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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3

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«L’arpie pascendo poi delle sue foglie»: che animali o vero uccelli l’arpie sieno, si dirá dove il senso allegorico si sporrá. E qui vuole questo spirito, poi che mostrato ha come quivi nascano, mostrare la qualitá del lor tormento, il quale mostra che stea nel rompere che fanno l’arpie delli loro ramuscelli: e cosí par quel tormento esser simile a quello che nella presente vita si dá a’ disleali e pessimi uomini, in quanto sono attanagliati; e cosí dice che «pascendo», cioè rompendo e schiantando l’arpie le foglie di queste piante, fanno dolore all’anime rilegate in quelle piante, come le tanaglie fanno a’ corpi. E, percioché queste anime son tutte intorniate e chiuse dalla corteccia dell’albero loro, e però d’alcuna parte spirar non possono; a tôr via il dubbio da qual parte esse mandin fuori l’angoscia, la qual per lo dolor sentono (e che l’autore aveva udita, senza vedere chi se la facesse), detto che queste arpie, troncandole, «Fanno il dolore», dice che esse similmente, con le rotture dello schiantare, fanno «ed al dolor finestra», cioè dánno per quelle rotture l’uscita alle dolorose voci, le quali esse, per lo dolore il qual sentono, mandan fuori.

E, questo dichiarato, dichiara la seconda parte della domanda, cioè «s’alcuna mai da tai membri si spiega»; e dice: «Come l’altre» anime verranno tutte il dí del giudicio a riprendere li lor corpi, cosí noi «verrem per nostre spoglie», cioè per li nostri corpi, li quali sono «spoglie» dell’anima, cosí come i vestimenti sono spoglie del corpo; «Ma non però, ch’alcun», di noi, «se ne rivesta», di quelle spoglie; cioè non però, quantunque noi vegniamo per li nostri corpi, che alcuna delle nostre anime rientri in quegli. E la cagione perché alcuna di noi non rientra nel corpo suo, è per ciò «Che non è giusto aver ciò ch’uom si toglie»: noi, uccidendoci, ci togliemmo i corpi, e però non è giusta cosa che noi gli riabbiamo. E per questo, senza rivestirglici, «Qui», cioè per questa selva, «gli strascineremo», cioè strazieremo; e, oltre a ciò, poiché strascinati gli aremo, «e per la mesta», cioè dolorosa, «Selva saran li nostri corpi», de’ quali io parlo, «appesi, Ciascuno al prun dell’ombra sua molesta», cioè inimica. E in questo finisce la sua dimostrazione.

[Ma qui è attentamente da riguardare, percioché, quello che questo spirito dice, è dirittamente contrario alla verità cattolica, per la qual noi abbiamo che tutti risurgeremo e riprenderemo i nostri corpi, e con essi risuscitati verremo al giudicio universale a udire l’ultima sentenzia; e chi dice «tutti», non eccettua alcuno, dove questi dice che l’anime di coloro, che se medesimi uccisono, non rientreranno ne’ corpi, e per conseguente non risurgeranno, e cosí contradice alla nostra fede.]

[È qui da credere che l’autore non ha qui fatte narrar queste parole a questo spirito, sí come ignorante degli articoli della nostra fede, percioché tutti esplicitamente gli seppe, sí come nel Paradiso manifestissimamente appare; ma, dovendo questo error recitare, ha qui usata una cautela poetica, la quale è che quante volte i poeti voglion porre una opinione contraria alla veritá, essi si guardano di recitarla essi in propria persona, ma inducono alcun altro, e a lui, sí come quello cotale, ch’è indotto, tenesse, la fanno raccontare. Il che Virgilio fa in alcun luogo: percioché, volendo d’una opinione, la quale esso non teneva esser vera, compiacere a’ romani, li quali al suo tempo erano nel colmo della loro grandezza, egli nel primo libro dell’Eneida induce Giove (non quel Giove, il quale esso alcuna volta vuole intendere per lo vero Iddio, ma quello che i gentili scioccamente credevano essere iddio), e dice che, parlandogli Venere, sua figliuola e madre d’Enea, sí come sollecita degli avvenimenti d’Enea (il quale era dalla fortuna del mare, volendo venire in Italia, dove doveva essere il regno di lui e de’ suoi successori, trasportato in Cartagine), tra l’altre cose le risponde cosí:

 
His ego nec metas rerum, nec tempora pono:
imperium sine fine dedi, ecc.;
 

e non si cura Virgilio di far mentitore costui, il quale egli avea per iddio falso e bugiardo. Ma in quelle parti ove essi vogliono quello ch’essi estimano esser vero, essi in propria persona il profferano, sí come Virgilio medesimo fa sopra questa medesima materia dello ’mperio de’ romani, toccando alcuna cosa intorno alla fine del secondo della Georgica, dove dice:

 
Illum non populi fasces, non purpura regum
Flexit, ecc.
Non res Romanae, perituraque regna
 

(supple) Romana, ecc. Il quale imitando l’autore, come in assai altre cose fa, fa a questo spirito dannato raccontare questa opinione erronea; e ciò non fa senza cagione, ma il fa, volendo con questa opinione ritrar coloro, che l’udiranno, dal detestabile peccato della disperazione; percioché assai volte avviene gli uomini, piú per paura della pena che per amor della virtú, guardarsi dalle cose scellerate.]

[È il vero, che che a’ poeti gentili giá conceduto si fosse, non pare che la religion cristiana permetta ad alcun poeta cristiano, né in sua persona, né in altrui, raccontare o far raccontare assertive alcuna erronea cosa, e che contraria sia alla cattolica veritá; e però non par qui assai essere scusato l’autore per aver fatto ad uno spirito dannato raccontar questo errore.]

[Ma a questo si può cosí rispondere, accioché si conosca l’autore in questo non avere errato: dobbiamo adunque sapere esser due maniere di pena, nelle quali, o nell’una delle quali, la giustizia di Dio condanna coloro che male hanno adoperato; e chiamasi l’una delle maniere di queste pene «pena illativa», e l’altra «pena privativa». La pena illativa si pone nella propria persona di colui che ha peccato, sí come è tagliargli alcun membro, o farlo d’alcuna spezie di morte morire; la pena privativa è quella la quale s’impone nelle cose esteriori di colui il quale ha peccato, sí come nelle sue sustanze, negli onori, negli stati, nella cittadinanza, privandolo d’alcuna di queste, o di parte d’alcuna, o di tutte. E però si può dir qui: percioché le leggi temporali non hanno in alcuna cosa potuto punire quegli che se medesimi uccidono, percioché il corpo morto non può ricever pena; e, quantunque esse vogliano che i corpi cosí uccisi sieno gittati a divorare alle fiere, questa non è pena all’ucciso, ma è vergogna a chi di lui rimane; e, se vogliam dire egli è infamia al nome dell’ucciso, questa infamia perisce sotto l’occupazione di maggiore infamia, peroché molto maggiore infamia è l’essersi ucciso che non è l’essere poi gittato via a guisa d’un cane; oltre a ciò, le leggi temporali non possono nelle sue cose punirlo, percioché chi se medesimo priva della vita, si priva d’ogni altra sua cosa, sí che, perché le leggi facessero ogni suo bene occupare, a lui non monta niente; e deesi credere che chi di se medesimo non s’è curato, non si curi d’alcuna altra sua cosa, e quella non si può dirittamente dir pena, la quale non affligge colui al quale è imposta; e, volendo la divina giustizia che impunito non rimanga cosí grande eccesso, quello, che non può far la temporale, si dee credere che essa supplisce, e vuole che in questi cotali sia la pena illativa, sí come ella è nell’altre anime de’ dannati, e, oltre a ciò, vi sia la privativa. Ma, percioché ad alcuno passato di questa vita non si può alcuna cosa tôrre che sua sia, se non solamente il corpo, vuole la divina giustizia che questi cotali si credano non dovere riavere il corpo loro, come l’altre anime riaranno, comeché nella veritá essi il riaranno come l’altre. E se forse si domandasse: in che sentono però queste anime dannate piú pena, avendo questa opinione, che l’altre non l’hanno? Si può cosí dire: che, come l’anime de’ beati disiderano i corpi loro, accioché, come essi furono in questa vita partefici delle fatiche ad acquistar la gloria di vita eterna, cosí sieno con loro insieme partefici della gloria; cosí l’anime dannate ardentemente disiderano di riavere i corpi loro, accioché, sí come strumenti delle loro malvagie operazioni furono in questa vita, cosí in quella dannazione gli sentano punire, e sostenere pene come sostengono esse; e perciò quegli, che di questo loro disiderio estimano d’esser privati, sentono, oltre alla pena illativa, similmente la privativa. E però avvedutamente l’autore fa questa opinione raccontare ad una di quelle anime, alle quali la giustizia di Dio permette di stare in lor maggior pena in questa erronea opinione; e cosí, senza aver detto contro alla veritá, si può dir l’autore avere come cristian poeta scritto].

«Noi eravamo». Qui comincia la terza parte principale del presente canto, nella quale, poi che l’autore n’ha dimostrato che pena abbian coloro li quali nella propria persona usano violenza, ne dimostra una spezie di tormenti strana dalla primiera, data a certi peccatori le cui colpe non furono con quelle de’ primieri equali, percioché non in sé ma nelle lor cose usarono violenza. E dice cosí: «Noi eravamo ancora al tronco attesi, Credendo ch’altro ne volesse dire», avendo egli finito di dire quello che di sopra è scritto, «Quando noi fummo d’un romor sorpresi», il qual sentimmo farsi nella selva; e quinci per una comparazione dimostra come soprappresi fossero, dicendo: «Similemente a colui, che venire Sente il porco», salvatico, «e la caccia», cioè quegli e cani e uomini che di dietro il cacciano, «alla sua posta». Usano i cacciatori partirsi in diverse parti, e, cosí divisi, porsi in quelle parti della selva, donde stimano dover potere, fuggendo, passare quelle bestie le quali voglion pigliare; e queste cotali parti, dove si pongono, chiamano «poste»; e però colui, alla cui posta viene la bestia cacciata, se n’avvede, per ciò «Ch’ode le bestie», le cacciate e quelle che cacciano, «e le frasche», cioè i rami e le frondi della selva, «stormire», cioè far romore per lo stropiccío del porco e de’ cani e dei cacciatori.

 

«Ed ecco», mentre essi stavano soprappresi dal romore, «due dalla sinistra costa, Nudi e graffiati»: dice «nudi», percioché non eran dalle cortecce degli alberi rivestiti, come eran quelle anime che rilegate erano in que’ bronchi; e «graffiati» dice, percioché di sopra è detto quel bosco esser pieno «di stecchi con tosco», e chi corre tra cosí fatte piante, non potendo attendere a riguardarsi, è di necessitá che si graffi; «fuggendo sí forte», cioè sí velocemente e con tanto impeto, «Che della selva rompíeno ogni rosta», e però erano graffiati. E questo vocabolo «rosta» usiam noi in cotali fraschette o ramicelli verdi d’álbori, con le quali la state cacciam le mosche. «Quel dinanzi» (supple), gridava: – «Ora accorri, accorri, Morte!»; – nelle quali parole dimostra o la gravezza della pena, o la grandezza della paura; «E l’altro, cui pareva tardar troppo», cioè esser troppo lento nel suo fuggire, per rispetto a colui che dinanzi a lui fuggiva, «Gridava», dicendo: – «Lano, sí non fûro accorte, Le gambe tue alle giostre del Toppo». —

Ad intelligenza di queste parole è da sapere che Lano fu un giovane sanese, il qual fu ricchissimo di patrimonio, e, accostatosi ad una brigata d’altri giovani sanesi, la qual fu chiamata la Brigata spendereccia, li quali similmente erano tutti ricchi, e, insiememente con loro, non spendendo ma gittando, in piccol tempo consumò ciò ch’egli avea, e rimase poverissimo. E, avvenendo per caso che i sanesi mandarono certa quantitá di lor cittadini in aiuto de’ fiorentini sopra gli aretini, fu costui del numero di quegli che v’andarono. E, avendo fornito il servigio, e tornandosene a Siena assai male ordinati e mal condotti, come pervennero alla Pieve al Toppo, furono assaliti dagli aretini, e rotti e sconfitti; e nondimeno, potendosene a salvamento venir Lano, ricordandosi del suo misero stato e parendogli gravissima cosa a sostener la povertá, sí come a colui che era uso d’esser ricchissimo, si mise in fra’ nemici, fra’ quali, come esso per avventura disiderava, fu ucciso. E perciò, in modo di rimproverare, gridava quell’altro spirito le sue gambe, cioè il suo corso, cosí presto, cioè veloce, alle giostre dal Toppo, cioè agli scontri delle lance, dalle quali fuggito non s’era, potendo; volendo in questo ricordargli la cagione la quale il fece tardo al fuggire, cioè la sua misera ed estrema povertá, nella quale per sua bestialitá era venuto. E, percioché egli non fu prodigo, ma gittatore e dissipatore del suo, il discrive l’autore in questo luogo. «E poiché forse gli fallía la lena», cioè a questo spirito, che gridava rimproverando a Lano e la morte e, per conseguente, la cagione della morte sua; «Di sé e d’un cespuglio», nato d’una di quelle anime, «fece un groppo», cioè un nodo, forse sperando per quello non doverlo di quivi poter muovere le cagne, le quali il seguivano.

«Di dietro a loro», cioè a questi che fuggivano, «era la selva piena Di nere cagne, bramose e correnti, Come veltri ch’uscisser di catena. In quel che s’appiattò», cioè in questo secondo, che avea fatto un groppo di sé e d’un cespuglio, «miser li denti», quelle cagne, «E quel dilacerâro a brano a brano, Poi sen portâr quelle membra dolenti», del dilacerato.

«Presemi allor lo mio duca per mano, E», lasciato stare maestro Piero delle Vigne, «menommi al cespuglio», col quale colui s’era aggroppato, «che piangea, Per le rotture sanguinenti», fattegli nello schiantar de’ rami, che avvenne nell’impeto delle cagne, «invano»: perciò dice che esso piagneva invano, percioché non dovea per lo pianto suo minuirgli la pena. E poi dimostra l’autore quello che questo spirito piagnendo diceva, cioè: – «O Giacomo – dicea – da Sant’Andrea»; cosí mostra che fosse nominato quello spirito, il quale le cagne avevano lacerato.

Fu adunque costui Giacomo della cappella di Santo Andrea di Padova, il quale rimase di maravigliosa ricchezza erede, e quella tutta dissipò e gittò via; e tra l’altre sue bestiali operazioni si racconta che, disiderando di vedere un grande e bel fuoco, fece ardere una sua ricca e bella villa; ultimamente divenne in tanta povertá e in tanta miseria, quanto alcuno altro divenisse giammai. Laonde creder si può che esso molte volte piagnesse quello che stoltamente avea consumato, e di che egli dovea consolatamente poter vivere; e perciò il pone l’autore, sí come peccatore che usò man violenta nelle proprie cose, in questo cerchio. E segue poi l’autore il rammarichío del cespuglio, dicendo che dicea il cespuglio: «Che t’è giovato di me fare schermo?», quasi dica: niente, percioché tu non se’ scampato da’ denti delle cagne che ti seguivano, e a me hai aggiunta pena. E ancor séguita: «Che colpa ho io della tua vita rea?» – cioè, se tu sapesti, vivendo, sí mal governare il tuo, che tu ne sii dannato a questa pena?

«Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo», cioè sopra questo cespuglio, «Disse: – Chi fosti, che per tante punte», delle cime del suo albero schiantate, «Soffi», cioè soffiando mandi fuor per quelle punte, «con sangue doloroso sermo?». —

«E quegli a noi», disse: – «O anime, che giunte», cioè pervenute, «Siete a veder lo strazio disonesto», fatto di quel peccatore, il quale a questo mio bronco s’era aggroppato, e «C’ha le mie fronde sí da me disgiunte, Ricoglietele al piè del tristo cesto», di questo mio cespuglio. E quinci, senza nominarsi, dice solamente la cittá lá onde egli fu, e ancora qual quella fosse mostra per alcuna circunscrizione, dicendo: «Io fui della cittá che nel Batista Mutò il primo padrone».

A dichiarazione delle quali parole è da sapere che, secondo che alcuni hanno opinione, quando la cittá di Firenze fu da prima posta, era signor dell’ascendente Marte; e per questo, coloro li quali la posono, essendo pagani, presero per loro protettore e maggiore iddio Marte, e quello fecioro scolpire di macigno a cavallo e armato, e poserlo sopra una colonna in quel tempio il qual noi chiamiamo oggi San Giovanni, e in quello fu onorato di riverenzia e di sacrifici mentre in questa cittá perseverò il paganesimo; poi, essendo qui seminata la veritá evangelica, e lasciato da’ cittadini, divenuti cristiani, l’error gentilizio, fu questa statua di Marte tratta dal detto tempio. E, percioché pure ancora sentivano alcuna cosa del pristino errore, non la volloro disfare né gittar via, ma, fatto sopra la coscia del ponte Vecchio un pilastro, la vi poser suso. [Comeché Giovanni Villani scriva questa non essere stata la prima pòsta della statua di Marte quando fu tratta del tempio detto, ma che egli fu posto sopra un’alta torre vicina ad Arno; e questo fu fatto, percioché temevano d’alcuni vaticíni de’ loro antichi, nelli quali si leggeva questa statua esser fatta sotto costellazione che, qualora in meno che onorevole luogo tenuta fosse, o fattole alcuna violenza, gran danno ne seguirebbe alla cittá; e in su quella torre dimorò insino al tempo che Attila disfece la cittá. E allora, o che la torre, sopra la quale era, cadesse, o che per altra maniera sospinta fosse, questa statua di Marte cadde in Arno, e in quello dimorò tanto, quanto la cittá si penò a redificare; poi, riedificata al tempo dello ’mperio di Carlo magno, fu ripescata e ritrovata, ma non intera, percioché dalla cintola insú la immagine di Marte era rotta, e quella parte non si ritrovò mai; e, cosí diminuita, dicono che fu posta, come di sopra è detto, sopra ad un pilastro in capo del ponte Vecchio. Del quale poi, essendo negli anni di Cristo milletrecentotrentatré, oltre al ricordo d’ogni uomo, non giá per molte gran piove, ma per qual che cagion si fosse, cresciuto Arno, e tutta la cittá avesse allagata, e giá i due inferiori ponti menatine, similmente ne menò via il ponte Vecchio e il pilastro e la statua, la qual mai poi né si ritrovò né si ricercò.]

Adunque in questa guisa tratta del tempio predetto la detta statua, fu il tempio consecrato al vero Iddio, sotto il titolo di San Giovanni Battista, ed esso san Giovanni fu assunto in lor padrone e protettore da’ cittadini: e cosí fu «il primo padrone», cioè Marte, trasmutato in san Giovanni.

«Ond’e’ per questo», essere stato Marte lasciato per san Giovanni, «Sempre con l’arte sua la fará trista». In queste parole e nelle seguenti tocca l’autore una opinione erronea, la qual fu giá in molti antichi, cioè che, per la detta permutazione, Marte con guerre e con battaglie, le quali aspettano all’«arte sua», cioè al suo esercizio, abbia sempre poi tenuta questa cittá in tribulazione e in mala ventura. [La qual cosa non è solamente sciocchezza, ma ancora eresia a credere che alcuna costellazion possa nelle menti degli uomini porre alcuna necessitá; né sarebbe della giustizia di Dio che alcuno, lasciando un malvagio consiglio e seguendone un buono, dovesse per questo sempre essere in fatica e in noia; ma si dee piú tosto credere che di molti pericoli n’abbia la divina misericordia tratti, ne’ quali noi saremmo venuti, se questa buona e santa operazione non fosse stata fatta da’ nostri passati. Poi séguita, continuandosi a quel che cominciato ha a dire di questa iniqua opinione, dicendo: ] «E se non fosse che ’n sul passo d’Arno», cioè in sul pilastro sopra detto, «Rimane ancor di lui», cioè di Marte, «alcuna vista», alcuna dimostrazione: e ben dice «alcuna», percioché [come di sopra dissi,] questa statua [era diminuita dalla cintola in su, senza che essa tutta] era per l’acque e per li freddi e per li caldi molto rósa per tutto, tanto che quasi, oltre al grosso de’ membri, né dell’uomo né del cavallo alcuna cosa si discernea; e per quello se ne potesse comprendere, ella fu piccola cosa, per rispetto alla grandezza d’uno uomo a cavallo, e di rozzo e grosso maestro; «Que’ cittadin che poi la rifondârno», Firenze, «Sovra ’l cener che d’Attila rimase, Avrebber fatto lavorare indarno», cioè invano.

Vuole adunque questo spirito mostrare quella pietra essere stata di tanta potenza che, per l’esserle quella particella d’onor fatto, cioè d’esser riservata e posta sopra quel pilastro, che ella abbia conservata in essere la cittá nostra, poi che ella fu reedificata, la quale altramenti, da che che caso si fosse avvenuto, sarebbe stata disfatta e disolata. [Ma, come davanti è detto, a creder questo è grandissima sciocchezza e peccato, percioché a Domeneddio appartiene la guardia delle cittá, e non alle pietre intagliate, o ad alcun pianeto o stella: e, se Domeneddio si ritrarrá dalla guardia d’alcuna, tutto il cielo, né quanti pianeti sono o stelle, non la potranno conservare un’ora.]

[Ma, percioché dice: «Sovra ’l cener che d’Attila rimase», è da sapere che, essendo Attila, re de’ goti, passato in Italia, in esterminio e ultima distruzione del nome romano, ed avendo molte cittá in Lombardia e in Romagna giá guaste e disfatte, secondo che piace a Giovanni Villani, esso passò in Toscana, dove similmente piú ne disfece, e tra l’altre Firenze, la quale dice che occupò in questa maniera, che, avendola per molto tempo assediata, e non potendola per forza prendere, volse l’ingegno agl’inganni, e con molte e false promessioni prese gli animi de’ cittadini, li quali, troppo creduli, sperando quello dovere loro essere osservato che era promesso, il ricevettoro dentro alla cittá, e per sua stanza gli assegnarono il Capitolio, nel quale esso dopo alcuno spazio di tempo fece convocare un dí i maggiori cittadini della terra, e quegli facendo passare d’una camera in un’altra, ad uno ad uno tutti gli fece ammazzare, e i corpi loro gittare in una gora, la quale dal fiume d’Arno dirivata, passava sotto il Capitolio. Né di questo inganno alcuna cosa si sentia per la cittá, né per avventura sarebbe sentita, se l’acqua della gora, al rimettere in Arno, non si fosse veduta vermiglia del sangue degli uccisi: per che giá facendone romore i cittadini, e Attila sentendolo, mandata fuori del Capitolio certa quantitá di sua gente armata, comandò loro che ad alcuno grande né piccolo, maschio né femmina perdonassono; e cosí, quantunque molti chi qua e chi lá ne fuggissono, fu il rimanente de’ fiorentini crudelmente ucciso, e tra gli altri il vescovo di Firenze, chiamato Maurizio, uomo di santissima vita. E, fatta questa occisione, comandò che la cittá fosse tutta disfatta e arsa, e cosí fu ogni cosa convertita in cenere e in favilla. E, secondo dice lo scrittore di questa istoria, questo fu fatto il dí ventotto di giugno, l’anno di Cristo quattrocentocinquanta, e, poi che ella era stata edificata, cinquecentoventi anni.]

[Poi piú volte tentarono i discendenti de’ cittadini fuggiti di doverla reedificare; ed essendo le lor forze piccole, sempre furono impediti da’ fiesolani e da certi nobili uomini d’attorno, li quali estimavano la reedificazion di quella doversi in lor danno convertire, sí come poi avvenne. Ma pure, perseverando essi antichi cittadini in questo volere, essendo imperador Carlo magno, mandarono chi supplicasse in lor nome, e allo ’mperadore e al popolo di Roma, che con la lor forza la cittá antica si potesse rifare. Ottennero la dimanda loro, e, oltre a ciò, scrive Giovanni Villani che i romani mandarono molti nobili della lor cittá a doverla riabitare; e cosí con la forza dello ’mperadore e de’ romani, e ancora de’ discendenti degli antichi cittadini, che tutti a ciò concorsero, fu «sopra il cenere», cioè sopra l’arsioni rimase d’Attila, reedificata Firenze, e abitata l’anno di Cristo ottocentodue, all’entrata del mese d’aprile.]

 

Ultimamente questo spirito, avendo dimostrato di qual cittá fosse, dice di che morte s’uccidesse, dicendo: «Io fe’ giubbetto», cioè forche, «a me delle mie case», – e cosí mostra s’impicasse per la gola nella sua medesima casa: la quale dice avere a sé fatto «giubbetto», percioché cosí si chiama a Parigi quel luogo dove i dannati della giustizia sono impiccati. Né è costui dall’autor nominato, credo per l’una delle due cagioni: o per riguardo de’ parenti che di questo cotale rimasero, li quali per avventura sono onorevoli uomini, e perciò non gli vuole maculare della infamia di cosí disonesta morte; ovvero, percioché in que’ tempi, quasi come una maladizione mandata da Dio, nella cittá nostra piú se ne impiccarono, accioché ciascun possa apporlo a qual piú gli piace di que’ molti.