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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3

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Ragionasi che questo Guido Guerra fosse col re Carlo vecchio, quando combatté col re Manfredi, e che con ottimi consigli, e poi con la spada in mano, egli adoperasse molto in dare opera alla vittoria, la quale ebbe il re Carlo; senzaché, in altre simili vicende, sempre si portò, dovunque si trovò, valorosamente; per la qual cosa la fama sua s’ampliò molto.

«L’altro, ch’appresso me la rena trita», cioè scalpita, «È Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce», cioè nominanza o fama, «Nel mondo sú dovrebbe esser gradita», percioché furon l’opere sue laudevoli.

Fu costui messer Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, cavaliere di graride animo e d’operazion commendabili e di gran sentimento in opera d’arme; e fu colui, il quale del tutto sconsigliò il comun di Firenze che non uscisse fuori a campo, ad andare sopra i sanesi; conoscendo, sí come ammaestratissimo in opera di guerra, che danno e vergogna ne seguirebbe, se contro al suo consiglio si facesse; dal quale non creduto né voluto, ne seguí la sconfitta a Monte Aperti.

«Ed io, che posto son con loro in croce», cioè a questo tormento, «Iacopo Rusticucci fui». Fu costui messer Iacopo Rusticucci, il qual non fu di famosa famiglia, ma, essendo ricco cavaliere, fu tanto ornato di belli costumi e pieno di grande animo e di cortesia, che assai ben riempie’ dove, per men notabile famiglia, pareva vòto.

«E certo La fiera moglie, piú ch’altro, mi nuoce», in ciò che io sia dannato a questo tormento. Dicono alcuni che costui ebbe per moglie una donna tanto ritrosa e tanto perversa, e di sí nuovi costumi e maniere, come assai spesso ne veggiamo, che in alcuno atto con lei non si poteva né stare né vivere; per la qual cosa il detto messer Iacopo, partitosi da lei, stimolandolo l’appetito carnale, egli si diede alla miseria di questo vizio. [E questo si può credere che facesse, quella vergogna temendo, che i cherici mostrano di temere, piú del biasimo degli uomini curando che dell’ira di Dio; e per quello acquistò di dovere nella perdizione eterna avere questo supplicio.]

[Non deono adunque gli uomini esser molto correnti a prender moglie, anzi deono con molto avvedimento a ciò venire, percioché, dove elle si deono prendere per aver figliuoli e consolazione e riposo in casa, assai spesso avviene che, per lo strabocchevolmente gittarsi a prender qualunque femmina, l’uomo si reca in casa fuoco inestinguibile e battaglia senza triegua. Recita san Geronimo in un libro, il quale egli compose Contro a Gioviniano eretico, che Teofrasto, il qual fu solenne filosafo e uditore d’Aristotile, compose un libro il qual si chiama De nuptiis, e in parte di quello domanda se il savio uomo debba prender moglie. E avvegnaché egli, a se medesimo rispondendo, dicesse dove ella sia bella, ben costumata e nata d’onesti parenti, e se esso fosse sano e ricco, il savio alcuna volta poterla prendere; incontanente aggiunse che queste cose rade volte intervengono tutte nelle nozze, e però il savio non dover prender moglie; percioché essa innanzi all’altre cose impedisce lo studio della filosofia, né è alcun che possa a’ libri e alla moglie servire.]

[Oltre a questo, è certo che molte cose sono opportune agli usi delle donne, sí come sono i vestimenti preziosi, l’oro, le gemme, le serve e gli arnesi delle camere. Appresso, dall’aver moglie procede che tutte le notti si consumano in quistioni e in garrire, dicendo ella: – Donna cotale va in publico piú onoratamente di me, e la cotale è onorata da tutti, e io tapinella tra’ ragunamenti delle femmine sono avuta in dispetto. – Appresso: – Perché riguardavi tu la cotal nostra vicina? Perché parlavi tu con la cotal serviziale? Tu vien’ dal mercato, che m’hai tu recato? – E, quello che è gravissimo a sostenere, quegli che hanno mogliere, non possono avere né amico né compagno, percioché esse incontanente suspicano che l’amore, che il marito porta ad alcuna altra persona che a loro, sia in odio di lei. E, ancora, il nudrire quella che è povera è molto difficile cosa, e il sostenere i modi e i costumi della ricca è gravissimo tormento. E aggiugni alle cose predette che delle mogli non si può fare alcuna elezione, ma tale chente la fortuna la ti manda, tale te la conviene avere; e non prima che fatte le nozze, potrai discernere se ella è bestiale, se ella è sozza, se ella è fetida, o se ella ha altro vizio. Il cavallo, l’asino, il bue, il cane, e’ vilissimi servi, e ancora i vestimenti e’ vasi e le sedie e gli orciuoli, si provan prima, e provati si comperano; sola la moglie non è mostrata, accioché ella non dispiaccia, prima che ella sia menata.]

[Oltre a questo, poiché menata è, sempre si convien riguardare la faccia sua, e la sua bellezza è da lodare, accioché, se alcuna altra se ne riguardasse, ella non estimi di dispiacere; conviene che l’uomo la chiami sua donna, che egli giuri per la salute sua, e che egli mostri di disiderare che essa sopravviva a lui, e, oltre a ciò, piú che alcuna altra persona d’amare il padre di lei, e qualunque altro parente o persona amata da lei. E, se egli avviene, per mostrare che altri abbia in lei piena fede, che alcuno le commetta tutto il reggimento e governo della sua casa, è di necessitá che esso divenga servo di lei; e, se per avventura il misero marito alcuna cosa riserverá nel suo arbitrio, incontanente essa crederá e dirá che il marito non si fidi di lei, e, dove forse alcuno amor portava al marito, incontanente il convertirá in odio; e, se il marito non consentirá tosto a’ piacer suoi, di presente ricorre a’ veleni o ad altre spezie della morte sua. Esse, il piú, vanno cercando i consigli delle vecchierelle maliose, degl’indovini, e, oltre a questi, introducono i sarti, i ricamatori e gli ornatori de’ preziosi vestimenti, li quali, se il misero marito lascia nella sua casa entrare e usare, non è senza pericolo della pudicizia; e, se egli vieterá che essi non v’entrino, incontanente la moglie si reputa ingiuriata, in ciò che il marito mostra d’aver sospeccion di lei. Ma che utilitá è la diligente guardia, conciosiacosaché la non pudica moglie non si possa guardare, e la pudica non bisogni? La necessitá è mal fedel guardiana della castitá; e quella donna è veramente pudica, alla quale è stata copia di poter peccare e non ha voluto. La bella donna leggiermente è amata; la non bella leggiermente è disprezzata e avuta a vile, e malagevolmente è guardata quella che molti amano, e molesta cosa è a possedere quella la quale da tutti è disprezzata. Con minor miseria si possiede quella la quale è riputata sozza, che non si guarda quella la quale è riputata bella. Niuna cosa è sicura, che sia da tutti i disidèri del popolo disiderata: percioché alcuno, a doverla possedere, si sforza di dover piacere con la sua bellezza, alcun altro col suo ingegno, e alcun con la piacevolezza de’ lor costumi, e certi sono che con la loro liberalitá la sollecitano; e alcuna volta è presa quella cosa la quale d’ogni parte è combattuta.]

[E, se per avventura alcuni quella dicono da dovere esser presa, e per la dispensazion della casa, e ancora per le consolazioni che di lei si deono aspettar nelle infermitá, e similmente per fuggire la sollicitudine della cura famigliare: tutte queste cose fará molto meglio un fedel servo, il quale è ubbidiente alla volontá del suo signore, che non fará la moglie, la quale allora sé estima esser donna, quando fa contro alla volontá del marito; e molto meglio possono stare e stanno dintorno all’uomo infermo gli amici e’ servi domestici, obbligati per li benefici ricevuti, che la moglie, la quale a noi imputi le sue lagrime, e la speranza della ereditá, e, rimproverandoci la sua sollecitudine, l’anima di colui ch’è infermo turbi infino alla disperazione. E, se egli avverrá che essa infermi, fia di necessitá che con lei insieme sia infermo il misero marito, e che esso mai dal letto, dove ella giacerá, non si parta; e, s’egli avverrá che la moglie sia buona e comportabile (la quale radissime volte si truova), piagnerá il misero marito con lei insieme parturiente, e con lei dimorante in pericolo sará tormentato. Il savio uomo non può esser solo, percioché egli ha con seco tutti quegli che son buoni, o che mai furono; ed ha l’animo libero, il quale in quella parte che piú gli piace si trasporta, e lá dove egli non puote essere col corpo, lá va col pensiero; e, se egli non potrá aver copia d’uomini, egli parla con Domeneddio. Non è alcuna volta il savio men solo che quando egli è solo.]

[Appresso, il menar moglie per aver figliuoli, o accioché ’l nome nostro non muoia, o perché noi abbiamo alla nostra vecchiezza alcuni aiuti e certi eredi, è stoltissima cosa. Che appartiene egli a noi, partendoci della presente vita, che un altro sia del nome nostro nominato? Conciosiacosaché ancora il figliuolo non rifá il vocabolo del padre, e innumerabili popoli sieno, li quali per quel medesimo modo sieno appellati. E che aiuti son della tua vecchiezza, nutricare in casa tua coloro li quali spesse volte prima di te muoiono, o sono di perversissimi costumi, o, quando pervenuti saranno alla matura etá, paia loro che tu muoia troppo tardi? Molto migliori e piú certi eredi son gli amici e i propinqui, li quali tu t’avrai eletti, che non son quegli li quali, o vogli tu o no, sarai costretto d’avere.]

[Cosí adunque Teofrasto confortò il savio uomo a prender moglie. Per che assai manifestamente si può comprendere non sottomettersi a piccol pericolo colui il quale a tôr moglie si dispone: il che, oltre a ciò che da Teofrasto, possiam comprendere per l’esemplo del misero messer Iacopo Rusticucci, il quale, per la perversitá della sua, ne mostra essere incorso nella dannazion perpetua. Guardinsi adunque, e con gran circunspezione si pongan mente alle mani, coloro li quali a prenderne alcuna si dispongono, percioché rade volte s’abbatte l’uomo a Lucrezia e a Penelope o a simiglianti; percioché, secondo che io ho a molti giá udito dire, cosí come elle paiono il giorno nella via agnoli, cosí la notte nel letto son diavoli.]

 

Poi séguita l’autore: «S’io fossi stato»; dove comincia la quinta parte del presente canto, nella quale, poi che ha dimostrato chi queste tre ombre sieno e ’l priego loro, dimostra quello che esso alle tre ombre dicesse. Dice adunque: «S’io fossi stato dal fuoco coperto», che non mi fosse potuto cadere addosso, «Gittato mi sarei», dell’argine, «tra lor di sotto, E credo che ’l dottor l’avria sofferto», considerando che essi erano uomini da dovere onorare. «Ma, perch’io mi sarei bruciato e cotto», gittandomi tra loro, «Vinse paura», ritenendomi, «la mia buona voglia, Che di loro abbracciar mi facea ghiotto», cioè disideroso.

«Poi cominciai: – Non dispetto», che io abbia di vedervi, con tutto che voi siate cosí cotti e pelati, «ma doglia La vostra condizion», ora cosí afflitta, «dentro mi fisse, Tanto, che tardi tutta si dispoglia», cioè mai da me non si partirá. E questa cotal doglia si fisse in me, «Tosto», cioè incontanente, «Che questo mio signor mi disse Parole, per le quali io mi pensai, Che qual voi siete, tal gente venisse», cioè degna d’onore. E le parole, le quali dice che Virgilio gli disse, son quelle di sopra, dove dice: «A costoro si vuole esser cortese», ecc.

Poi che l’autore ha detto questo, rispondendo a ciò che messer Iacopo aveva detto («E se miseria d’esto luogo sollo», ecc.), ed egli risponde alla domanda fatta da loro, nella quale il pregano che dovesse lor dire se egli era della lor cittá, e dice: – «Di vostra terra sono», cioè della cittá vostra, «e sembrami L’ovra di voi» laudevole (non il peccato), «e gli onorati nomi», percioché veduti non gli avea, ma uditi ricordare, «Con affezion ritrassi ed ascoltai», da coloro li quali gli sapevano e che ne ragionavano. E, detto questo, dice loro quello che va per quel cammin facendo: «Lascio lo fèle», cioè l’amaritudine del mondo, o piú tosto quella amaritudine che per li peccati séguita a coloro che del peccare non si rimangono; la qual cosa esso faceva, dolendosi delle sue colpe e andando alla penitenza; e però segue: «e vo pe’ dolci pomi», della beata vita, «Promessi a me per lo verace duca», cioè Virgilio (quando gli disse nel primo canto: «Ond’io, per lo tuo me’, penso e discerno», ecc.); «Ma fino al centro», della terra, cioè infino al profondo dello ’nferno, «pria convien ch’io torni», – cioè discenda. La cagione perché ciò gli convenga fare, è piú volte nelle cose precedenti stata mostrata.

– «Se lungamente». Qui comincia la sesta parte del presente canto, nella quale, poi che l’autore ha dimostrato quel che a lor rispondesse, ed egli scrive una domanda fattagli da loro e la sua risposta, e dice: – «Se lungamente», cioè per molti anni, «l’anima conduca Le membre tue», cioè ti servi in vita – «rispose quegli allora», cioè messer Iacopo, – «E se la fama tua dopo te luca»: per due cose lo scongiura, disiderate molto da’ mortali, e da dover piegare ciascuno a dover dire quello di che domandato è; «Cortesia e valor»: «cortesia» par che consista negli atti civili, cioè nel vivere insieme liberalmente e lietamente, e fare onore a tutti secondo la possibilitá; «valore» par che riguardi piú all’onore della republica, all’altezza delle ’mprese, e ancora agli esercizi dell’arme, nelle quali costoro furono onorevoli e magnifici cittadini; «di’ se dimora, Nella nostra cittá, sí come suole», quando noi vivevamo, «O se del tutto se n’è gita fuora», cioè partitasi, senza piú adoperarvisi coma solea. E, detto questo, dice la cagione che il muove a dubitare e a domandarne.

«Ché Guiglielmo Borsiere». Questi fu cavalier di corte, uomo costumato molto e di laudevol maniera; ed era il suo esercizio, e degli altri suoi pari, il trattar paci tra’ grandi e gentili uomini, trattar matrimoni e parentadi, e talora con piacevoli e oneste novelle recreare gli animi de’ faticati, e confortargli alle cose onorevoli; il che i moderni non fanno, anzi, quanto piú sono scellerati e spiacevoli e con brutte operazioni e parole, piú piacciono e meglio son provveduti. Poi séguita: «il qual si duole Con noi per poco», cioè per una medesima colpa, quantunque non molto continuata da esso; ma l’aver poche volte peccato, sol che nel peccato si muoia, non menoma la pena; «e va lá co’ compagni», da’ quali noi ci partimmo quando qui venimmo, «Assai ne cruccia con le sue parole», – dicendone che del tutto partita se n’è.

Soleva essere in Firenze questo costume, che quasi per ogni contrada solevano insieme adunarsi quegli vicini, li quali per costumi e per ricchezza poteano, e fare una lor brigata, vestirsi insieme una volta o due l’anno, cavalcare per la terra insieme, desinare e cenare insieme, non trasandando né nel modo del convitare né nelle spese: e cosí ancora invitavan talvolta de’ lor vicini e degli onorevoli cittadini. E, se avveniva che alcun gentiluomo venisse nella cittá, quella brigata si riputava da piú, che prima il poteva trarre dell’albergo e piú onorevolmente ricevere, E tra loro sempre si ragionava di cortesia e d’opere leggiadre e laudevoli, E questo è quello di che costui domanda se piú in Firenze s’usa, conciosiacosaché alli lor tempi s’usasse, disiderando di saperlo dall’autore, comeché Guiglielmo Borsiere, il qual visse sí lungamente, che mostra che a’ suoi tempi quella usanza vedesse, e cosí ancora la vedesse intralasciata.

E a questa domanda fa l’autore la seguente risposta: – «La gente nuova, e i súbiti guadagni, Orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sí che tu giá ten piagni. – Cosí gridai con la faccia levata».

Dice adunque che «la nuova gente», intendendo per questa coloro li quali, oltre agli antichi, divennero abitatori di Firenze; e, sí come io estimo, esso dice questo per molti nuovi cittadini, e massimamente per la famiglia de’ Cerchi, li quali poco davanti a’ tempi dell’autore erano venuti del Pivier d’Acone ad abitare in Firenze; e subitamente, per l’esser bene avventurati in mercatanzie, erano divenuti ricchissimi, e da questo orgogliosi e fuor di misura: e, percioché, come altra volta è stato detto, erano salvatichetti, e poco con gli altri cittadini comunicavano, e in questo avevano in parte ritratto indietro il buon costume delle brigate; e, oltre a ciò, per la loro alterigia avevano Firenze divisa, come davanti è stato mostrato, e avevanla in sí fatta guisa divisa, che la cittá giá se ne dolea, in quanto molti scandali e molti mali, e uccisioni e ferite e zuffe n’eran seguite: la qual cosa l’autore, sí come colui al qual toccava, turbato e col viso levato al cielo, quasi della pazienza di Dio dolendosi, disse.

«E i tre», cioè quelle tre ombre, «che ciò inteser per risposta», fatta alla lor domanda, «Guatâr l’un l’altro, come al ver si guata», cioè turbati, dando piena fede alle parole.

– «Se l’altre volte». Qui comincia la settima parte di questo canto, nella quale, poi che l’autore ha risposto alla lor domanda, ed egli pone un priego fattogli da loro, e la lor partita, dicendo: – «Se l’altre volte», che tu rispondi altrui, «sí poco ti costa», come al presente hai fatto, – «Risposer tutti, – il satisfare altrui, Felice te, che sí parli a tua posta! Però, se campi», cioè se esci, «d’esti luoghi bui», cioè oscuri dello ’nferno, «E torni a riveder le belle stelle», su nel mondo, «Quando ti gioverá», cioè diletterá, «dicere: io fui», in inferno, «Fa’ che di noi alla gente favelle», – non in dire come noi siam qui in eterno supplicio per lo nostro peccato, ma come ne cale dell’onore della nostra cittá, e duolci d’udire che cortesia o valor si sia partita di quella.

«Indi rupper la ruota», cioè il cerchio che fatto avean di sé, come di sopra è detto; e chiamala «ruota», percioché continuamente si rotavano e volgeano; «e a fuggirsi», cioè in guisa d’uomini che fuggissero a tornarsi alla loro schiera, «Ale sembiâr le gambe loro snelle», cioè parve che volassero. «Un amen», questa dizione «amen», la qual si dice in brevissimo tempo, «non saria potuto dirsi Tosto», da alcuno, «cosí», prestamente, «com’ei furon spariti, Per che al maestro parve di partirsi», poi s’eran partiti essi.

«Io il seguiva». Qui comincia la parte ottava di questo canto, nella quale, poi che l’autore ha dimostrato le tre ombre essersi dipartite, dimostra come, piú avanti procedendo, trovarono la caduta di quel fiumicello, e dice: «Io il seguiva, e poco eravam iti», poi che quelle tre ombre si partiron da noi, «Che il suon dell’acqua», la qual cadeva nell’ottavo cerchio dello ’nferno, e però faceva suono, «n’era sí vicino, Che per parlar», cioè per aver parlato, «saremmo appena uditi», l’un l’altro. E, per dimostrare quanto era il suono che questo fiumicello faceva cadendo, pone una comparazione d’una acqua che cade discendendo dell’Alpi di San Benedetto, le quali si trovano andando per lo cammin dritto da Firenze a Forlí.

«Come quel fiume, c’ha proprio cammino, Prima», che alcun altro, «da monte Veso inver’ levante, Dalla sinistra costa d’Appennino». Monte Veso è un monte nell’Alpi, la sopra il Monferrato, e parte la Provenza dalla Italia, e di questo monte Veso nasce il fiume chiamato il Po. Il quale in sé riceve molti fiumi, li quali caggiono dell’Alpi dalla parte di ver’ ponente, e d’Appennino di ver’ levante, e mette in mare per piú foci, e tra l’altre per quella di Primaro, presso a Ravenna; e questa è quella che è piú orientale. E il primo fiume, il quale nasce in Appennino, senza mettere in Po, andando l’uomo da Po inver’ levante, è chiamato, la dove nasce, Acquacheta; poi, divenendo al piano presso a Forlí in Romagna, cambia nome, ed è chiamato Montone, percioché impetuosamente corre e passa allato a Forlí, e di quindi discende a Ravenna, e lungo le mura d’essa corre, e forse due miglia piú giú mette nel mare Adriatico; e cosí è il primo che tiene «proprio cammino», appresso a quello che scende di monte Veso. E dice l’autore che egli viene dalla sinistra costa d’Appennino. Intorno alla qual cosa è da sapere che Appennino è un monte, il quale alcuni vogliono che cominci a questo monte Veso; altri dicono che egli comincia a Monaco, nella riviera di Genova, e viensene costeggiando verso quel monte ch’è chiamato Pietra Apuana, lasciandosi dalla sinistra parte il Monferrato, e Torino e Vercelli, e dal destro tutta Lunigiana, e parte della riviera di Genova; poi quivi, piegandosi alquanto, si lascia alla sinistra Piagenza, Parma, Reggio e Modena, e alla destra o di ver’ mezzodí, Luni, Lucca e Pistoia; quindi, procedendo alla sinistra, si lascia Bologna e tutta la Romagna e la Marca, e alla destra Firenze, Arezzo, Perugia, e tutto il Patrimonio infino a Roma; poi, procedendo oltre, si lascia alla sinistra Abruzzo, Terra di Bari, Puglia e Terra d’Otranto, e dalla destra, Campagna, Terra di lavoro, il principato di Salerno e parte della Calavria, infino al Fare; dalla sinistra similmente ha parte di Calavria, venendo infino al Fare di Messina, dove è tronco da Peloro, il quale è un monte in Cicilia, a fronte al fine suo. Ora si chiama il lato destro di questo monte quello il quale è volto inverso il mar Tireno, e quello che è volto verso il mare Adriano è chiamato il sinistro; e questo, percioché, movendosi dal suo principio dimostrato di sopra, e andando per quello verso il levante, sempre porta la destra mano verso il mar Tireno, e la sinistra verso il mare Adriano.

Dice adunque l’autore nello esemplo il quale induce, o comparazione che dir la vogliamo: «come quel fiume», chiamato Montone, «c’ha proprio cammino», peroché, avanti a questo, alcuno che ne nasca dalla sinistra costa d’Appennino, non ha alcuno altro proprio cammino, sí come quegli che tutti mettono, come detto è di sopra, in Po, e cosí per lo cammino altrui, e non per lo loro, corrono al mare; «Prima», che alcun altro, «da monte Veso inver’ levante», cioè di quegli fiumi che, poi che il Po ha messo in mare, «Dalla sinistra costa d’Appennino». E vuolsi questa lettera cosí ordinare: «Come quel fiume, c’ha prima proprio cammino da monte Veso inver’ levante dalla sinistra costa d’Appennino, Che si chiama Acquacheta suso», nel mondo, «avante Che si divalli giú nel basso letto», cioè nel piano di Romagna, «Ed a Forlí di quel nome», Acquacheta, «è vacante», cioè privato, percioché non piú Acquacheta, ma Montone è chiamato.

Forlí fu giá assai piú notabile terra che oggi non è, e chiamavasi Forum Livii, percioché un consolo chiamato Livio, al quale era toccata la Gallia cisalpina in provincia, quivi ordinò la corte sua a dover tener ragione a quegli della provincia: comeché essi dicano lor ciance d’una reina chiamata Livia, la qual non si truova che fosse in rerum natura, e da quella dicono essere stata prima edificata la cittá.

«Rimbomba lá sovra San Benedetto Dell’Alpe, per cadere ad una scesa». Questo fiume chiamato Acquacheta nasce nelle dette Alpi, in un luogo chiamato l’Eremo, e, discendendo a guisa d’un fossato, giú cade non guari lontano al monisterio di San Benedetto predetto, d’un balzo giuso; e in quel cadere fa un gran romore, e massimamente quando a tempo piovoso corre con piú acqua.

 

«Ove dovea per mille esser ricetto». Io fui giá lungamente in dubbio di ciò che l’autore volesse in questo verso dire; poi, per ventura trovatomi nel detto monisterio di San Benedetto insieme con l’abate del luogo, ed egli mi disse che fu giá tenuto ragionamento per quegli conti, li quali son signori di quella Alpe, di volere assai presso di questo luogo, dove quest’acqua cade, si come in luogo molto comodo agli abitanti, fare un castello, e riducervi entro molte villate da torno di lor vassalli: poi morí colui che questo, piú che alcun degli altri, metteva innanzi, e cosí il ragionamento non ebbe effetto. E questo è quello che l’autor dice: «Ove dovea per mille», cioè per molti, «esser ricetto», cioè stanza e abitazione.

«Cosí giú d’una ripa discoscesa, Trovammo risonar quell’acqua tinta», di quel fiumicello, e far si gran romore, «Sí che ’n poca ora avria l’orecchia offesa», percioché ’l troppo romore, a chi non è uso, offende e noia l’udire.

«Io avea una corda intorno cinta, E con essa pensai alcuna volta», quando egli era smarrito nella valle, «Prender la lonza alla pelle dipinta», quella bestia delle tre che ’l suo andare impediva. «Poscia che l’ebbi da me tutta sciolta», cioè scinta, «Si come ’l duca m’avea comandato», che io me la scignessi e dessigliele, «Porsila a lui aggroppata ed avvolta. Ond’e’ si volse ver’ lo destro lato. Ed alquanto di lungi dalla sponda», di quel fiumicello. «La gittò giú in quell’alto burrato», cioè in quel fiume, il qual chiama «burrato» per lo avviluppamento d’esso.

Per la qual cosa l’autor dice: – «Ei pur convien che novitá risponda – Dicea fra me medesmo», veggendo quel che Virgilio faceva, – «al nuovo cenno, Che ’l maestro con l’occhio si seconda», cioè segue: percioché Virgilio, gittata la corda, stava atteso con l’occhio sopra l’acqua, e questo faceva piú credere all’autore che novitá dovesse rispondere.

«Ahi quanto cauti gli uomini esser denno», cioè deono, «Presso a color che non veggion pur l’opra», manifesta, «Ma per entro il pensier miran col senno!» In queste parole assai notabili, n’ammonisce l’autore e ricordane con quanto avvedimento ci convenga stare appresso a’ savi uomini; conciosiacosaché essi non solamente giudicano delle nostre affezioni per le nostre evidenti opere, ma ancora con acuto e discreto pensiero spesse volte s’accorgono de’ nostri disidèri. E queste parole dice per quello che a Virgilio vede fare, il quale, per avviso con un picciol cenno fatto con una corda, provocò a venire in publico a sé quello che egli disiderava, cioè Gerione.

E questo nelle seguenti parole dimostra Virgilio all’autore, il qual, seguendo, dice: «El disse a me: – Tosto verrá di sopra», a quest’acqua, «Ciò ch’io attendo, e», ciò, «che ’l tuo pensier sogna», cioè non certo vede, «Tosto convien ch’al viso tuo si scuopra», cioè si manifesti. E, percioché quello, che seguir dee, pare all’autor medesimo una cosa incredibile, avanti che a scriverlo pervenga, con parole escusatorie e ancora con giuramento dimostra sé volentieri averlo trapassato senza dire, se la materia l’avesse patito.

Dice adunque: «Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna», cioè che somiglia bugia, come fa quello che dir debbo, «Dee l’uom chiuder le labbra, quanto el puote», cioè tacerlo, «Peroché senza colpa», di cui che ’l dice, «fa vergogna», a quel cotal che ’l dice; in quanto color, che l’odono, si fanno beffe di lui, e dicono lui essere grandissimo bugiardo.

«Ma qui tacer non posso», che io non dica questo vero che avrá faccia di menzogna; quasi voglia dire: se io potessi, il tacerei; e appresso questo, con giuramento afferma quello esser vero che esso dice che vide: «e per le note, Di questa Commedia, lettor, ti giuro, S’elle non sien di lunga grazia vôte». Il giuramento è in sustanza questo: se io non dico il vero, che questo mio libro non duri lungamente nella grazia delle genti. Il quale è molto maggior giuramento, quanto a colui che il fa, che molti non stimano; percioché qualunque è colui che in fatica si mette di comporre alcuna cosa, il primo suo disiderio è di pervenire per quella composizione in fama e in notizia delle genti; e, appresso, è che questa fama duri lungamente, né maggior cruccio potrebbe avere che il poter credere la sua gran fatica dover brieve tempo durare. Giura adunque per questo, come detto è, e dice: «per le note di questa Commedia». «Note» son certi segni in musica, li quali hanno a dimostrare quando e quanto si debba la voce elevare e quando depriemere, li quali vedendo i cantori e l’ammaestramento di quegli seguitando, vengono ad una concordanza nel canto: e cosí nella presente Commedia si posson dir «note» quelle parti estreme de’ versi, le quali, misurate di certe sillabe e lettere, si fanno intra se medesime consonanti, sí come qui di terzo in terzo verso si vede. E chiama l’autor qui questo suo libro Commedia, la quale è una spezie di poesia; e percioché d’essa nel principio della presente opera fu pienamente trattato, non curo qui di dirne piú avanti.

Poi l’autore, fatto il giuramento, dice quello che esso vide, e continuandosi al giuramento precedente, dice: «Ch’io vidi per quell’aer grosso», sí come pieno di vapor fetidi, li quali non avevano onde svaporare di quel luogo, «e scuro», senza luce, «Venir notando una figura in suso», per quel fiume, nel quale Virgilio aveva gittata la corda; e dice che questa figura era «Maravigliosa ad ogni cuor sicuro». Orribil cosa adunque doveva essere ed era, sí come esso medesimo dimostra nel principio del seguente canto. Appresso per una comparazion dimostra come questa figura notando venisse susa, e dice: «Sí come torna colui», cioè quel marinaio, «che va giuso», al fondo del mare, «Talvolta a solver», cioè a sciogliere, «l’áncora»: «l’áncora» è uno strumento di ferro, il quale dall’un de’ lati ha piú rampiconi, e dall’altro ha un anello, per lo quale si lega alla fune che il manda giú nel fondo del mare, e di quello il ritira sú; «ch’aggrappa», cioè piglia, «O scoglio od altro che nel mare è chiuso», cioè ascoso.

Usano i marinari quando vengono ne’ porti con li lor legni, accioché il vento non li sospinga in terra, gittare in mare, nella parte opposita alla terra, alcune ancore, e queste co’ rampiconi loro si ficcano nel fondo del mare; ed essi poi quella sartia, con la quale l’áncora è legata, legano alla nave, e cosí la nave è ritenuta da poter discorrere in terra. Ora avvien talvolta che, non trovando l’áncora fondo da potersi aggrappare, e il vento movendo la nave, questa ancora seguendola, ara il fondo tanto, che per ventura ella truova o scoglio o altro dove ella s’appiglia; e, quando questo avviene, volendosi con lor legno partire i naviganti, non è molto agevole a riaver l’ancora, come sarebbe se semplicemente nella rena o nella terra del fondo del mare fitta si fosse. Conviene adunque che alcuno insino laggiú discenda, e sviluppila da’ luoghi ove avviluppata è, accioché sÙ tirar si possa. Li quali poi, insú ritornando, fanno l’atto il quale qui l’autor dice che faceva questa fiera, sú venendo alla sommitá del fiume per lo segno fatto da Virgilio. E l’atto di questo cotale dice che è: «Che ’nsu si stende», con le braccia, dalla spessezza dell’acqua aiutato a ritirarsi insú, quel facendo, «e da piè si rattrappa», cioè dalle parti del corpo inferiori, le quali si raccolgono insú, e raccolte fierono la spessezza dell’acqua, e quella gli presta aiuto a sospignerlo in alto.