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Laonde, parendo al medico avere assai piena certezza, levatosi e tratti da parte il padre e la madre del giovane, disse loro: «La sanità del vostro figliuolo non è nell’aiuto de’ medici, ma nelle mani della Giannetta dimora, la quale, sì come io ho manifestamente per certi segni conosciuto, il giovane focosamente ama, come che ella non se ne accorge, per quello che io vegga. Sapete omai che a fare v’avete, se la sua vita v’è cara.»

Il gentile uomo e la sua donna questo udendo furon contenti, in quanto pure alcun modo si trovava al suo scampo, quantunque loro molto gravasse che quello, di che dubitavano, fosse desso, cioè di dover dare la Giannetta al loro figliuolo per isposa.

Essi adunque, partito il medico, se n’andarono allo ’nfermo: e dissegli la donna così: «Figliuol mio, io non avrei mai creduto che da me d’alcun tuo disidero ti fossi guardato, e spezialmente veggendoti tu, per non aver quello, venir meno: per ciò che tu dovevi esser certo e dèi che niuna cosa è che per contentamento di te far potessi, quantunque meno che onesta fosse, che io come per me medesima non la facessi. Ma poi che pur fatta l’hai, è avvenuto che Domenedio è stato misericordioso di te più che tu medesimo, e acciò che tu di questa infermità non muoi m’ha dimostrata la cagione del tuo male, la quale niuna altra cosa è che soperchio amore il quale tu porti a alcuna giovane, qual che ella si sia. E nel vero di manifestar questo non ti dovevi tu vergognare, per ciò che la tua età il richiede: e se tu innamorato non fossi, io ti riputerei da assai poco. Adunque, figliuol mio, non ti guardare da me, ma sicuramente ogni tuo disidero mi scuopri; e la malinconia e il pensiero, il quale hai e dal quale questa infermità procede, gitta via e confortati e renditi certo che niuna cosa sarà per sodisfacimento di te che tu m’imponghi, che io a mio poter non faccia, sì come colei che te più amo che la mia vita. Caccia via la vergogna e la paura, e dimmi se io posso intorno al tuo amore adoperare alcuna cosa. E se tu non truovi che io a ciò sia sollecita e a effetto tel rechi, abbimi per la più crudel madre che mai partorisse figliuolo.»

Il giovane, udendo le parole della madre, prima si vergognò; poi, seco pensando che niuna persona meglio di lei potrebbe al suo piacer sodisfare, cacciata via la vergogna così le disse: «Madama, niuna altra cosa mi v’ha fatto tenere il mio amor nascoso quanto l’essermi nelle più delle persone avveduto che, poi che attempati sono, d’essere stati giovani ricordar non si vogliono. Ma poi che in ciò discreta vi veggio, non solamente quello, di che dite vi siete accorta, non negherò esser vero, ma ancora di cui vi farò manifesto: con cotal patto, che effetto seguirà alla vostra promessa a vostro potere, e così mi potrete aver sano.»

Al quale la donna, troppo fidandosi di ciò che non le doveva venir fatto nella forma nella quale già seco pensava, liberamente rispose che sicuramente ogni suo disidero l’aprisse, ché ella senza alcuno indugio darebbe opera a fare che egli il suo piacere avrebbe.

«Madama,» disse allora il giovane «l’alta bellezza e le laudevoli maniere della nostra Giannetta e il non poterla fare accorgere, non che pietosa, del mio amore e il non avere ardito mai di manifestarlo a alcuno m’hanno condotto dove voi mi vedete; e se quello che promesso m’avete o in un modo o in un altro non segue, state sicura che la mia vita fia brieve.»

La donna, a cui più tempo da conforto che da riprensioni parea, sorridendo disse: «Ahi! figliuol mio, dunque per questo t’hai tu lasciato aver male? Confortati e lascia fare a me, poi che guarito sarai.»

Il giovane, pieno di buona speranza, in brevissimo tempo di grandissimo miglioramento mostrò segni: di che la donna contenta molto si dispose a voler tentare come quello potesse oservare il che promesso avea. E chiamata un dì la Giannetta per via di motti assai cortesemente la domandò se ella avesse alcuno amadore.

La Giannetta, divenuta tutta rossa, rispose: «Madama, a povera damigella e di casa sua cacciata, come io sono, e che all’altrui servigio dimori, come io fo, non si richiede né sta bene l’attendere a amore.»

A cui la donna disse: «E se voi non l’avete, noi ve ne vogliamo donare uno, di che voi tutta giuliva viverete e più della vostra biltà vi diletterete, per ciò che non è convenevole che così bella damigella, come voi siete, senza amante dimori.»

A cui la Giannetta rispose: «Madama, voi dalla povertà di mio padre togliendomi come figliuola cresciuta m’avete, e per questo ogni vostro piacere far dovrei: ma in questo io non vi piacerò già, credendomi far bene. Se a voi piacerà di donarmi marito, colui intendo io d’amare ma altro no; per ciò che della eredità de’ miei passati avoli niuna cosa rimasa m’è se non l’onestà, quella intendo io di guardare e di servare quanto la vita mi durerà.»

Questa parola parve forte contraria alla donna a quello a che di venire intendea per dovere al figliuolo la promessa servare, quantunque, sì come savia donna, molto seco medesima ne commendasse la damigella; e disse: «Come, Giannetta, se monsignor lo re, il quale è giovane cavaliere, e tu se’ bellissima damigella, volesse del tuo amore alcun piacere, negherestigliele tu?»

Alla quale essa subitamente rispose: «Forza mi potrebbe fare il re, ma di mio consentimento mai da me, se non quanto onesto fosse, aver non potrebbe.»

La dama, comprendendo qual fosse l’animo di lei, lasciò star le parole e pensossi di metterla alla pruova; e così al figliuolo disse di fare, come guarito fosse, di metterla con lui in una camera e ch’egli s’ingegnasse d’avere di lei il suo piacere, dicendo che disonesto le pareva che essa, a guisa d’una ruffiana, predicasse per lo figliuolo e pregasse la sua damigella. Alla qual cosa il giovane non fu contento in alcuna guisa e di subito fieramente peggiorò. Il che la donna veggendo, aperse la sua intenzione alla Giannetta. Ma più constante che mai trovandola, raccontato ciò che fatto aveva al marito, ancora che grave loro paresse, di pari consentimento diliberarono di dargliele per isposa, amando meglio il figliuolo vivo con moglie non convenevole a lui che morto senza alcuna; e così, dopo molte novelle, fecero. Di che la Giannetta fu contenta molto e con divoto cuore ringraziò Idio che lei non avea dimenticata: né per tutto questo mai altro che figliuola d’un piccardo si disse. Il giovane guerì e fece le nozze più lieto che altro uomo e cominciossi a dar buon tempo con lei.

Perotto, il quale in Gales col maliscalco del re d’Inghilterra era rimaso, similmente crescendo venne in grazia del signor suo e divenne di persona bellissimo e pro’ quanto alcuno altro che nell’isola fosse, in tanto che né in tornei né in giostre né in qualunque altro atto d’arme niuno v’era nel paese che quello valesse che egli; per che per tutto, chiamato da loro Perotto il piccardo, era conosciuto e famoso. E come Idio la sua sorella dimenticata non avea, così similmente d’aver lui a mente dimostrò: per ciò che, venuta in quella contrada una pistilenziosa mortalità, quasi la metà della gente di quella se ne portò, senza che grandissima parte del rimaso per paura in altre contrade se ne fuggirono, di che il paese tutto pareva abandonato. Nella quale mortalità il maliscalco suo signore e la donna di lui e un suo figliuolo e molti altri e fratelli e nepoti e parenti tutti morirono, né altro che una damigella già da marito di lui rimase e con alcuni altri famigliari Perotto. Il quale, cessata alquanto la pestilenza, la damigella, per ciò che prod’uomo e valente era, con piacere e consiglio d’alquanti pochi paesani vivi rimasi per marito prese, e di tutto ciò che a lei per eredità scaduto era il fece signore; né guari di tempo passò che, udendo il re d’Inghilterra il maliscalco esser morto e conoscendo il valor di Perotto il piccardo, in luogo di quello che morto era il substituì e fecelo suo maliscalco. E così brievemente avvenne de’ due innocenti figliuoli del conte d’Anguersa da lui per perduti lasciati.

Era già il diceottesimo anno passato poi che il conte d’Anguersa fuggito di Parigi s’era partito, quando a lui dimorante in Irlanda, avendo in assai misera vita molte cose patite, già vecchio veggendosi, venne voglia di sentire, se egli potesse, quello che de’ figliuoli fosse adivenuto. Per che, del tutto della forma della quale esser solea veggendosi trasmutato e sentendosi per lo lungo essercizio più della persona atante che quando giovane in ozio dimorando non era, partitosi assai povero e male in arnese da colui col quale lungamente era stato, se ne venne in Inghilterra e là se ne andò dove Perotto avea lasciato; e trovò lui essere maliscalco e gran signore, e videlo sano e atante e bello della persona: il che gli aggradì forte ma farglisi cognoscere non volle infino a tanto che saputo non avesse della Giannetta. Per che, messosi in cammino, prima non ristette che in Londra pervenne: e quivi, cautamente domandato della donna alla quale la figliuola lasciata avea e del suo stato, trovò la Giannetta moglie del figliuolo, il che forte gli piacque e ogni sua avversità preterita reputò piccola, poi che vivi aveva ritrovati i figliuoli e in buono stato. E disideroso di poterla vedere, cominciò come povero uomo a ripararsi vicino alla casa di lei; dove un giorno veggendol Giachetto Lamiens, che così era chiamato il marito della Giannetta, avendo di lui compassione per ciò che povero e vecchio il vide, comandò a uno de’ suoi famigliari che nella sua casa il menasse e gli facesse dare da mangiar per Dio. Il che il famigliare volentier fece.

Aveva la Giannetta avuti di Giachetto già più figliuoli, de’ quali il maggiore non avea oltre a otto anni, e erano i più belli e i più vezzosi fanciulli del mondo; li quali, come videro il conte mangiare, così tutti quanti gli fur dintorno e cominciarongli a far festa, quasi da occulta virtù mossi avesser sentito costui loro avolo essere. Il quale, suoi nepoti cognoscendoli, cominciò loro a mostrare amore e a far carezze: per la qual cosa i fanciulli da lui non si volean partire, quantunque colui che al governo di loro attendea gli chiamasse. Per che la Giannetta, ciò sentendo, uscì d’una camera e quivi venne là dove era il conte e minacciogli forte di battergli se quello che il lor maestro volea non facessero. I fanciulli cominciarono a piagnere e a dire ch’essi volevano stare appresso a quel prod’uomo, il quale più che il lor maestro gli amava: di che e la donna e ’l conte si rise. Erasi il conte levato, non miga a guisa di padre ma di povero uomo, a fare onore alla figliuola sì come a donna, e maraviglioso piacere veggendola avea sentito nell’animo; ma ella né allora né poi il conobbe punto, per ciò che oltre modo era trasformato da quello che esser soleva, sì come colui che vecchio e canuto e barbuto era, e magro e bruno divenuto, e più tosto un altro uomo pareva che il conte. E veggendo la donna che i fanciulli da lui partire non si voleano, ma volendonegli partir piangevano, disse al maestro che alquanto gli lasciasse stare.

 

Standosi adunque i fanciulli col prod’uomo, avvenne che il padre di Giachetto tornò e dal maestro loro sentì questo fatto: per che egli, il quale a schifo avea la Giannetta, disse: «Lasciagli star con la mala ventura che Dio dea loro, ché essi fanno ritratto da quello onde nati sono: essi son per madre discesi di paltoniere, e per ciò non è da maravigliarsi se volentier dimoran co’ paltonieri.»

Queste parole udì il conte e dolfergli forte; ma pure nelle spalle ristretto, così quella ingiuria sofferse come molte altre sostenute n’avea. Giachetto, che sentita aveva la festa che i figliuoli al prod’uomo, cioè al conte, facevano, quantunque gli dispiacesse, nondimeno tanto gli amava, che avanti che piagner gli vedesse comandò che, se ’l prod’uomo a alcun servigio là entro dimorar volesse, che egli vi fosse ricevuto. Il quale rispose che vi rimanea volentieri, ma che altra cosa far non sapea che attendere a’ cavalli, di che tutto il tempo della sua vita era usato. Assegnatoli adunque un cavallo, come quello governato avea, al trastullare i fanciulli intendea.

Mentre che la fortuna, in questa guisa che divisata è, il conte d’Anguersa e i figliuoli menava, avvenne che il re di Francia, molte triegue fatte con gli alamanni, morì, e in suo luogo fu coronato il figliuolo, del quale colei era moglie per cui il conte era stato cacciato. Costui, essendo l’ultima triegua finita co’ tedeschi, rincominciò asprissima guerra: in aiuto del quale, sì come nuovo parente, il re d’Inghilterra mandò molta gente sotto il governo di Perotto suo maliscalco e di Giachetto Lamiens, figliuolo dell’altro maliscalco: col quale il prod’uomo, cioè il conte, andò, e senza essere da alcuno riconosciuto dimorò nell’oste per buono spazio a guisa di ragazzo; e quivi, come valente uomo, e con consigli e con fatti, più che a lui non si richiedea, assai di bene adoperò.

Avvenne durante la guerra che la reina di Francia infermò gravemente; e conoscendo ella se medesima venire alla morte, contrita d’ogni suo peccato divotamente si confessò dall’arcivescovo di Ruem, il quale da tutti era tenuto un santissimo e buono in uomo, e tra gli altri peccati gli narrò ciò che per lei a gran torto il conte d’Anguersa ricevuto avea. Né solamente fu a lui contenta di dirlo, ma davanti a molti altri valenti uomini tutto come era stato riraccontò, pregandogli che col re operassono che ’l conte, se vivo fosse, e se non, alcun de’ suoi figliuoli, nel loro stato restituiti fossero: né guari poi dimorò che, di questa vita passata, onorevolmente fu sepellita.

La quale confessione al re raccontata, dopo alcun doloroso sospiro delle ingiurie fatte al valente uomo a torto, il mosse a fare andare per tutto lo essercito, e oltre a ciò in molte altre parti, una grida: che chi il conte d’Anguersa o alcuno de’ figliuoli gli rinsegnasse, maravigliosamente da lui per ognuno guiderdonato sarebbe, con ciò fosse cosa che egli lui per innocente di ciò per che in essilio andato era l’avesse per la confessione fatta dalla reina, e nel primo stato e in maggiore intendeva di ritornarlo. Le quali cose il conte in forma di ragazzo udendo e sentendo che così era il vero, subitamente fu a Giachetto e il pregò che con lui insieme fosse con Perotto, per ciò che egli voleva loro mostrare ciò che il re andava cercando.

Adunati adunque tutti e tre insieme, disse il conte a Perotto, che già era in pensiero di palesarsi: «Perotto, Giachetto, che è qui, ha tua sorella per mogliere né mai n’ebbe alcuna dota; e per ciò, acciò che tua sorella senza dote non sia, io intendo che egli e non altri abbia questo beneficio che il re promette così grande per te, e ti rinsegni sì come figliuolo del conte d’Anguersa, e per la Violante tua sorella e sua mogliere, e per me che il conte d’Anguersa e vostro padre sono.»

Perotto, udendo questo e fiso guardandolo, tantosto il riconobbe: e piagnendo gli si gittò a’ piedi e abbracciollo dicendo: «Padre mio, voi siate il molto ben venuto!»

Giachetto, prima udendo ciò che il conte detto avea e poi veggendo quello che Perotto faceva, fu a un’ora da tanta maraviglia e da tanta allegrezza soprapreso, che appena sapeva che far si dovesse. Ma pur, dando alle parole fede e vergognandosi forte di parole ingiuriose già da lui verso il conte ragazzo usate, piagnendo gli si lasciò cadere a’ piedi e umilmente d’ogni oltraggio passato domandò perdonanza: la quale il conte assai benignamente, in piè rilevatolo, gli diede. E poi che i varii casi di ciascuno tutti e tre ragionati ebbero, e molto piantosi e molto rallegratosi insieme, volendo Perotto e Giachetto rivestire il conte, per niuna maniera il sofferse ma volle che, avendo prima Giachetto certezza d’avere il guiderdon promesso, così fatto e in quello abito di ragazzo, per farlo più vergognare, gliele presentasse.

Giachetto adunque col conte e con Perotto appresso venne davanti al re e offerse di presentargli il conte e i figliuoli, dove, secondo la grida fatta, guiderdonare il dovesse. Il re prestamente per tutti fece il guiderdon venire maraviglioso agli occhi di Giachetto, e comandò che via il portasse dove con verità il conte e’ figliuoli dimostrasse come promettea. Giachetto allora, voltatosi indietro e davanti messisi il conte suo ragazzo e Perotto, disse: «Monsignore, ecco qui il padre e ’l figliuolo; la figliuola, ch’è mia mogliere e non è qui, con l’aiuto di Dio tosto vedrete.»

Il re, udendo questo, guardò il conte: e quantunque molto da quello che esser solea transmutato fosse, pur dopo l’averlo alquanto guardato il riconobbe, e quasi con le lagrime in su gli occhi lui che ginocchione stava levò in piede e il basciò e abracciò; e amichevolmente ricevette Perotto, e comandò che incontanente il conte di vestimenti, di famiglia e di cavalli e d’arnesi rimesso fosse in assetto, secondo che alla sua nobilità si richiedea; la qual cosa tantosto fu fatta. Oltre a questo, onorò il re molto Giachetto e volle ogni cosa sapere di tutti i suoi preteriti casi; e quando Giachetto prese gli alti guiderdoni per l’avere insegnati il conte e’ figliuoli, gli disse il conte: «Prendi cotesti doni dalla magnificenza di monsignore lo re, e ricordera’ti di dire a tuo padre che i tuoi figliuoli, suoi e miei nepoti, non son per madre nati di paltoniere.»

Giachetto prese i doni e fece a Parigi venir la moglie e la suocera, e vennevi la moglie di Perotto; e quivi in grandissima festa furono col conte, il quale il re avea in ogni suo ben rimesso, e maggior fattolo che fosse già mai; poi ciascuno con la sua licenzia tornò a casa sua. E esso infino alla morte visse in Parigi più gloriosamente che mai.

NOVELLA NONA

Bernabò da Genova, da Ambruogiuolo ingannato, perde il suo e comanda che la moglie innocente sia uccisa; ella scampa e in abito d’uomo serve il soldano: ritrova lo ’ngannatore e Bernabò conduce in Alessandria, dove, lo ’ngannatore punito, ripreso abito feminile, col marito ricchi si tornano a Genova.

Avendo Elissa con la sua compassionevole novella il suo dover fornito, Filomena reina, la quale bella e grande era della persona e nel viso più che altra piacevole e ridente, sopra sé recatasi, disse: – Servar si vogliono i patti a Dioneo, e però, non restandoci altri che egli e io a novellare, io dirò prima la mia e esso, che di grazia il chiese, l’ultimo fia che dirà. – E questo detto così cominciò.

Suolsi tra’ volgari spesse volte dire un cotal proverbio: che lo ’ngannatore rimane a piè dello ’ngannato; il quale non pare che per alcuna ragione si possa mostrare esser vero, se per gli accidenti che avvengono non si mostrasse. E per ciò, seguendo la proposta, questo insiememente, carissime donne, esser vero come si dice m’è venuto in talento di dimostrarvi; né vi dovrà esser discaro d’averlo udito, acciò che dagl’ingannatori guardar vi sappiate.

Erano in Parigi in uno albergo alquanti grandissimi mercatanti italiani, qual per una bisogna e qual per un’altra, secondo la loro usanza; e avendo una sera fra l’altre tutti lietamente cenato, cominciarono di diverse cose a ragionare, e d’un ragionamento in altro travalicando pervennero a dire delle lor donne, le quali alle lor case avevan lasciate.

E motteggiando cominciò alcuno a dire: «Io non so come la mia si fa: ma questo so io bene, che quando qui mi viene alle mani alcuna giovinetta, che mi piaccia, io lascio stare dall’un de’ lati l’amore il quale io porto a mia mogliere e prendo di questa qua quello piacere che io posso.»

L’altro rispose: «E io fo il simigliante, per ciò che se io credo che la mia donna alcuna sua ventura procacci, ella il fa, e se io nol credo, sì ’l fa; e per ciò a fare a far sia: quale asino dà in parete, tal riceve.»

Il terzo quasi in questa medesima sentenza parlando pervenne: e brievemente tutti pareva che a questo s’accordassero, che le donne lasciate da loro non volessero perder tempo.

Un solamente, il quale avea nome Bernabò Lomellin da Genova, disse il contrario, affermando sé di spezial grazia da Dio avere una donna per moglie la più compiuta di tutte quelle virtù che donna o ancora cavaliere in gran parte o donzello dee avere, che forse in Italia ne fosse un’altra: per ciò che ella era bella del corpo e giovane ancora assai e destra e atante della persona, né alcuna cosa era che a donna appartenesse, sì come di lavorare lavorii di seta e simili cose, che ella non facesse meglio che alcuna altra. Oltre a questo, niuno scudiere, o famigliare che dir vogliamo, diceva trovarsi il quale meglio né più accortamente servisse a una tavola d’un signore, che serviva ella, sì come colei che era costumatissima, savia e discreta molto. Appresso questo la commendò meglio saper cavalcare un cavallo, tenere uno uccello, leggere e scrivere e fare una ragione che se un mercatante fosse; e da questo, dopo molte altre lode, pervenne a quello di che quivi si ragionava, affermando con saramento niuna altra più onesta né più casta potersene trovar di lei; per la qual cosa egli credeva certamente che, se egli diece anni o sempre mai fuori di casa dimorasse, che ella mai a così fatte novelle non intenderebbe con altro uomo.

Era tra questi mercatanti che così ragionavano un giovane mercatante chiamato Ambruogiuolo da Piagenza, il quale di questa ultima loda che Bernabò avea data alla sua donna cominciò a far le maggior risa del mondo; e gabbando il domandò se lo ’mperadore gli avea questo privilegio più che a tutti gli altri uomini conceduto. Bernabò un poco turbatetto disse che non lo ’mperadore ma Idio, il quale poteva un poco più che lo ’mperadore, gli avea questa grazia conceduta.

Allora disse Ambruogiuolo: «Bernabò, io non dubito punto che tu non ti creda dir vero, ma, per quello che a me paia, tu hai poco riguardato alla natura delle cose, per ciò che, se riguardato v’avessi, non ti sento di sì grosso ingegno, che tu non avessi in quella cognosciute cose che ti farebbono sopra questa materia più temperatamente parlare. E per ciò che tu non creda che noi, che molto largo abbiamo delle nostre mogli parlato, crediamo avere altra moglie o altramenti fatta che tu, ma da un naturale avvedimento mossi così abbian detto, voglio un poco con teco sopra questa materia ragionare. Io ho sempre inteso l’uomo essere il più nobile animale che tra’ mortali fosse creato da Dio, e appresso la femina; ma l’uomo, sì come generalmente si crede e vede per opere, è più perfetto; e avendo più di perfezione, senza alcun fallo dee avere più di fermezza e così ha, per ciò che universalmente le femine sono più mobili, e il perché si potrebbe per molte ragioni naturali dimostrare, le quali al presente intendo di lasciare stare. Se l’uomo adunque è di maggior fermezza e non si può tenere che non condiscenda, lasciamo stare a una che ’l prieghi, ma pure a non disiderare una che gli piaccia, e, oltre al disidero, di far ciò che può acciò che con quella esser possa, e questo non una volta il mese ma mille il giorno avvenirgli: che speri tu che una donna, naturalmente mobile, possa fare a’ prieghi, alle lusinghe, a’ doni, a’ mille altri modi che userà uno uom savio che l’ami? credi che ella si possa tenere? Certo, quantunque tu te l’affermi, io non credo che tu il creda; e tu medesimo di’ che la moglie tua è femina e ch’ella è di carne e d’ossa come son l’altre. Per che, se così è, quegli medesimi disideri deono essere i suoi o quelle medesime forze che nell’altre sono a resistere a questi naturali appetiti; per che possibile è, quantunque ella sia onestissima, che ella quello che l’altre faccia, e niuna cosa possibile è così acerbamente da negare, o da affermare il contrario a quella, come tu fai.»

 

Al quale Bernabò rispose e disse: «Io son mercatante e non fisofolo, e come mercatante risponderò. E dico che io conosco ciò che tu di’ potere avvenire alle stolte, nelle quali non è alcuna vergogna; ma quelle che savie sono hanno tanta sollecitudine dello onor loro, che elle diventan forti più che gli uomini, che di ciò non si curano, a guardarlo; e di queste così fatte è la mia.»

Disse Ambruogiuolo: «Veramente se per ogni volta che elle a queste così fatte novelle attendono nascesse loro un corno nella fronte, il quale desse testimonianza di ciò che fatto avessero, io mi credo che poche sarebber quelle che v’atendessero; ma, non che il corno nasca, egli non se ne pare, a quelle che savie sono, né pedata né orma, e la vergogna e ’l guastamento dell’onore non consiste se non nelle cose palesi: per che, quando possono occultamente, il fanno, o per mattezza lasciano. E abbi questo per certo: che colei sola è casta la quale o non fu mai da alcuno pregata o se pregò non fu essaudita. E quantunque io conosca per naturali e vere ragioni così dovere essere, non ne parlere’ io così a pieno, come io fo, se io non ne fossi molte volte e con molte stato alla pruova. E dicoti così, che, se io fossi presso a questa tua così santissima donna, io mi crederei in brieve spazio di tempo recarla a quello che io ho già dell’altre recate.»

Bernabò turbato rispose: «Il quistionar con parole potrebbe distendersi troppo: tu diresti e io direi, e alla fine niente monterebbe. Ma poi che tu di’ che tutte sono così pieghevoli e che tuo ingegno è cotanto, acciò che io ti faccia certo della onestà della mia donna, io son disposto che mi sia tagliata la testa se tu mai a cosa che ti piaccia in cotale atto la puoi conducere; e se tu non puoi, io non voglio che tu perda altro che mille fiorin d’oro.»

Ambruogiuolo, già in su la novella riscaldato, rispose: «Bernabò, io non so quello che io mi facessi del tuo sangue, se io vincessi; ma se tu hai voglia di vedere pruova di ciò che io ho già ragionato, metti cinquemilia fiorin d’oro de’ tuoi, che meno ti deono essere cari che la testa, contro a mille de’ miei; e dove tu niuno termine poni, io mi voglio obligare d’andare a Genova e infra tre mesi dal dì che io mi partirò di qui avere della tua donna fatta mia volontà, e in segno di ciò recarne meco delle sue cose più care e sì fatti e tanti indizii, che tu medesimo confesserai esser vero, sì veramente che tu mi prometterai sopra la tua fede infra questo termine non venire a Genova né scrivere a lei alcuna cosa di questa materia.»

Bernabò disse che gli piacea molto; e quantunque gli altri mercatanti che quivi erano s’ingegnassero di sturbar questo fatto, conoscendo che gran male ne potea nascere, pure erano de’ due mercatanti sì gli animi accesi, che, oltre al voler degli altri, per belle scritte di lor mano s’obligarono l’uno all’altro.

E fatta la obligagione, Bernabò rimase e Ambruogiuolo quanto più tosto poté se ne venne a Genova; e dimoratovi alcun giorno e con molta cautela informatosi del nome della contrada e de’ costumi della donna, quello e più ne ’ntese che da Bernabò udito n’avea: per che gli parve matta impresa aver fatta. Ma pure, accontatosi con una povera femina che molto nella casa usava e a cui la donna voleva gran bene, non potendola a altro inducere, con denari la corruppe e a lei in una cassa artificiata a suo modo si fece portare non solamente nella casa ma nella camera della gentil donna; e quivi, come se in alcuna parte andar volesse, la buona femina, secondo l’ordine datole da Ambruogiuolo, la raccomandò per alcun dì.

Rimasa adunque la cassa nella camera e venuta la notte, allora che Ambruogiuolo avvisò che la donna dormisse, con certi suoi ingegni apertala, chetamente nella camera uscì nella quale un lume acceso avea; per la qual cosa egli il sito della camera, le dipinture e ogni altra cosa notabile che in quella era cominciò a raguardare e a fermare nella sua memoria. Quindi, avvicinatosi al letto e sentendo che la donna e una piccola fanciulla che con lei era dormivan forte, pianamente scopertala tutta, vide che così era bella ignuda come vestita, ma niuno segnale da potere rapportare le vide, fuori che uno che ella n’avea sotto la sinistra poppa, ciò era un neo dintorno al quale erano alquanti peluzzi biondi come oro; e ciò veduto, chetamente la ricoperse, come che, così bella vedendola, in disiderio avesse di mettere in avventura la vita sua e coricarlesi allato. Ma pure, avendo udito lei essere così cruda e alpestra intorno a quelle novelle, non s’arrischiò. E statosi la maggior parte della notte per la camera a suo agio, una borsa e una guarnacca d’un suo forzier trasse e alcuno anello e alcuna cintura, e ogni cosa nella cassa sua messa, egli altressì vi si ritornò e così la serrò come prima stava; e in questa maniera fece due notti senza che la donna di niente s’accorgesse. Vegnente il terzo dì, secondo l’ordine dato, la buona femina tornò per la cassa sua e colà la riportò onde levata l’avea; della quale Ambruogiuolo uscito, e contentata secondo la promessa la femina, quanto più tosto poté con quelle cose si tornò a Parigi avanti il termine preso.

Quivi, chiamati que’ mercatanti che presenti erano stati alle parole e al metter de’ pegni, presente Bernabò, disse sé aver vinto il pegno tra lor messo per ciò che fornito aveva quello di che vantato s’era: e che ciò fosse vero, primieramente disegnò la forma della camera e le dipinture di quella, e appresso mostrò le cose che di lei n’aveva seco recate affermando da lei averle avute. Confessò Bernabò così essere fatta la camera come diceva e oltre a ciò sé riconoscere quelle cose veramente della sua donna essere state; ma disse lui aver potuto da alcuno de’ fanti della casa sapere la qualità della camera e in simil maniera avere avute le cose; per che, se altro non dicea, non gli parea che questo bastasse a dovere aver vinto.

Per che Ambruogiuolo disse: «Nel vero questo doveva bastare: ma poi che tu vuogli che io più avanti ancora dica, e io il dirò. Dicoti che madonna Zinevra tua mogliere ha sotto la sinistra poppa un neo ben grandicello, dintorno al quale son forse sei peluzzi biondi come oro.»

Quando Bernabò udì questo, parve che gli fosse dato d’un coltello al cuore, sì fatto dolore sentì: e tutto nel viso cambiato, eziandio se parola non avesse detta, diede assai manifesto segnale ciò esser vero che Ambruogiuolo diceva; e dopo alquanto disse: «Signori, ciò che Ambruogiuolo dice è vero; e per ciò, avendo egli vinto, venga qualor gli piace e sì si paghi.» E così fu il dì seguente Ambruogiuolo interamente pagato.