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Decameron

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NOVELLA SECONDA

Frate Alberto dà a vedere a una donna che l’agnol Gabriello è di lei innamorato, in forma del quale più volte si giace con lei; poi, per paura de’ parenti di lei della casa gittatosi, in casa d’un povero uomo ricovera, il quale in forma d’uom salvatico il dì seguente nella Piazza il mena: dove riconosciuto e da’ suoi frati preso, è incarcerato.

Aveva la novella dalla Fiammetta raccontata le lagrime più volte tirate infino in su gli occhi alle sue compagne; ma quella già essendo compiuta, il re con rigido viso disse: – Poco prezzo mi parrebbe la vita mia a dover dare per la metà diletto di quello che con Guiscardo ebbe Ghismunda, né se ne dee di voi maravigliare alcuna, con ciò sia cosa che io, vivendo, ogni ora mille morti sento, né per tutte quelle una sola particella di diletto m’è data. Ma lasciando al presente li miei fatti ne’ lor termini stare, voglio che ne’ fieri ragionamenti, e a’ miei accidenti in parte simili, Pampinea ragionando seguisca; la quale se, come Fiammetta ha cominciato, andrà appresso, senza dubbio alcuna rugiada cadere sopra il mio fuoco comincerò a sentire. – Pampinea, a sé sentendo il comandamento venuto, più per la sua affezione cognobbe l’animo delle compagne che quello del re per le sue parole: e per ciò, più disposta a dovere alquanto recrear loro che a dovere, fuori che del comandamento solo, il re contentare, a dire una novella, senza uscir del proposto, da ridere si dispose, e cominciò.

Usano i volgari un così fatto proverbio: «Chi è reo e buono è tenuto, può fare il male e non è creduto»; il quale ampia materia a ciò che m’è stato proposto mi presta di favellare, e ancora a dimostrare quanta e quale sia la ipocresia de’ religiosi, li quali co’ panni larghi e lunghi e co’ visi artificialmente palidi e con le voci umili e mansuete nel dimandar l’altrui, e altissime e rubeste in mordere negli altri li loro medesimi vizii e nel mostrar sé per torre e altri per lor donare venire a salvazione; e oltre a ciò, non come uomini che il Paradiso abbiano a procacciare come noi, ma quasi come possessori e signori di quello danti a ciaschedun che muore, secondo la quantità de’ denari loro lasciata da lui, più e meno eccellente luogo, con questo prima se medesimo, se così credono, e poscia coloro che in ciò alle loro parole dan fede sforzandosi d’ingannare. De’ quali se quanto si convenisse fosse licito a me di mostrare, tosto dichiarerei a molti semplici quello che nelle lor cappe larghissime tengan nascoso. Ma ora fosse piacere di Dio che così delle loro bugie a tutti intervenisse come a un frate minore, non miga giovane, ma di quelli che de’ maggior cassesi era tenuto a Vinegia: del quale sommamente mi piace di raccontare, per alquanto gli animi vostri pieni di compassione per la morte di Ghismunda forse con risa e con piacer rilevare.

Fu adunque, valorose donne, in Imola uno uomo di scelerata vita e di corrotta, il quale fu chiamato Berto della Massa, le cui vituperose opere molto dagl’imolesi conosciute a tanto il recarono, che, non che la bugia ma la verità non era in Imola chi gli credesse: per che, accorgendosi quivi più le sue gherminelle non aver luogo, come disperato a Vinegia, d’ogni bruttura ricevitrice, si trasmutò e quivi pensò di trovare altra maniera al suo malvagio adoperare che fatto non aveva in altra parte. E, quasi da coscienza rimorso delle malvage opere nel preterito fatte da lui, da somma umilità soprapreso mostrandosi e oltre a ogni altro uomo divenuto catolico, andò e sì si fece frate minore e fecesi chiamare frate Alberto da Imola: e in tale abito cominciò a far per sembianti una aspra vita e a commendar molto la penitenzia e l’astinenzia, né mai carne mangiava né bevea vino, quando no’ n’avea che gli piacesse. Né se ne fu appena avveduto alcuno, che di ladrone, di ruffiano, di falsario, d’omicida subitamente fu un gran predicator divenuto, senza aver per ciò i predetti vizii abbandonati, quando nascosamente gli avesse potuti mettere in opera; e oltre a ciò fattosi prete, sempre all’altare quando celebrava, se da molti veduto era, piagneva la passione del Salvatore, sì come colui al quale poco costavan le lagrime quando le volea. E in brieve, tra con le sue prediche e le sue lagrime, egli seppe in sì fatta guisa li viniziani adescare, che egli quasi d’ogni testamento che vi si faceva era fedel commessario e dipositario, e guardatore di denari di molti, confessore e consigliatore quasi della maggior parte degli uomini e delle donne: e così faccendo, di lupo era divenuto pastore e era la sua fama di santità in quelle parti troppo maggiore che mai non fu di san Francesco a Ascesi.

Ora avvenne che una giovane donna bamba e sciocca, che chiamata fu madonna Lisetta da ca’ Quirino, moglie d’un gran mercatante che era andato con le galee in Fiandra, s’andò con altre donne a confessar da questo santo frate; la quale essendogli a’ piedi, sì come colei che viniziana era, e essi son tutti bergoli, avendo parte detta de’ fatti suoi, fu da frate Alberto adomandata se alcuno amadore avesse.

Al quale ella con un mal viso rispose: «Deh, messer lo frate, non avete voi occhi in capo? paionvi le mie bellezze fatte come quelle di queste altre? Troppi n’avrei degli amadori se io ne volessi; ma non son le mie bellezze da lasciare amare da tale né da quale. Quante ce ne vedete voi le cui bellezze sien fatte come le mie? ché sarei bella nel Paradiso.» E oltre a ciò disse tante cose di questa sua bellezza, che fu un fastidio a udire.

Frate Alberto conobe incontanente che costei sentia dello scemo, e parendogli terreno da’ ferri suoi, di lei subitamente e oltre modo s’innamorò. Ma riserbandosi in più commodo tempo le lusinghe, pur per mostrarsi santo quella volta cominciò a volerla riprendere e a dirle che questa era vanagloria e altre sue novelle; per che la donna gli disse che egli era una bestia e che egli non conosceva che si fosse più una bellezza che un’altra. Per che frate Alberto, non volendola troppo turbare, fattale la confessione, la lasciò andar via con l’altre.

E stato alquanti dì, preso un suo fido compagno, n’andò a casa madonna Lisetta: e, trattosi da una parte in una sala con lei e non potendo da altri esser veduto, le si gittò davanti inginocchione e disse: «Madonna, io vi priego per Dio che voi mi perdoniate di ciò che io domenica, ragionandomi voi della vostra bellezza, vi dissi, per ciò che sì fieramente la notte seguente gastigato ne fui, che mai poscia da giacere non mi son potuto levar se non oggi.»

Disse allora donna mestola: «E chi ve ne gastigò così?»

Disse frate Alberto: «Io il vi dirò. Standomi io la notte in orazione, sì come io soglio star sempre, io vidi subitamente nella mia cella un grande splendore, né prima mi pote’ volger per veder che ciò fosse, che io mi vidi sopra un giovane bellissimo con un grosso bastone in mano, il quale, presomi per la cappa e tiratomisi a’ piè, tante mi diè, che tutto mi ruppe. Il quale io appresso domandai perché ciò fatto avesse, e egli rispose: «Per ciò che tu presummesti oggi di riprendere le celestiali bellezze di madonna Lisetta, la quale io amo, da Dio in fuori, sopra ogni altra cosa». E io allora domandai: «Chi siete voi?» A cui egli rispose che era l’agnol Gabriello. «O signor mio», diss’io «io vi priego che voi mi perdoniate». E egli allora disse: «E io ti perdono per tal convenente, che tu a lei vadi come tu prima potrai e facciti perdonare: e dove ella non ti perdoni, io ci tornerò e darottene tante, che io ti farò tristo per tutto il tempo che tu ci viverai». Quello che egli poi mi dicesse, io non ve l’oso dire, se prima non mi perdonate.»

Donna zucca al vento, la quale era anzi che no un poco dolce di sale, godeva tutta udendo queste parole e verissime tutte le credea; e dopo alquanto disse: «Io vi diceva ben, frate Alberto, che le mie bellezze eran celestiali; ma, se Dio m’aiuti, di voi m’incresce, e infino a ora, acciò che più non vi sia fatto male, io vi perdono, sì veramente che voi mi diciate ciò che l’angelo poi vi disse.»

Frate Alberto disse: «Madonna, poi che perdonato m’avete, io il vi dirò volentieri; ma una cosa vi ricordo, che cosa che io vi dica voi vi guardiate di dire a alcuna persona che sia nel mondo, se voi non volete guastare i fatti vostri, che siete la più avventurata donna che oggi sia al mondo. Questo agnol Gabriello mi disse che io vi dicessi che voi gli piacete tanto, che più volte a starsi con voi venuto la notte sarebbe, se non fosse per non ispaventarvi. Ora vi manda egli dicendo per me che a voi vuol venire una notte e dimorarsi una pezza con voi; e per ciò che egli è agnolo e venendo in forma d’agnolo voi nol potreste toccare, dice che per diletto di voi vuol venire in forma d’uomo, e per ciò dice che voi gli mandiate a dire quando volete che egli venga e in forma di cui, e egli ci verrà: di che voi, più che altra donna che viva, tener vi potete beata.»

Madonna baderla allora disse che molto le piaceva se l’agnolo Gabriello l’amava, per ciò che ella amava ben lui, né era mai che una candela d’un mattapan non gli accendesse davanti dove dipinto il vedea; e che, qualora egli volesse a lei venire, egli fosse il ben venuto, ché egli la troverebbe tutta sola nella sua camera: ma con questo patto, che egli non dovesse lasciar lei per la Vergine Maria, ché l’era detto che egli le voleva molto bene, e anche si pareva, ché in ogni luogo che ella il vedeva le stava ginocchione innanzi; e oltre a questo, che a lui stesse di venire in qual forma volesse, pure che ella non avesse paura.

Allora disse frate Alberto: «Madonna, voi parlate saviamente, e io ordinerò ben con lui quello che voi mi dite. Ma voi mi potete fare una gran grazia, e a voi non costerà niente: e la grazia è questa, che voi vogliate che egli venga con questo mie corpo. E udite in che voi mi farete grazia: che egli mi trarrà l’anima mia di corpo e metteralla in Paradiso, e egli entrerà in me, e quanto egli starà con voi, tanto si starà l’anima mia in Paradiso.»

 

Disse allora donna pocofila: «Ben mi piace; io voglio che, in luogo delle busse le quali egli vi diede a mie cagioni, che voi abbiate questa consolazione.»

Allora disse frate Alberto: «Or farete che questa notte egli truovi la porta della vostra casa per modo che egli possa entrarci, per ciò che vegnendo in corpo umano, come egli verrà, non potrebbe entrarci se non per l’uscio.»

La donna rispose che fatto sarebbe. Frate Alberto si partì, e ella rimase faccendo sì gran galloria, che non le toccava il cul la camiscia, mille anni parendole che l’agnolo Gabriello a lei venisse. Frate Alberto, pensando che cavaliere, non agnolo, esser gli convenia la notte, con confetti e altre buone cose s’incominciò a confortare, acciò che di leggiere non fosse da caval gittate; e avuta la licenzia, con un compagno, come notte fu, se n’entrò in casa d’una sua amica, dalla quale altra volta aveva prese le mosse quando andava a correr le giumente: e di quindi, quando tempo gli parve, trasformato se n’andò a casa della donna, e in quella entrato, con sue frasche che portate aveva, in agnolo si trasfigurò, e salitose suso, se n’entrò nella camera della donna.

La quale, come questa cosa così bianca vide, gli s’inginocchiò innanzi, e l’agnolo la benedisse e levolla in piè e fecele segno che a letto s’andasse; il che ella, volonterosa d’ubidire, fece prestamente, e l’agnolo appresso con la sua divota si coricò. Era frate Alberto bell’uomo del corpo e robusto, e stavangli troppo bene le gambe in su la persona; per la qual cosa con donna Lisetta trovandosi, che era fresca e morbida, altra giacitura faccendole che il marito, molte volte la notte volò senza ali, di che ella forte si chiamò per contenta, e oltre a ciò molte cose le disse della gloria celestiale. Poi, appressandosi il dì, dato ordine al ritornare, co’ suoi arnesi fuor se n’uscì e tornossi al compagno suo, al quale, acciò che paura non avesse dormendo solo, aveva la buona femina della casa fatta amichevole compagnia.

La donna, come desinato ebbe, presa sua compagnia se n’andò a frate Alberto e novelle gli disse dell’agnol Gabriello e ciò che da lui udito avea della gloria di vita eterna e come egli era fatto, aggiugnendo oltre a questo maravigliose favole.

A cui frate Alberto disse: «Madonna, io non so come voi vi steste con lui; so io bene che stanotte, vegnendo egli a me e io avendogli fatta la vostra ambasciata, egli ne portò subitamente l’anima mia tra tanti fiori e tra tante rose, che mai non se ne videro di qua tante, e stettimi in un de’ più dilettevoli luoghi che fosse mai infino à stamane a matutino: quello che il mio corpo si divenisse, io non so.»

«Non vel dich’ io?» disse la donna «il vostro corpo stette tutta notte in braccio mio con l’agnol Gabriello; e se voi non mi credete, guateretevi sotto la poppa manca, là dove io diedi un grandissimo bascio all’agnolo, tale che egli vi si parrà il segnale parecchi dì.»

Disse allora frate Alberto: «Ben farò oggi una cosa che io non feci già è gran tempo più, che io mi spoglierò per vedere se voi dite il vero.»

E dopo molto cianciare la donna se ne tornò a casa; alla quale in forma d’agnolo frate Alberto andò poi molte volte senza alcuno impedimento ricevere.

Pure avvenne un giorno che, essendo madonna Lisetta con una sua comare e insieme di bellezze quistionando, per porre la sua innanzi a ogni altra, sì come colei che poco sale avea in zucca, disse: «Se voi sapeste a cui la mia bellezza piace, in verità voi tacereste dell’altre.»

La comare, vaga d’udire, sì come colei che ben la conoscea, disse: «Madonna, voi potreste dir vero, ma tuttavia, non sappiendo chi questo si sia, altri non si rivolgerebbe così di leggiero.»

Allora la donna, che piccola levatura avea, disse: «Comare, egli non si vuol dire, ma lo ’ntendimento mio è l’agnolo Gabriello, il quale più che sé m’ama, sì come la più bella donna, per quello che egli mi dica, che sia nel mondo o in Maremma.»

La comare ebbe allora voglia di ridere ma pur si tenne per farla più avanti parlare, e disse: «In fé di Dio, madonna, se l’agnolo Gabriello è vostro intendimento e dicevi questo, egli dee bene esser così; ma io non credeva che gli agnoli facesson queste cose.»

Disse la donna: «Comare, voi siete errata: per le plaghe di Dio, egli il fa meglio che mio marido e dicemi che egli si fa anche colassù; ma, per ciò che io gli paio più bella che niuna che ne sia in cielo, s’è egli innamorato di me e viensene a star con meco bene spesso: mo vedì vu?»

La comare, partita da madonna Lisetta, le parve mille anni che ella fosse in parte ove ella potesse queste cose ridire; e ragunatasi a una festa con una gran brigata di donne, loro ordinatamente raccontò la novella. Queste donne il dissero a’ mariti e a altre donne, e quelle a quell’altre, e così in meno di due dì ne fu tutta ripiena Vinegia. Ma tra gli altri a’ quali questa cosa venne agli orecchi furono i cognati di lei, li quali, sanza alcuna cosa dirle, si posero in cuore di trovar questo agnolo e di sapere se egli sapesse volare; e più notti stettero in posta.

Avvenne che di questo fatto alcuna novelluzza ne venne a frate Alberto agli orecchi; il quale, per riprender la donna una notte andatovi, appena spogliato s’era che i cognati di lei, che veduto l’avevan venire, furono all’uscio della sua camera per aprirlo. Il che frate Alberto sentendo, e avvisato ciò che era, levatosi né vedendo altro rifugio, aperse una finestra la qual sopra il maggior canal rispondea, e quindi si gittò nell’acqua. Il fondo v’era grande e egli sapeva ben notare, sì che male alcun non si fece: e notato dall’altra parte del canale, in una casa che aperta v’era prestamente se n’entrò, pregando un buono uomo che dentro v’era che per l’amor di Dio gli scampasse la vita, sue favole dicendo perché quivi a quella ora e ignudo fosse. Il buono uomo, mosso a pietà, convenendogli andare a far sue bisogne, nel suo letto il mise e dissegli che quivi infino alla sua tornata si stesse; e dentro serratolo, andò a fare i fatti suoi.

I cognati della donna entrati nella camera trovarono che l’agnol Gabriello, quivi avendo lasciate l’ali, se n’era volato: di che quasi scornati grandissima villania dissero alla donna, e lei ultimamente sconsolata lasciarono stare e a casa loro tornarsi con gli arnesi dell’agnolo. In questo mezzo, fattosi il dì chiaro, essendo il buono uomo in su il Rialto, udì dire come l’agnolo Gabriello era la notte andato a giacere con madonna Lisetta e, da’ cognati trovatovi, s’era per paura gittato nel canale, né si sapeva che divenuto se ne fosse: per che prestamente s’avisò colui che in casa avea esser desso. E là venutosene e riconosciutolo, dopo molte novelle con lui trovò modo che, s’egli non volesse che a’ cognati di lei il desse, gli facesse venire cinquanta ducati; e così fu fatto.

E appresso questo, disiderando frate Alberto d’uscir di quindi, gli disse il buono: «Qui non ha modo alcuno, se già in un non voleste. Noi facciamo oggi una festa, nella quale chi mena uno uomo vestito a modo d’orso e chi a guisa d’uom salvatico, e chi d’una cosa e chi d’un’altra, e in su la piazza di San Marco si fa una caccia, la qual fornita, è finita la festa; e poi ciascuno va, con quel che menato ha, dove gli piace. Se voi volete, anzi che spiar si possa che voi siate qui, che io in alcun di questi modi vi meni, io vi potrò menare dove voi vorrete; altrimenti non veggio come uscirci possiate che conosciuto non siate: e i cognati della donna, avvisando che voi in alcun luogo quincentro siate, per tutto hanno messe le guardie per avervi.»

Come che duro paresse a frate Alberto l’andare in cotal guisa, pur per la paura che aveva de’ parenti della donna vi si condusse: e disse a costui dove voleva esser menato, e come il menasse era contento. Costui, avendol già tutto unto di mele e empiuto di sopra di penna matta e messagli una catena in gola e una maschera in capo e datogli dall’una mano un gran bastone e dall’altra due gran cani che dal macello avea menati, mandò uno al Rialto che bandisse che chi volesse veder l’agnol Gabriello andasse in su la piazza di San Marco: e fu lealtà viniziana questa. E questo fatto, dopo alquanto il menò fuori e miseselo innanzi, e andandol tenendo per la catena di dietro, non senza gran romore di molti, che tutti dicean: «Che śè quel? che śè quel?», il condusse in su la Piazza, dove, tra quegli che venuti gli eran dietro e quegli ancora che, udito il bando, dal Rialto venuti v’erano, erano gente senza fine. Questi là pervenuto, in luogo rilevato e alto legò il suo uom salvatico a una colonna, sembianti faccendo d’attender la caccia; al quale le mosche e’ tafani, per ciò che di mele era unto, davan grandissima noia.

Ma poi che costui vide la Piazza ben piena, faccendo sembiante di volere scatenare il suo uom salvatico, a frate Alberto trasse la maschera dicendo: «Signori, poi che il porco non viene alla caccia, e non si fa, acciò che voi non siate venuti invano, io voglio che voi veggiate l’agnolo Gabriello, il quale di cielo in terra discende la notte a consolare le donne viniziane.» Come la maschera fu fuori, così fu frate Alberto incontanente da tutti conosciuto; contra al quale si levaron le grida di tutti, dicendogli le più vituperose parole e la maggior villania che mai a alcun ghiotton si dicesse, e oltre a questo per lo viso gittandogli chi una lordura e chi un’altra. E così grandissimo spazio il tennero, tanto che, per ventura la novella a’ suoi frati pervenuta, infino a sei di loro mossisi quivi vennero, e gittatagli una cappa indosso e scatenatolo, non senza grandissimo romor dietro, infino a casa loro nel menarono, dove, incarceratolo, dopo misera vita si crede che egli morisse.

Così costui, tenuto buono e male adoperando, non essendo creduto, ardì di farsi l’agnolo Gabriello, e di questo in uom salvatico convertito, a lungo andare, come meritato avea, vituperato senza pro pianse i peccati commessi. Così piaccia a Dio che a tutti gli altri possa intervenire.

NOVELLA TERZA

Tre giovani amano tre sorelle e con loro si fuggono in Creti: la maggiore per gelosia il suo amante uccide; la seconda concedendosi al duca di Creti scampa da morte la prima, l’amante della quale l’uccide e con la prima si fugge; ènne incolpato il terzo amante con la terza sirocchia e presi il confessano; e per tema di morire con moneta la guardia corrompono e fuggonsi poveri a Rodi; e in povertà quivi muoiono.

Filostrato, udita la fine del novellar di Pampinea, sovra se stesso alquanto stette e poi disse verso di lei: – Un poco di buono e che mi piacque fu nella fine della vostra novella; ma troppo più vi fu innanzi a quella da ridere, il che avrei voluto che stato non vi fosse —; poi alla Lauretta voltato disse: – Donna, seguite appresso con una migliore, se esser può. – La Lauretta ridendo disse: – Troppo siete contro agli amanti crudele, se pur malvagio fine disiderate di loro; e io, per ubidirvi, ne racconterò una di tre li quali igualmente mal capitarono, poco de’ loro amori essendo goduti. – E così detto, incominciò.

Giovani donne, sì come voi apertamente potete conoscere, ogni vizio può in gravissima noia tornar di colui che l’usa e molte volte d’altrui. E tra gli altri che con più abandonate redine ne’ nostri pericoli ne trasporta, mi pare che l’ira sia quello; la quale niuna altra cosa è che un movimento subito e inconsiderato, da sentita tristizia sospinto, il quale, ogni ragion cacciata e gli occhi della mente avendo di tenebre offuscati, in ferventissimo furore accende l’anima nostra. E come che questo sovente negli uomini avvenga, e più in uno che in un altro, nondimeno già con maggior danni s’è nelle donne veduto, per ciò che più leggiermente in quelle s’accende e ardevi con fiamma più chiara e con meno rattenimento le sospigne. Né è di ciò maraviglia, per ciò che, se raguardar vorremo, vedremo che il fuoco di sua natura più tosto nelle leggieri e morbide cose s’apprende, che nelle dure e più gravanti; e noi pur siamo (non l’abbiano gli uomini a male) più dilicate che essi non sono e molto più mobili. Laonde, veggendoci naturalmente a ciò inchinevoli, e appresso raguardato come la nostra mansuetudine e benignità sia di gran riposo e di piacere agli uomini co’ quali a costumare abbiamo, e così l’ira e il furore essere di gran noia e di pericolo, acciò che da quella con più forte petto ci guardiamo, l’amor di tre giovani e d’altrettante donne, come di sopra dissi, per l’ira d’una di loro di felice essere divenuti infelicissimi intendo con la mia novella mostrarvi.

Marsilia, sì come voi sapete, è in Provenza sopra la marina posta, antica e nobilissima città, e già fu di ricchi uomini e di gran mercatanti più copiosa che oggi non si vede; tra quali ne fu un chiamato N’Arnald Civada, uomo di nazione infima ma di chiara fede e leal mercatante, senza misura di possessioni e di denari ricco, il quale d’una sua donna avea più figliuoli, de’ quali tre n’erano femine e eran di tempo maggiori che gli altri che maschi erano. Delle quali le due, nate a un corpo, erano d’età di quindici anni, la terza avea quattordici; né altro s’attendeva per li loro parenti a maritarle che la tornata di N’Arnald, il qual con sua mercatantia era andato in Ispagna. Erano i nomi delle due prime, dell’una Ninetta e dell’altra Magdalena; la terza era chiamata Bertella.

 

Della Ninetta era un giovane gentile uomo, avvegna che povero fosse, chiamato Restagnone, innamorato quanto più potea, e la giovane di lui; e sì avevan saputo adoperare, che, senza saperlo alcuna persona del mondo, essi godevano del loro amore. E già buona pezza goduti n’erano, quando avvenne che due giovani compagni, de’ quali l’uno era chiamato Folco e l’altro Ughetto, morti i padri loro e essendo rimasi ricchissimi, l’un della Magdalena e l’altro della Bertella s’innamorarono. Della qual cosa avvedutosi Restagnone, essendogli stato dalla Ninetta mostrato, pensò di potersi ne’ suoi difetti adagiare per lo costoro amore, e con lor presa dimestichezza, or l’uno e or l’altro e talvolta amenduni gli accompagnava a vedere le lor donne e la sua.

E quando dimestico assai e amico di costoro esser gli parve, un giorno in casa sua chiamatigli, disse loro: «Carissimi giovani, la nostra usanza vi può aver renduti certi quanto sia l’amore che io vi porto, e che io per voi adopererei quello che io per me medesimo adoperassi; e per ciò che io molto v’amo, quello che nell’animo caduto mi sia intendo di dimostrarvi, e voi appresso con meco insieme quel partito ne prenderemo che vi parrà il migliore. Voi, se le vostre parole non mentono, e per quello ancora che ne’ vostri atti e di dì e di notte mi pare aver compreso, di grandissimo amore delle due giovani amate da voi ardete, e io della terza loro sorella; al quale ardore, ove voi vi vogliate accordare, mi dà il cuore di trovare assai dolce e piacevole rimedio, il quale è questo. Voi siete ricchissimi giovani, quello che non sono io: dove voi vogliate recare le vostre ricchezze in uno e me fare terzo posseditore con voi insieme di quelle e diliberare in che parte del mondo noi vogliamo andare a vivere in lieta vita con quelle, senza alcun fallo mi dà il cuor di fare che le tre sorelle, con gran parte di quello del padre loro, con essonoi dove noi andar ne vorremo ne verranno; e quivi ciascun con la sua, a guisa di tre fratelli, viver potremo li più contenti uomini che altri che al mondo sieno. A voi omai sta il prender partito in volervi di ciò consolare, o lasciarlo.»

Li due giovani, che oltre modo ardevano, udendo che le lor giovani avrebbono, non penar troppo a diliberarsi ma dissero, dove questo seguir dovesse, che essi erano apparecchiati di così fare. Restagnone, avuta questa risposta da’ giovani, ivi a pochi giorni si trovò con la Ninetta, alla quale non senza gran malagevolezza andar poteva; e poi che alquanto con lei fu dimorato, ciò che co’ giovani detto avea le ragionò e con molte ragion s’ingegnò di farle questa impresa piacere. Ma poco malagevole gli fu, per ciò che essa molto più di lui disiderava di poter con lui esser senza sospetto: per che liberamente rispostogli che le piaceva e che le sorelle, e massimamente in questo, quello farebbono che essa volesse, gli disse che ogni cosa oportuna intorno a ciò quanto più tosto potesse ordinasse. Restagnone a’ due giovani tornato, li quali molto a ciò che ragionato avea loro il sollecitavano, disse loro che dalla parte delle lor donne l’opera era messa in assetto. E fra sé diliberati di doverne in Creti andare, vendute alcune possessioni le quali avevano, sotto titolo di volere co’ denari andar mercatando, e d’ogni altra lor cosa fatti denari, una saettia comperarono e quella segretamente armarono di gran vantaggio, e aspettarono il termine dato. D’altra parte la Ninetta, che del disiderio delle sorelle sapeva assai, con dolci parole in tanta volontà di questo fatto l’accese, che esse non credevano tanto vivere che a ciò pervenissero.

Per che, venuta la notte che salire sopra la saettia dovevano, le tre sorelle, aperto un gran cassone del padre loro, di quello grandissima quantità di denari e di gioie trassono, e con esse di casa tutte e tre tacitamente uscite, secondo l’ordine dato, li lor tre amanti che l’aspettavan trovarono; con li quali senza alcuno indugio sopra la saettia montate, dier de’ remi in acqua e andar via e senza punto rattenersi in alcun luogo la seguente sera giunsero a Genova, dove i novelli amanti gioia e piacere primieramente presero del loro amore. E rinfrescatisi di ciò che avean bisogno, andaron via, e d’un porto in un altro, anzi che l’ottavo dì fosse, senza alcuno impedimento pervennero in Creti, dove grandissime e belle possessioni comperarono, alle quali assai vicini di Candia fecero bellissimi abituri e dilettevoli; e quivi con molta famiglia, con cani e con uccelli e con cavalli, in conviti e in feste e in gioia con le lor donne i più contenti uomini del mondo a guisa di baroni cominciarono a vivere.

E in tal maniera dimorando, avvenne, sì come noi veggiamo tutto il giorno avvenire che quantunque le cose molto piacciano avendone soperchia copia rincrescono, che a Restagnone, il quale molto amata avea la Ninetta, potendola egli senza alcun sospetto a ogni suo piacere avere, gl’incominciò a rincrescere e per conseguente a mancar verso lei l’amore. E essendogli a una festa sommamente piaciuta una giovane del paese, bella e gentil donna, e quella con ogni studio seguitando, cominciò per lei a far maravigliose cortesie e feste: di che la Ninetta accorgendosi, entrò di lui in tanta gelosia, che egli non poteva andare un passo che ella nol risapesse e appresso con parole e con crocci lui e sé non ne tribolasse.

Ma così come la copia delle cose genera fastidio, così l’esser le disiderate negate multiplica l’appetito: così i crucci della Ninetta le fiamme del nuovo amore di Restagnone accrescevano. E come che in processo di tempo s’avenisse, o che Restagnone l’amistà della donna amata avesse o no, la Ninetta, chi che gliele rapportasse, l’ebbe per fermo: di che ella in tanta tristizia cadde e di quella in tanta ira e per consequente in tanto furor transcorse, che, rivoltato l’amore il quale a Restagnon portava in acerbo odio, accecata dalla sua ira, s’avisò con la morte di Restagnone l’onta che ricever l’era paruta vendicare. E avuta una vecchia greca gran maestra di compor veleni, con promesse e con doni a fare un’acqua mortifera la condusse: la quale essa, senza altramenti consigliarsi, una sera a Restagnon riscaldato e che di ciò non si guardava diè bere. La potenzia di quella fu tale, che avanti che il matutino venisse l’ebbe ucciso; la cui morte sentendo Folco e Ughetto e le lor donne, senza sapere di che veleno fosse morto, insieme con la Ninetta amaramente piansero e onorevolemente il fecero sepellire. Ma non dopo molti giorni avvenne che per altra malvagia opera fu presa la vecchia che alla Ninetta l’acqua avvelenata composta avea, la quale tra gli altri suoi mali, martoriata, confessò questo pienamente mostrando ciò che per quello avvenuto ne fosse; di che il duca di Creti, senza alcuna cosa dirne, tacitamente una notte fu dintorno al palagio di Folco e senza romore o contradizione alcuna presa ne menò la Ninetta, dalla quale senza alcun martorio prestissimamente ciò che udir volle ebbe della morte di Restagnone.