultimo punto,
        star déi ognora accorto e ben disposto.
 
 
   40 Acciò che tu non sia improvviso giunto,
        propon' che il tempo incerto, che ti resta,
        sia tutto giá presente ovver consunto.
 
 
        Il tempo logra a voi la mortal festa;
        e le tre Parche tessono alla voglia
   45 di quel Signor, che a tempo ve la presta.
 
 
        E, quando Morte di quella vi spoglia,
        rimane in voi ciò che non gli è subietto:
        però l'alma non sente mortal doglia;
 
 
        ché vostra volontá e l'intelletto
   50 e tutto quel che 'n voi non è brutale,
        subsiste piú vivace e piú perfetto.
 
 
        In terra torna il corpo animale,
        e l'alma, ch'è dal ciel, su al ciel riede,
        ciascun al suo principio originale. —
 
 
   55 Gran passion gran conforto richiede;
        però Minerva alla mia gran paura
        questa monizion lunga mi diede.
 
 
        Com'uom che va per la via non sicura,
        che mira e tace pel sospetto grande,
   60 cosí, temendo, intorno io ponea cura.
 
 
        E però Palla a me: – Mentre tu ande
        inverso a quella, a cui pervenir déi,
        perché pur temi e di lei non domande? —
 
 
        Ond'io risposi: – Volontier saprei
   65 quant'ella sta ancor a noi da cesso,
        innanti ch'io pervenga insino a lei. —
 
 
        Ed ella a me: – A voi non è concesso
        del cammin vostro di saper il quanto;
        ma ella in ogni loco è molto appresso;
 
 
   70 ch'ella discorre ed è veloce tanto
        per questa valle, per la qual tu vai,
        che in ciascun punto ell'è in ogni canto. —
 
 
        Per questo piú acuto allor mirai
        e vidi lei in un caval sedere
   75 negro e veloce piú che nessun mai.
 
 
        Avea le guance guizze, magre e nere:
        crudel la vista e sí oscura e buia,
        ch'io chiusi gli occhi per non la vedere.
 
 
        E perché ogni uomo volontier s'attuia
   80 gli occhi per non vederla, tanto è brutta,
        per ciò ella va occulta come fuia.
 
 
        – Mia – sí dicea, – mia è la gente tutta:
        quanta n'è nata e nascerá al mondo,
        destruggerò e l'altra ho giá destrutta.
 
 
   85 Quando alcun crede star sano e giocondo,
        io l'assalisco, e quanto è piú gagliardo,
        piú tosto al mio voler lo mando al fondo.
 
 
        Imperatori o re non ho in riguardo;
        a' miseri, che stanno in pena acerba,
   90 mando mie' morbi, ed a lor io vo tardo.
 
 
        Ciò che nasce nel mondo, a me si serba,
        e che ha carne e corpo, cresce e vive:
        tutto fia mio insino all'ultim'erba. —
 
 
        Di molti morti io vidi poscia quive
   95 sí grande strage, che rispetto a quella
        nullo poeta sí grande la scrive;
 
 
        non quella che riempiè i moggi d'anella,
        non quella che la peste fe' in Egina,
        né quella, della qual Lucan favella.
 
 
  100 Di quelli morti tra la gran rovina
        un si levò, che solo il cuoio e l'osse
        avea e verminose le intestina.
 
 
        E disse: – Poiché noi siam nelle fosse,
        son nostri alunni e compagni li vermi.
  105 Oh fine oscuro delle umane posse!
 
 
        E, perché questo io meglio vel confermi,
        guatate i corpi fracidi di noi:
        per me' vedergli, alquanto state fermi.
 
 
        Quali ora siete voi, ed io giá foi:
  110 e quale io sono, tutti torneranno
        que' che son nati e che nasceran poi.
 
 
        In questo loco papi meco stanno,
        imperatori, re e cardinali;
        né piú che gli altri qui potenzia hanno,
 
 
  115 perché all'estremo tutti quanti equali
        ne fa la morte, ai ben felici atroce,
        e tarda e dolce agl'infelici mali.
 
 
        Oh lasso me! L'indugio quanto nòce!
        E quel, che si dé' fare, averlo fatto,
  120 oh quanto acquista del tempo veloce!
 
 
        Io perdei Pisa e poi Lucca in un tratto;
        e questo il fe' la mia pigrizia sola,
        ché non soccorsi, com'io potea, ratto.
 
 
        Io fui giá Uguccion dalla Fagiola. —
  125 Poi come morto ricadde supino,
        ratto ch'egli ebbe detto esta parola.
 
 
        Io ingavicchiai le mani, e 'l viso chino
        tenea: per questo il cor sí m'invilío,
        ch'io non curava piú del mio cammino.
 
 
  130 Ma quella, che guidava il passo mio,
        disse: – Che hai, che stai ammirativo
        e, come pria, venir non hai disio?
 
 
        Non sapei tu che ombra è 'l corpo vivo,
        e che trapassa e fugge come un vento,
  135 e cibo a' vermi è poi, di vita privo?
 
 
        Se tu non vuoi, morendo, essere spento,
        cammina sí, che quella vita cresca,
        che 'l ciel non logra col suo movimento. —
 
 
        Come infingardo, a cui l'andar incresca,
  140 e, perché vada ratto, alcun gli grida,
        ch'allor s'affretta e li passi rinfresca;
 
 
        cosí fec'io al dir della mia guida,
        tanto ch'io trapassai il regno afflitto
        del rio pirata e crudele omicida.
 
 
  145 E dietro alla mia dea andando io dritto,
        pervenni in loco, ove trovai una porta;
        e quel che seguirá quivi era scritto,
 
 
il qual io lessi ed anco la mia scorta.