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L'assassinio di Via Belpoggio

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Io seppi subito che quella grotta era stata costruita da alcuni uomini che l’usavano per una cura inventata da loro, una cura che doveva essere letale per uno dei rinchiusi (molti dovevano esserci laggiù nell’ombra) ma benefica per tutti gli altri. Proprio così! Una specie di religione, che abbisognava di un olocausto, e di ciò naturalmente non fui sorpreso.

Era più facile assai indovinare che, visto che m’avevano posto vicino alla cassa di vetro nella quale la vittima doveva essere asfissiata, ero prescelto io a morire, a vantaggio di tutti gli altri. Ed io già anticipavo in me i dolori della brutta morte che m’aspettava. Respiravo con difficoltà, e la testa mi doleva e pesava, per cui la sostenevo con le mani, i gomiti poggiati sulle ginocchia.

Improvvisamente tutto quello che già sapevo fu detto da una quantità di gente celata nell’oscurità.

Mia moglie parlò per prima: – Affrettati, il dottore ha detto che sei tu che devi entrare in quella cassa. – A me pareva doloroso, ma molto logico. Perciò non protestai, ma finsi di non sentire. E pensai: «L’amore di mia moglie m’è sembrato sempre sciocco». Molte altre voci urlarono imperiosamente: – Vi risolvete ad obbedire? – Fra queste voci distinsi chiaramente quella del dottor Paoli. Io non potevo protestare, ma pensai: «Lui lo fa per essere pagato».

Alzai la testa per esaminare ancora una volta la cassa di vetro che m’attendeva. Allora scopersi, seduta sul coperchio della stessa, la sposa. Anche a quel posto ella conservava la sua perenne aria di tranquilla sicurezza. Sinceramente io disprezzavo quella sciocca, ma fui subito avvertito ch’essa era molto importante per me. Questo l’avrei scoperto anche nella vita reale, vedendola seduta su quell’ordigno che doveva servire ad uccidermi. E allora io la guardai, scodinzolando. Mi sentii come uno di quei minuscoli cagnotti che si conquistano la vita agitando la propria coda. Un’abbiezione!

Ma la sposa parlò. Senz’alcuna violenza, come la cosa più naturale di questo mondo essa disse: – Zio, la cassa è per voi.

Io dovevo battermi da solo per la mia vita. Questo anche indovinai. Ebbi il sentimento di saper esercitare uno sforzo enorme senza che nessuno se ne potesse avvedere. Proprio come prima avevo sentito in me un organo che mi permetteva di conquistare il favore del mio giudice senza parlare, così scopersi in me un altro organo, che non so che cosa fosse, per battermi senza muovermi e così assaltare i miei avversari non messi in guardia. E lo sforzo raggiunse subito il suo effetto. Ecco che Giovanni, il grosso Giovanni, sedeva nella cassa di vetro luminosa, su una sedia di legno simile alla mia e nella stessa mia posizione. Era piegato in avanti, essendo la cassa troppo bassa, e teneva gli occhiali in mano, affinché non gli cadessero dal naso. Ma così egli aveva un po’ l’aspetto di trattare un affare, e di essersi liberato dagli occhiali, per pensare meglio senza vedere nulla. Ed infatti, benché sudato e già molto affannato, invece che pensare alla morte vicina era pieno di malizia, come si vedeva dai suoi occhi, nei quali scorsi il proposito dello stesso sforzo che poco prima avevo esercitato io. Perciò io non sapevo aver compassione di lui, perché di lui temevo.

Anche a Giovanni lo sforzo riuscì. Poco dopo al suo posto nella cassa c’era l’Alberi, il lungo, magro e sano Alberi, nella stessa posizione che aveva avuto Giovanni ma peggiorata dalle dimensioni del suo corpo. Era addirittura piegato in due e avrebbe destato veramente la mia compassione se anche in lui oltre che affanno non ci fosse stata una grande malizia. Mi guardava di sotto in su, con un sorriso malvagio, sapendo che non dipendeva che da lui di non morire in quella cassa.

Dall’alto della cassa di nuovo la sposa parlò: – Ora, certamente toccherà a voi, zio. – Sillabava le parole con grande pedanteria. E le sue parole furono accompagnate da un altro suono, molto lontano, molto in alto. Da quel suono prolungatissimo emesso da una persona che rapidamente si moveva per allontanarsi, appresi che la grotta finiva in un corridoio erto, che conduceva alla superficie della terra. Era un solo sibilo di consenso, e proveniva da Anna che mi manifestava ancora una volta il suo odio. Non aveva il coraggio di rivestirlo di parole, perché io veramente l’avevo convinta ch’essa era stata più colpevole verso di me che io verso di lei. Ma la convinzione non fa nulla, quando si tratta di odio.

Ero condannato da tutti. Lontano da me, in qualche parte della grotta, nell’attesa, mia moglie e il dottore camminavano su e giù e intuii che mia moglie aveva un aspetto risentito. Agitava vivacemente le mani declamando i miei torti. Il vino, il cibo e i miei modi bruschi con lei e con la mia figliuola.

Io mi sentivo attratto verso la cassa dallo sguardo di Alberi, rivolto a me trionfalmente. M’avvicinavo ad essa lentamente con la sedia, pochi millimetri alla volta, ma sapevo che quando fossi giunto ad un metro da essa (così era la legge) con un solo salto mi sarei trovato preso, e boccheggiante.

Ma c’era ancora una speranza di salvezza. Giovanni, perfettamente rimessosi dalla fatica della sua dura lotta, era apparso accanto alla cassa, che egli più non poteva temere, essendoci già stato (anche questo era legge laggiù). Si teneva eretto in piena luce, guardando ora l’Alberi che boccheggiava e minacciava, ed ora me, che alla cassa lentamente m’avvicinavo.

Urlai: – Giovanni. Aiutami a tenerlo dentro… Ti darò del denaro. – Tutta la grotta rimbombò del mio urlo, e parve una risata di scherno. Io intesi. Era vano supplicare. Nella cassa non doveva morire né il primo che v’era stato ficcato, né il secondo, ma il terzo. Anche questa era una legge della grotta, che come tutte le altre, mi rovinava. Era poi duro che dovessi riconoscere che non era stata fatta in quel momento per danneggiare proprio me. Anch’essa risultava da quell’oscurità e da quella luce. Giovanni neppure rispose, e si strinse nelle spalle per significarmi il suo dolore di non poter salvarmi e di non poter vendermi la salvezza.

E allora io urlai ancora: – Se non si può altrimenti, prendete mia figlia. Dorme qui accanto. Sarà facile. – Anche questi gridi furono rimandati da un’eco enorme. Ne ero frastornato, ma urlai ancora per chiamare mia figlia: – Emma, Emma, Emma!

Ed infatti dal fondo della grotta mi pervenne la risposta di Emma, il suono della sua voce tanto infantile ancora: – Eccomi, babbo, eccomi.

Mi parve non avesse risposto subito. Ci fu allora un violento sconvolgimento che credetti dovuto al mio salto nella cassa. Pensai ancora: «Sempre lenta quella figliuola quando si tratta di obbedire». Questa volta la sua lentezza mi rovinava ed ero pieno di rancore.

Mi destai. Questo era lo sconvolgimento. Il salto da un mondo nell’altro. Ero con la testa e il busto fuori del letto e sarei caduto se mia moglie non fosse accorsa a trattenermi. Mi domandò: – Hai sognato? – E poi, commossa: – Invocavi tua figlia. Vedi come l’ami?

Fui dapprima abbacinato da quella realtà in cui mi parve che tutto fosse svisato e falsato. E dissi a mia moglie che pur doveva saper tutto anche lei: – Come potremo ottenere dai nostri figliuoli il perdono di aver dato loro questa vita?

Ma lei, sempliciona, disse: – I nostri figliuoli sono beati di vivere.

La vita, ch’io allora sentivo quale la vera, la vita del sogno, tuttavia m’avviluppava e volli proclamarla: – Perché loro non sanno niente ancora.

Ma poi tacqui e mi raccolsi in silenzio. La finestra accanto al mio letto andava illuminandosi e a quella luce io subito sentii che non dovevo raccontare quel sogno perché bisognava celarne l’onta. Ma presto, come la luce del sole continuò così azzurrigna e mite ma imperiosa ad invadere la stanza, io quell’onta neppure la sentii. Non era la mia la vita la vita del sogno e non ero io colui che scodinzolava e che per salvare se stesso era pronto d’immolare la propria figliuola.

Però bisognava evitare il ritorno a quell’orrenda grotta. Ed è così ch’io mi feci docile, e volonteroso m’adattai alla dieta del dottore. Qualora senza mia colpa, dunque non per libazioni eccessive ma per l’ultima febbre io avessi a ritornare a quella grotta, io subito salterei nella cassa di vetro, se ci sarà, per non scodinzolare e per non tradire.

Lo specifico del dottor Menghi

La seduta della Società Medica stava per essere chiusa quando il dottor Galli, un socio che per invincibile timidezza non prendeva mai la parola, si alzò e informò l’assemblea che il dottor Menghi, al suo letto di morte, l’aveva pregato di leggere alla Società una sua memoria su un nuovo siero da lui scoperto. – Mi pare si tratti di un nuovo siero! – si corresse il dottor Galli dubbioso.

I medici più giovani gridarono subito: – Si legga, si legga!…

Ho deciso che la mia invenzione muoia con me ma non so risolvermi a conservare il segreto sulle strane esperienze che con tale invenzione mi è stato concesso di fare. Non potendo perciò mettere a disposizione di tutti il materiale che servì a me per i miei esperimenti, mi sarà difficile di far credere nella verità di quanto sto per esporre. Mi sostiene la fiducia che le mie parole, essendo tutte basate su fatti controllati con la massima accuratezza, portino impresso il segno della verità. Perciò la mia memoria non è destinata al grande pubblico che tale verità non saprebbe riconoscere ma ad una cerchia ristretta di scienziati. Non temo i tanti nemici che ho anche fra voi. Soffersi molto per le vostre ironie. Ora che scrivo a chi leggerà quando sarò morto, mi sento aleggiare d’intorno la pace che vigerà allora; io non soffrirò più ed è altrettanto certo che voi lascerete il morto in pace.

La quiete che mi deriva da tali idee mi fa riconoscere volentieri che io vi diedi talvolta motivo a dubitare di me. Molti anni or sono, con precipitazione giovanile io proclamai la mia scoperta di un siero atto a ridare istantaneamente ad un organismo vizzo la prisca gioventù. Fu poi provato che la gioventù data da me durava troppo poco ed un mio avversario cui non serbo rancore per quanto m’abbia ferito con tanta malizia, asserì che la mia gioventù non era altro che una corsa pazza alla vecchiaia. Lo riconobbero tutti però: io avevo scoperto uno stimolante incomparabile superiore a tutti quelli finora in uso. Nella mia superbia sdegnai di vantarmene: non era un risultato adeguato allo sforzo per fermare la gioventù, di scoprire uno stimolante anche esso di applicazione limitata perché non assimilabile che da organismi dotati ancora di piena vitalità. Ne parlo perché oggi io amo quella mia bella scoperta che abbreviava la vita ma la rendeva intensa mentre la scoperta di cui ho da parlarvi e che raggiunse il suo scopo mi fa ribrezzo. Parlo della prima anche perché ha relazione diretta con l’argomento per cui scrissi questa memoria. E non è per difendermi ma per schiarire che io neghi che il mio avversario abbia avuto ragione asserendo che il mio specifico meritasse la definizione di alcole Menghi. Il mio specifico è toto genere differente dall’alcole. L’alcole rallenta il ricambio della materia; il mio lo precipita, ed è così che, mentre l’alcole impaccia il lavoro del cuore fino ad esaurirlo, il mio specifico la facilita tanto che l’organismo intero vi soggiace. Notate: l’organo che è la sorgente della mia vita non trovando ostacoli in un organismo tutto vitale esorbita e uccide. Il dottor Clementi mi aiutò a costruire tale teoria che seppelliva la mia scoperta; anzi – lo riconosco volentieri – le parole sono tutte sue. E questa teoria, anzi queste parole, dovevano condurmi diritto diritto all’antidoto dell’alcole Menghi. Il mio nuovo siero fu immaginato perciò prima teoricamente e adesso dopo le varie esperienze che ne feci non ho nulla da mutare alla sua teoria. Mai pensai di aver trovato la pietra filosofale, la vita eterna; io dovevo arrivare ad un’economia delle forze vitali per la quale la vita fosse allungata incommensurabilmente. E mi sarebbe bastato! Mi sarebbe bastato di poter dire all’artista e allo scienziato: Ecco! La vita non è breve più neppure per voi!

 

L’assemblea di scienziati cui mi dirigo difficilmente potrà comprendere come io abbia potuto rinunziare alla gloria. Oh! Ve ne prego: Ammettete per un istante che uno degli inventori dei terribili esplosivi moderni avesse esitato di comunicare alla nostra umanità immatura la sua invenzione, lo comprendereste voi? Da me, poi, questo scrupolo fu aggravato da una promessa fatta alla persona più cara ch’io m’abbia avuta e cioè al suo letto di morte. Letta questa memoria comprenderete certo l’importanza della scoperta e dei miei studi e nello stesso tempo la ragionevolezza dei miei scrupoli.

Vado indagando che cosa io vi possa dire della mia scoperta tanto da rendervi possibile seguirmi negli esperimenti che vi descriverò minutamente e non tanto da rivelarvela. Lo specifico – l’avrete già immaginato – appartiene all’organoterapia. Lo conquistai da un animale longevo per eccellenza. Non pensate a certi pesci d’acqua dolce la cui vita – come si constatò in certi parchi – dura oltre tre secoli. Io trovai quale fosse l’animale più longevo con la semplice osservazione del suo metodo di vita, del suo modo di moversi, di guardare e specialmente di attaccare e difendersi. Fu sempre l’alcole Menghi che mi fornì gli elementi ad un’osservazione tanto sicura. Gli animali e le persone cui fu iniettato quell’abbreviatore di vita hanno i movimenti rapidi anzi violenti. Non sanno prendere ma afferrano, non sanno lasciare ma gettano. Hanno inoltre la veglia e il sonno intensi e brevi. La loro giornata conta, anziché ventiquattr’ore, dodici e anche meno. L’animale longevo di cui parlo ha la giornata di un anno (io so dove correte col pensiero ma v’ingannate), i suoi movimenti sono lenti, sicuri e misurati.

Se anche indovinaste di quale animale si tratti, non trovereste mai più quale suo organo mi diede il siero di cui abbisognavo. C’è un mitigatore nel nostro organismo! È ammirabile come i casi della vita s’adattino a servire l’uomo operoso. Quando pensai la teoria dell’antidoto all’alcole Menghi ricordai un’esperienza di vivisettore di cui, assistendovi, non avevo compreso subito la portata. Ripetei subito l’operazione e non ebbi più dubbii. Allontanato quel dato organo la vitalità dell’animale si esacerbava come per effetto dell’alcole Menghi. Feci poi un’esperienza che confermò luminosamente la mia idea. Privai di quell’organo quell’animale e l’avvelenai con della morfina. Esso resistette all’azione del veleno molto meglio che non un animale cui l’operazione non era stata praticata. E si capisce: L’organo mitigatore è cieco come tutti gli altri nostri organi ed il suo lavoro – benefico finché è circondato da organi vitali – diventa abbreviatore di vita quando questa vitalità sta per spegnersi. Per quanto indebolito esso arresta l’impulso che sarebbe stato sufficiente appena appena. La mia scoperta era fatta o, meglio, il mio lavoro era terminato. Il resto doveva essere abbandonato alle funzioni più occulte della natura. Se la mia Annina (chiamai così il mio siero in onore di mia madre) agiva come tiroidina e l’ovarina che vanno nel sangue e operano all’origine senz’aver bisogno di passare per l’organo alla cui insufficienza suppliscono, allora il mio moderatore probabilmente non avrebbe impedito lo sforzo e così, solo così, sarebbe risultata l’economia vitale che io cercavo.

Trovo fra le mie carte il bollettino su cui registrai la mia scoperta. Porta la data del cinque Maggio. Io non sono superstizioso ma la coincidenza di date è pur strana: Il cinque Maggio è una data che si chiama Napoleone, l’uomo il cui polso batteva all’unisono con l’orologio. Il ricordo del grande dalle sessanta pulsazioni normali mi diede una speranza che mi rese addirittura malato. Se oltre che all’allungamento della vita io giungessi a qualche cosa d’altro e di più alto ancora.

Le prove mi costarono molto e il mio piccolo bilancio ne fu dissestato. I miei studii mi avevano impedito di dedicarmi assiduamente alla mia pratica e poi i clienti più ricchi m’avevano abbandonato dopo l’insuccesso dell’alcole Menghi che da alcuni dei miei confratelli era stato presentato addirittura quale ciurmeria di un pazzo. Le mie difficoltà m’indussero a confidarmi a mia madre.

Mia madre! Io non so se qualcuno di voi abbia conosciuta mia madre. Questo so: Se uno di voi l’ha mai vista e sia pure per pochi istanti, non l’avrà dimenticata giammai. La persona alta, diritta, occhio nerissimo dolce e imperioso nello stesso tempo, la carnagione giovanile in contrasto con la chioma bianca del tutto, ma bianca candida, come di neve giovine.

Scusate se vi parlo di mia madre ma, come vedrete, essa appartiene al mio argomento. Se essa non fosse stata in vita allora, forse a quest’ora il potente farmaco da me inventato sarebbe nelle mani di tutti.

Mio padre tenne per lunghi anni a Venezia un negozio di droghe molto importante. A trentacinque anni, circa un lustro dopo di esser sposato s’era dato alla malavita. Ebbe delle donne, giuocò e – credo ma non lo so di certo – si diede al vizio del bere.

Per fortuna mia madre subito s’accorse del suo mutamento. Con l’energia ch’io le conobbi sempre nelle piccole e nelle grandi cose ma che allora nessuno avrebbe sospettata in lei, essa, quando dovette abbandonare la speranza di ricondurlo sulla strada retta, non s’abbandonò a vane querimonie ma assunse la direzione degli affari del marito che glielo permise a patto gli si lasciasse del denaro e il tempo per goderne.

Finché egli visse fu una lotta di ogni giorno contro di lui prima di tutto che voleva sempre più denaro, e poi contro i creditori impazienti che da ogni parte reclamavano il loro avere, e contro i fornitori che non volevano più fare credito.

Quando mio padre morì di una pneumonite seguita al terzo giorno da esaurimento cardiaco (è solo da ciò ch’io arguisco ch’egli fosse dedito al bere perché mia madre non me lo confermò giammai) le cose migliorarono subito per quanto mia madre non volesse riconoscerlo e si proclamasse fino all’ultimo giorno della sua penosa esistenza quale la più infelice delle donne. Migliorarono in questo senso: Prima sulla faccia di mia madre era stata perennemente stampata un’incurabile tristezza e nello stesso tempo l’ambagia pel destino proprio, pel destino di lui (sì, anche di lui) e pel destino mio soprattutto. Morto mio padre la bella figura si eresse di nuovo per curvarsi solo nel singhiozzo frequente. Ed essa parlava continuamente del marito morto avendo dimenticato di lui i cinque o sei ultimi anni. A me insegnava ad onorarne la memoria ed anzi essa la lavava perché nei miei ricordi di fanciullo doveva essere rimasta impressa la sua fisionomia minacciosa di malcontento che esige, esige e non dà.

Queste qualità di mia madre vengono poste più in alto quando si apprende di quale intelligenza essa fosse dotata. Essa accumulò in commercio in breve tempo una piccola fortuna apprendendo da sé tutti quei complicati particolari che costituiscono la scienza commerciale. Io non credo accade di spesso che una donna non provveduta di certa cultura, abbia una facilità tale di comprendere tutto.

Fino all’epoca della decadenza morale di mio padre, mia madre non s’era occupata che della sua cara casetta ove aveva fatto da padrona e da serva. Poi oltre agli affari ebbe sempre da attendere anche alla casa.

Mi concesse il suo aiuto con una prontezza che mi meravigliò. Io che la conoscevo commerciante fino al midollo, calcolatrice come un banchiere, astuta e previdente, esitante e dubbiosa ad ogni decisione che potesse implicare la diminuzione di un utile oppure una piccola perdita, fui stupito e commosso di vederla accogliere immediatamente la mia proposta. Aveva fatti rapidamente i suoi calcoli: Poteva concedermi per tre anni un sussidio mensile di mille lire, proprio l’importo che avevo domandato. Concluse dicendomi con una carezza: – Alla peggio mi resterà tanto da aprire un’altra drogheria –. Eppure essa allora s’era già convinta ch’io non cercavo il mio siero per farne – come essa da prima aveva creduto – una speculazione commerciale.

Né a me né a lei la probabilità di dover riaprire una drogheria parve una minaccia grave. Avevo indovinato da lungo tempo ch’essa soffriva di essere stata privata dell’attività cui aveva dedicato tanta parte di se stessa e nella quale aveva trovate non piccole soddisfazioni. Prima non aveva conosciuto che agitazione e stanchezza, ora invece soffriva oltre che di agitazione e di stanchezza anche di noia. Dirigere una casa e comandare ad una serva era ben poco per chi come mia madre aveva diretta un’azienda e comandato a due o tre impiegati e a varii facchini. La casa era tanto accuratamente sorvegliata che finì coll’avere un solo difetto: Vi si parlava troppo di ordine. Chi ci vendeva la carne o gli erbaggi doveva stare bene all’erta perché tutto quello che veniva in casa era pesato, esaminato, cribrato e mamma aveva trovato il modo di lavorare altrettanto nella piccola casetta quanto nella grande azienda.

Di mia madre devo dire ancora ch’essa era una grande egoista di un egoismo in cui comprendeva me solo. Ricordo a questo proposito ch’essa non carezzò giammai i figli degli altri com’essa diceva. Non li amava e, in grazia mia, tollerava qualcuno nella nostra retrobottega; ma l’antipatia sua trapelava tanto chiara che ben presto tutti m’abbandonarono e mi lasciarono goder solo la retrobottega e la merendina del pomeriggio. Ai suoi clienti essa riservava sorrisi e parole cortesi in cui io che la conoscevo di lei tutt’altri sorrisi e tutt’altre parole, sentivo la falsità. Quando essa credette di dover ingiungermi il sacrificio di rinunziare alla mia gloria, al risultato già ottenuto di tanti miei studi in favore degli altri ch’essa non amava, io dovetti obbedire perché le ragioni che la inducevano a tale domanda dovevano essere ben forti.

Dal giorno in cui chiesi il suo soccorso, essa domandò di poter lavorare con me. Erano molti anni che non si lavorava insieme. Essa m’aveva insegnato a leggere nel suo mezzà e la ricordo pronta di venire ad aiutarmi e ad insegnarmi per poi abbandonarmi e correre ai suoi affari. Questo metodo ebbe delle conseguenze non so se buone o cattive pel mio avvenire. Io credo mi sia derivato da esso una bramosia febbrile di mutare ogni mia idea in un’azione, bramosia che può talvolta spingermi a comunicazioni premature ma che all’incontro mi spinge a precisare sinteticamente le idee mentre altri perde tempo in errori e illusioni. Capisco che nel laboratorio l’idea si realizza immediatamente ma in una forma non precisa. Io ammetto una somiglianza fra l’animale evoluto e il non evoluto ma non ne ammetto l’identità. Bastano le esperienze fatte con l’Annina per stabilirne la diversità.

 

Quando mamma cominciò a lavorare con me in laboratorio la mia scoperta era già perfetta. Non si trattava più che di produrre una quantità sufficiente di Annina per procedere a esperimenti seguiti. La massima parte del nostro tempo fu impiegata a discussioni sulla teoria che ne risultò più chiara.

Essa capì presto e bene. Vero è che per farmi intendere meglio usavo meno possibile di termini scientifici anzi ricorrevo a un linguaggio che la scienza rifiuta.

La vita animale è comparabile all’ebollizione di una caldaia d’acqua posta su un focolare di cui il combustibile sia limitato. Quest’ebollizione può finire perché il combustibile vada ad esaurirsi o perché l’acqua a forza di bollire svampisca. Nel primo caso si avrebbe una morte per esaurimento; nel secondo per abbruciamento. Ora è evidente che la vita animale è assicurata da un eccesso di calore; voglio dire che l’equilibrio fra l’acqua e il fuoco non è perfetto e che la vita potrebbe durare di più se l’ebollizione potesse essere diminuita. Per esempio è evidente che il calore emanato dal nostro corpo è una perdita; quanta parte di questa perdita è necessaria per proteggere la nostra periferia? Per essere più precisi: È noto che impiegando utilmente la forza manifestata (e perciò perduta) dal cuore in ventiquattr’ore si potrebbero sollevare chilogrammi quattromila a un metro d’altezza. È un eccesso! Quanta parte di questa forza è necessaria per alimentare la nostra vita e quanta parte va perduta o risulta dannosa? L’avvenire della scienza igienica è tutto nella soluzione di tale problema. Io intanto so che questa forza è eccessiva e lo so prima di tutto pel fatto che molti individui di cui il calore manifesto era inferiore, si dimostrarono più forti di quelli dalle pulsazioni affrettate e dal calore trapelante da ogni poro. La forza latente è la sola forza; quella che si può percepire coi nostri sensi o misurare coi nostri istrumenti è la perdita della forza. E avete osservato come il cervello funzioni egregiamente in individui il cui cuore abbia declinato? Io ho constatato delle menti lucide anzi acute in persone il cui polso non si poteva più contare per la sua debolezza e velocità.

Io mi abbandonai tutto al piacere di far sentire a mia madre la grandezza e l’originalità della mia idea. Non avevo oramai che da dire una parola e mamma pensava il mio pensiero. Avevo bisogno di una tale collaborazione! Di solito quando lavoro mi lascio andare spesso alle mie fantasticherie. Mi arresto a contemplare le ultime conseguenze delle mie idee, le accarezzo, ne ammiro il futuro successo e oblio il lavoro necessario per realizzarle. Con mia madre ciò non era possibile. Essa portava seco in laboratorio i sistemi che tanto le avevano giovato negli affari.

L’Annina nella sua forma più pura, cioè quale un siero tratto direttamente dall’organo moderatore dimostrò di essere un veleno di una potenza incomparabile. Con un decigrammo nel sangue si uccideva un cane giovine e forte in quaranta secondi. Dapprima mia madre non voleva credere si trattasse di una morte reale. Accarezzava il cane per farlo tornare in sé. Poi, convinta, piegata ancora sul corpo dell’animale, pallida, pallida, mi domandò – Tu non volevi questo?