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– Ti sei seccato molto? – chiese la signora Carolina aprendo gli occhi verso sera. Nel debole chiarore del tramonto quegli occhi lucevano ridenti. Da lungo tempo non aveva dormito così bene e, dicendolo, per gratitudine, baciò le mani che Alfonso ora poteva ritirare.

– Chissà, forse potrò vivere ancora! – Doveva sentirsi meglio di molto per parlare così e non occorreva di più per dare grandi speranze ad Alfonso. La baciò lungamente sulla fronte e le disse che avrebbero sempre passato insieme la vita che loro rimaneva; identificava le sue alle condizioni della madre per fortificarla nelle sue illusioni. Neppure allora ella non aveva speranze tanto grandi. Dichiarò che non sperava più di poter correre, saltare, forse neppure uscire di casa; magari in letto, ma voleva vivere.

Cenò con lui che stava a guardarla estatico, meravigliato di vedersi svegliare in lei prontamente col desiderio la capacità di vivere. Volle non vedere nella fame svegliatasi improvvisamente nella madre che la naturale reazione di un organismo indebolito che vuole rifarsi, mentre la fretta con cui ella ingoiava il poco cibo che le riusciva di prendere dinotava piuttosto il vivo desiderio d’illudersi, la fretta di usare vantaggiosamente della tregua accordatale. Ben presto con ribrezzo volle allontanato l’apparecchio. Si stese nel letto e fu difficile capire se fosse veramente lieta di poter dire: – Da lungo tempo non ho mangiato tanto.

La Giuseppina annunziò la visita del medico, ciò che scosse la signora Nitti. Meravigliata e seccata, disse ch’era la prima volta ch’egli sentisse il bisogno di venirla a vedere due volte in un giorno. Alfonso ridendo le chiese se volesse fargli il rimprovero che quel giorno veniva due volte oppure che gli altri non veniva che una. Con disprezzo ella rispose ch’egli non capiva nulla della sua malattia e che avrebbe fatto meglio a non venire affatto.

Poi ella lo subì e non seppe o non si curò di nascondere che la sua visita l’annoiava. Egli si dimostrava premuroso, chiedeva notizie, dava consigli, ma non riceveva in risposta che monosillabi, e vedeva ricevuti i suoi consigli con silenzio interrotto da qualche esclamazione poco entusiastica:

– Sì… sì… proverò anche questo se vuole. – Alfonso cercò di riparare alle mancanze della madre dando lui le risposte che il medico voleva dall’ammalata, ma comprese all’aspetto pallido di costui, al suo imbarazzo, all’interruzione improvvisa della visita, di non essere riuscito nel suo intento. Spaventato dall’ira ch’egli credeva covasse sotto all’affettata freddezza, gli corse dietro e con la franchezza che credeva essere la migliore politica gli chiese se fosse adirato per il contegno della madre. Attese con vera ansietà la risposta. Nelle vicinanze non essendoci altri medici gli premeva di renderselo amico. Il giovine medico ebbe il torto di esitare per un istante e poi quello maggiore ancora di dire con disprezzo, lisciandosi affettuosamente con una mano i grossi baffi:

– Oh! questi vecchi, specialmente quando sono ammalati, perdono la testa! – Poi nulla aggiunse e non rispose nulla alla promessa di Alfonso che avrebbe indotto la madre a portare maggior rispetto a chi lo meritava. Il giovine medico era offeso e aveva anche l’intenzione di farlo sentire.

Ritornato dalla signora Carolina, Alfonso volle convincerla che il dottor Frontini meritava di venir trattato meglio.

– Ma sì, ma sì – rispose ella annoiata, – lo tratterò meglio, ma poi non due volte al giorno. – E immediatamente dimenticò il medico.

Non aveva più voglia di dormire altro e passarono metà della notte a fare dei piani per l’avvenire. Ella doveva venir a vivere con lui in città. Per adescarla meglio a sperare, facendole credere nella sincerità delle sue speranze, le descrisse la vita in città cercando anche di abbellirla. Così dovette raccontarle molta parte delle proprie avventure e, visto che ne era la più importante, non seppe omettere completamente tutto quanto si riferiva a quella con Annetta. Raccontò della sua amicizia col vecchio Maller e con Macario e anche come passava le sere a scrivere il romanzo con Annetta. Quest’Annetta che subito diede sospetto alla signora Nitti egli disse essere brutta molto e per di più promessa sposa di un suo cugino; non si poteva trovare meglio l’accento dell’indifferenza.

In città, in due, sarebbero vissuti felici e comodi perché il ricavato della vendita della casa e dell’orto li avrebbe aiutati. Non sarebbero andati dai Lanucci, gente troppo triste; sarebbero rimasti soli perché volevano vivere allegri. Forse nessuno dei due sinceramente sperava, ma intanto era una bella musica che ascoltavano. Le parole non sembravano irragionevoli. Perché abbandonando quei luoghi ella non avrebbe potuto lasciarvi la malattia?

Furono ben presto richiamati alla triste realtà. Per un quarto d’ora alla signora Carolina riuscì di celare che si sentiva male. Alle domande di Alfonso, il quale della sua inquietezza s’era avvisto, ella rispondeva che stava bene quantunque agitata. Volle anche reagire. Premeva una mano di Alfonso come se in quella stretta cercasse sollievo e teneva chiusi gli occhi avvertendo che voleva dormire. Ma questa resistenza durò poco e con un grido di dolore si levò a sedere.

– Non ne posso più! – mormorò sordamente. Aveva il respiro frequente e breve. – Fin qui, – disse accennando a un punto del petto, – l’aria non giunge più oltre. – Da questa espressione soltanto egli comprese che cosa ella sentisse.

Come ella volle, l’aiutò ad alzarsi dal letto e sedere su un seggiolone comodo su cui il vecchio Nitti aveva passato parecchie ore d’ozio all’aria aperta e che ora era accanto al letto, destinato proprio a ricettare l’ammalata nelle sue ore peggiori. La coprì, mentre livida, coperta da un sudore freddo, ella abbandonava la testa sullo schienale; apparentemente non vedeva ciò ch’egli andava facendo. Di tempo in tempo dava un grido con voce alterata, o anche, con sommo sforzo, esprimeva qualche parola con la quale si lagnava o imprecava.

Per parlargli ella non trovava tanta voce quanto per lagnarsi. Due volte egli non comprese che cosa ella gli chiedesse. Voleva aria, voleva ch’egli aprisse la finestra e, dopo compreso, avendo egli esitato temendo per essa del freddo, esasperata con un’occhiata di risentimento, ella mormorò:

– L’aprirò io.

Non lo fece perché non le riuscì di alzarsi dal seggiolone.

Dalla finestra ch’egli aveva spalancata, entrava ora l’aria in abbondanza. Ad onta della mortale agitazione in cui si trovava, egli se la sentiva entrare benefica nei polmoni assetati. La respirazione della madre continuò frettolosa e superficiale.

Egli si rammentò che avrebbe potuto avere bisogno di Giuseppina. Corse nella stanza vicina e la trovò che dormiva con le coperte fino al mento. La chiamò gridando, ma inutilmente, e impaziente dovette risolversi a scuoterla per un braccio.

– Che c’è? – mormorò ella, e si capiva che a mezzo desta lottava per continuare a dormire perché tentava di sottrarsi alla mano che l’aveva afferrata, e si faceva piccola piccola contro il muro.

– Mamma sta male. Si alzi e accenda il fuoco.

– Ma se non serve! Bisogna lasciare che passi da solo.

Senza dubbio ella era quasi del tutto desta, ma usava della poca capacità di ragionare che così aveva acquistato, per tentar di provargli che sarebbe stato bene di lasciarla nel suo letto.

– Si alzi! – ripeté imperiosamente Alfonso e dovette correre via chiamato da un grido della madre.

La signora Carolina era ritornata da sola nel letto e premeva la bocca sul guanciale. Lo pregò ora di chiudere la finestra perché il caldo forse le avrebbe fatto bene e poco dopo gliela fece riaprire, sempre sorpresa che da tanti tentativi non le venisse alcun sollievo.

– Ho fatto accendere il fuoco. Vuoi un tè che forse ti calmerà?

– Sì, sì, – gridò ella con una gioia come se le avessero proposto di star bene.

Giuseppina era ancora in letto e di nuovo addormentata. Furibondo egli la trasse con violenza per il braccio che pendeva penzoloni fuori del letto; era l’unica parte che avesse obbedito alla prima chiamata. Irritata e quindi ben desta, Giuseppina si mise a gridare ch’era una vergogna che dopo una giornata in cui aveva molto lavorato non la si lasciasse dormire. Poi però fu spaventata.

– È matto? – chiese a mezza voce vedendolo saltare per la stanza e gettarle raggomitolate le sue gonnelle.

– Si levi immediatamente e faccia un tè, – le gridò furibondo, – altrimenti la getto fuori della porta.

Ella si apprestò ad alzarsi senza mormorare più oltre.

L’affanno doloroso avuto dalla madre era diminuito; aveva ancora la respirazione celere ma non si lamentava più. Qualche poco di sangue era ritornato a colorirle il volto. Così supina con le braccia inerti sembrava dormisse. Badando di non far rumore egli chiuse la finestra. Allorché venne Giuseppina col tè, volle impedirle di andare al letto, ma la signora Carolina la chiamò. Bevette qualche cucchiaiata di tè senz’aprire gli occhi e Giuseppina, vedendola calma, disse agramente:

– Non era dunque tanto grave!

– Esca! – gridò Alfonso indignato al vederla tanto indifferente.

– Perché ti adiri tanto? – chiese la signora Carolina quando Giuseppina fu uscita. – Già non serve! Non capisce nulla!

Ella dunque soffriva dell’imbecillità e indifferenza del suo contorno.

Per altra mezz’ora ella non si mosse, ma quando egli già sperava che si fosse addormentata la sentì parlare. Era un pensare ad alta voce.

– Non dicevo niente! – rispose all’interrogazione ch’egli le fece. Ma poi senza ch’egli altro domandasse, soggiunse: – Pensavo quale sciocchezza sia quella di fare dei piani per l’avvenire trovandosi nelle mie condizioni.

Cercò d’incoraggiarla e mancando di migliori argomenti parlò della medicina prescrittale dal medico. Quella doveva darle la salute e, visto che non l’aveva mai presa regolarmente come si doveva, bisognava tentare. Fu il primo ad essere convinto dalle proprie parole. Infatti il più forte dei suoi doveri, quello che gli altri avevano trascurato, era di convincerla a seguire la cura. Se la salvezza era ancora possibile, non poteva venire che da quella.

 

Le portò un cucchiaio della pozione fin sotto le labbra quando ella non aveva ancora assentito. Stringendosi nelle spalle ella si lasciò convincere.

Un’ora dopo stava meglio.

– Sì, sì, – disse ella per calmare gli entusiasmi di Alfonso, – anche il mese scorso la medicina mi giovò la prima volta che la presi, mentre poi non mi fece che male.

Egli si sdraiò vestito sul letto del padre e si propose di non dormire. Il sonno lo vinse e non si svegliò che a giorno chiaro.

– Come stai? – chiese alla madre ch’era stata a guardarlo a dormire.

– Meglio, meglio! – rispose essa con un sorriso di gratitudine, – ho preso un’altra cucchiaiata della medicina e mi sento alquanto sollevata.

Poi gli chiese se non avesse desiderio di vedere il villaggio e salutare i suoi vecchi amici. Lo assicurò che per una o due ore poteva rimanere sola.

Egli raccomandò a Giuseppina, che trovò già occupata di nuovo nell’orto, di badare alla madre ed ella glielo promise. Le parlò con dolcezza. Già spaventata al vederlo, la contadina s’era affrettata a raccontargli che stava raccogliendo erbaggi per il pranzo. Ella non era una poltrona, ma preferiva lavorare la terra che servire un’ammalata, e il torto era di chi l’aveva destinata a infermiera.

La casa stranamente volgeva uno dei lati alla strada maestra ed era unita a questa da un viottolo costruito dal piede dei passanti.

La campagna era ancora bianca dalla brina che il sole autunnale non aveva saputo sciogliere. Visto da quel punto, il villaggio sembrava molto più insignificante di quanto fosse; pareva composto di due semplici file di case. Una curva della strada maestra nascondeva la parte meno regolare ma più popolata. Dalla parte della valle v’era ancora una via della lunghezza di metà della principale a cui era parallela e poi, addossato a quella, un mucchio disordinato di casette sucide ove abitava la parte più povera della popolazione. Nel suo piccolo, il villaggio aveva in embrione tutte le sezioni della città.

Alfonso si agitò e accelerò il passo vedendo alla finestra la testa nera di Rosina, il suo primo amore. Non l’amava più, questo era certo, ma quale dolce e giocondo sentimento al rivederla!

Era una giovinetta che serviva la vecchia parente presso la quale abitava, ma in casa aveva tanto poco da fare che viveva come una signorina, meglio di qualunque altra ragazza del villaggio. Alfonso aveva ballato con lei ad una sagra e l’aveva prescelta prima di tutto perché egli la vedeva bellissima e poi perché per cultura e vestire gli sembrava superiore alle altre. Poi s’era sviluppata fra di loro una buona amicizia che si manifestava in alcune parole che scambiavano giornalmente, ella sulla finestra e lui sulla via. Qualche sera chiacchierarono insieme fermandosi un poco più in là della casa, dunque fuori del villaggio, ma nella completa oscurità egli non s’era arrischiato neppure di baciarle la mano. Le aveva fatto delle lodi esagerate della sua bellezza, ma non le aveva neppure detto di amarla. Il suo ideale non era realizzato in Rosina ed allora non aveva ancora rinunziato a trovarlo. Non aveva dunque mai avuto l’intenzione di andare più oltre, mentre nel villaggio si disse, e la signora Carolina lo riscrisse ad Alfonso, che Rosina aveva provato una forte disillusione alla sua partenza.

Si avvicinò meravigliato ch’ella non lo avesse riconosciuto subito pur avendolo veduto:

– Signorina, non mi riconosce?

– Oh! il signor Alfonso! – disse Rosina con sorpresa calma, e fece un leggiero inchino esitante forse perché non ancora lo aveva riconosciuto oppure perché non s’era ancora risolta a riconoscerlo.

– Non mi dà neppure la mano?

– Eccola!

Ma non gliela diede ancora. Prima di sporgersi dalla finestra guardò a destra e a sinistra per accertarsi che nessuno la vedesse.

– Come sta la signora Carolina? – chiese essa ritirando la mano che per un solo istante aveva lasciata inerte in quella di Alfonso.

– Oh! male! male! – disse Alfonso commosso stranamente da quegli occhi neri e dai capelli lisciati alle tempie e a chiocciola sulle orecchie. Quello che le mancava nel vestire e nel parlare le dava quella freddezza che rendeva tanto desiderabile il sorriso amichevole di cui altre volte non era stata parca.

– Rimane qui ora?

– No! – rispose Alfonso, – soltanto finché mamma per la sua malattia non possa moversi; poi ci stabiliremo in città.

– Io sono promessa sposa, – disse ella con semplicità.

Visto che di questa comunicazione nessuno l’aveva richiesta, era evidente che la faceva per avvisarlo che poco le importava della sua partenza dal villaggio.

Egli quasi si dimenticava di chiederle chi fosse lo sposo felice.

– Gianni.

Gianni era il figliuolo di Creglingi il bottegaio. Un bel giovinotto che sorvegliava l’amministrazione dei campi del padre, il quale non aveva mai voluto lasciare la sua bottega ove aveva fatto i danari. Rosina faceva una bella fortuna, certamente maggiore che se avesse sposato Alfonso.

– Le mie congratulazioni! – disse Alfonso un po’ troppo tardi perché potessero venir credute sincere.

– Tanti saluti alla signora Carolina, – fece improvvisamente Rosina e si ritirò senz’altro.

Comprese subito la ragione di tale fuga. Dallo svolto della via si avanzava il notaio Mascotti accompagnato da Faldelli, il proprietario di una delle due osterie esistenti nel luogo. Era un vecchio vestito sordidamente e i cui vestiti pendevano dalle membra scarne. Doveva aver freddo perché teneva le mani ritirate nelle maniche della giacca.

Lo salutarono ed egli si avvicinò loro. Faldelli alzò un braccio stendendo la mano fuori della manica e strinse con una stretta forte ma breve quella di Alfonso; poi riparò la mano di nuovo nella manica. Non era cortese, e quando Mascotti chiese ad Alfonso come stesse la madre egli si trasse in disparte e guardò attorno distratto.

La domanda cortese di Mascotti fece pensare ad Alfonso ch’era quella l’occasione di rimproverare a costui la sua poca cura per la signora Carolina.

Molto serio cominciò a raccontare della triste notte trascorsa e dello spavento avuto, e subito con l’accento di grande amarezza e d’ira parlò del modo tenuto da Giuseppina alla quale era stata affidata la vita della madre.

Certamente Mascotti doveva avere già compreso ch’era a lui che si voleva tenere la predica. Risoluto pronunziò le parole bonarie:

– Eh! un poco poltroni siamo tutti a questo mondo. Giuseppina se la sarà presa comoda vedendo che lei c’era là, perché non occorre mica essere in quattro accanto ad un ammalato!

Non era più il modo con cui s’era difeso il giorno prima e Alfonso ne fu sorpreso. Lo vedeva risoluto e si capiva preparato, perché così presto aveva compreso e respinto l’attacco. Non negava più che intorno alla signora Carolina ci fosse stata poca cura, ma trattava tutta la faccenda come cosa di piccola importanza. Era il curatore, ma si poteva provargli che perciò avrebbe dovuto occuparsi della salute della signora Carolina? Alfonso temette che se gli avesse detto qualche brutta parola, di quelle che aveva pensate durante la notte, nell’ira contro Giuseppina, Mascotti non gli rispondesse brutalmente. Tacque perciò.

Il notaio gli comunicò che Faldelli aveva messo da parte dei capitali e che aveva l’intenzione di comperare dei terreni. Pareva che questa comunicazione dovesse venir seguita da altre che potessero avere maggior importanza per Alfonso. Faldelli lo interruppe per salutarli. Disse a Mascotti stringendogli la mano:

– Non c’è mica fretta, sa, signor notaio!

Si avviò con passo frettoloso verso la sua osteria situata di faccia alla bottega del Creglingi nella piazzetta triangolare.

– Ella fa una passeggiatina per rivedere i luoghi natii, – disse Mascotti di buon umore. – L’accompagno a patto che non si metta a correre.

Alludeva scherzando a quel brutto momento quando Alfonso aveva perduto la testa all’annunzio dello stato in cui trovavasi sua madre.

Sulla via principale, casa per casa era rimasta inalterata coi colori immutati perché maggiormente non potevano sbiadirsi, le identiche insegne, alcune finestre sempre chiuse, altre sempre aperte. Ad Alfonso il villaggio sembrava vecchio come un oggetto di museo, che non viene toccato che per farvi i lavori necessari per conservarlo come è. Tutta l’attività degli abitanti si riversava fuori del villaggio, sui campi.

Una sola casa era stata mutata, aumentata di un piano e sul fianco si distingueva la fabbrica nuova dalla vecchia per il colore annerito della calce che copriva quest’ultima. Era ora abitata dal Selini, fornaio, ma la casa in villaggio si chiamava ancora sempre casa Carli, dalla famiglia che prima l’aveva posseduta.

Facilmente ad Alfonso riuscì di togliere col pensiero dalla casa tutto quanto vi era stato sovrapposto e rivederla più piccola, nera, triste, casa disgraziata in cui in pochi giorni erano morti meno uno tutti i membri della famiglia Carli: due ragazzi coi quali Alfonso aveva giuocato, una fanciulla di tre lustri e il padre, un buon amico del vecchio Nitti, lindo, sempre vestito di una giubba bianca tanto candida che non vi si distingueva la farina onde era aspersa. Alfonso si rammentava di tutti i particolari di quella sventura, la quale nella sua gioventù aveva segnato una traccia indelebile. In faccia a tutti quegli organismi sani e forti distrutti o creati inutilmente, egli aveva avuto i primi dubbî.

Una sera il vecchio Nitti era rincasato più tardi del solito e aveva raccontato che Guido Carli, il più giovine dei figliuoli, era stato colpito dal tifo, tanto violentemente che il dottore supponeva che non avrebbe resistito. Il giorno prima Alfonso aveva parlato col giovinetto che ora era moribondo. I Nitti abitavano dirimpetto ai Carli e più volte durante la notte Alfonso andò alla finestra a vedere la bruna casa di cui una sola stanza era illuminata, quella ove si lottava con la morte.

Pochi giorni dopo il giovinetto morì, e quando Alfonso andava meditando quali segni d’affetto egli potesse dare all’amico che sopravviveva, per consolarlo della perdita del fratello e consolare se stesso, apprese che anche questi e la sorella e il padre erano stati colpiti dal medesimo terribile male. Ogni giorno dalla casa usciva una bara; la prima racchiudeva il cadavere della fanciulla, la seconda quella del padre e la casa rimaneva muta indifferente come se fosse abbandonata da una merce qualunque.

Soltanto quando non vi fu più alcun capezzale a cui vegliare, dietro alla bara dell’ultimo figliuolo si aperse finalmente una finestra e vi comparve, trattenuta da due uomini che Alfonso mai non aveva visti, la madre che gridava di voler saltare dalla finestra per raggiungere i suoi. Era una donna ancora giovine. Pregava di lasciarla e sembrava meravigliata che la si trattenesse. Anche ad Alfonso la violenza di quei due uomini che le impedivano di morire sembrò odiosa.

La casa fu messa in vendita, ma nessuno voleva comperarla perché vi era accaduta tanta sventura, e si finì col venderla a un prezzo miserabile al Selini venuto allora a stabilirsi nel villaggio. Neppure la signora Carolina volle saperne di comperarla, mentre i Nitti avrebbero fatto un affare di gran lunga migliore a comperare quella casa invece di quel casone tanto distante dall’abitato.

Certamente anche il notaio, passandovi dinanzi, pensò al contratto a cui aveva dato luogo quello stabile, perché ingenuamente facendo pensare Alfonso alla somiglianza che c’era fra’ due affari, gli disse:

– Faldelli mi disse che volontieri avrebbe comperato la vostra casa.

Alfonso trasalì:

– Non è in vendita! – disse seccamente.

– E che cosa ne vuole far lei?

La grossolanità del notaio fece capire ad Alfonso in quale maggior misura avesse avuto influenza su lui il lungo soggiorno fra’ contadini che non gli studî universitari.

– Ma, e mamma?

Il notaio si trovò portato a tutt’altro ordine d’idee e si capì ch’era sorpreso che la signora Carolina venisse ancora considerata come viva. Si rassegnò con buona grazia a tale finzione:

– Sua madre mi diceva che aveva l’intenzione di andare ad abitare con lei!

– Ci penserò! – disse Alfonso con tristezza. La notte passata presso alla madre gli aveva tolto ogni speranza e le parole di Mascotti avevano fatto rivolgere il suo pensiero alle conclusioni che si dovevano trarre da quello stato di cose. Infatti, rimanendo solo, che cosa avrebbe fatto della casa?

 

– Vive ancora la vecchia Doritti?

Quella donnetta caratteristica, laboriosa, in altri tempi sempre indefessa al lavoro al campo o in casa ove faceva di tutto pur di non aver a chiamare aiuto dal di fuori, tanto che in villaggio si diceva ch’ella covava persino le uova assieme alle galline per averne più presto i pulcini, veniva ricordata ad Alfonso da una casetta dai colori sbiaditi, verdognoli delle finestre, grigio sucido delle mura qua e là sgretolate. Dicevano che la casuccia non cadeva perché indecisa da quale parte, ma essa aveva fondamenta salde alquanto petulantemente fuori della linea delle altre case.

In quella casa il vecchio Doritti, marito della vecchia, aveva tenuto per molti anni a pianterreno una bottega di commestibili e a quanto si diceva ci aveva fatto molti denari. Creglingi era sopravvenuto, e con la sua bottega nel centro del villaggio e fornita più abbondantemente di merci gli aveva portato via i clienti. Doritti dapprima non aveva voluto credere che fosse permesso di rovinarlo a quel modo; fuori di sé dall’ira litigava con mezzo il paese, con Creglingi e gli avventori che sorprendeva in atto di tradirlo, cioè facendo degli acquisti alla bottega del suo concorrente, accanto alla quale di spesso si appostava per sorprenderli. Poi s’era quietato. Aveva atteso senza impazienza che i due o tre clienti che gli erano rimasti consumassero le ultime provvisioni della sua bottega e aveva chiuso la porta e ritirata l’insegna. I due vecchi poi avevano vissuto ancora qualche anno insieme e non avevano trattato con nessuno, perché per il torto ch’era stato fatto loro odiavano tutti gli abitanti del villaggio. Il vecchio era morto senz’assistenza di medico, e da allora la Doritti non era uscita di casa che la domenica per andare a messa, vestita con un abito di seta nera sul quale v’erano dei ricami in nero, girigogoli che davano alla stoffa l’apparenza di molto pesante. Essendo quello giorno di settimana, era certo ch’essa stava dietro a qualche finestra a fare la calza o a filare. Era una vecchietta simile alla sua casa, piccola, curva, ma vigorosa.

Alfonso aveva dimenticato quei due tipi e rammentandosene n’ebbe sorpresa come di cosa nuova.

– Dovevano pur essere vissuti felici quei due vecchi.

Uscendo dal villaggio da quella parte, v’era ancora per un chilometro di un verde molto contrastato, poi subito il colle di sassi che annunciava la «Sassonia» come la regione dei sassi era detta in villaggio.

Il cimitero era dietro al villaggio, già in altura. Allegro, fresco, tutto di un color verde intenso che non era neppur troppo spesso interrotto dalle lapidi bianche. Almeno là i morti dormivano molto vicino ai vivi e la morte sembrava una separazione meno grande.

Mascotti volle venire con lui a vedere come stesse la madre, ma poi alla porta della casa si fermò:

– Mi attrista troppo, – asserì. Quando Alfonso venne a dirgli che la madre stava poco bene, vedendolo tutto sconvolto: – Povero ragazzo! – gli disse. Ad onta della sua commozione se ne andò saltellando per iscaldarsi e giunto alla via maestra vi salì con un salto da giovanotto.

La signora Carolina infatti non stava bene e Alfonso si faceva dei rimproveri di averla lasciata sola per un’ora intera.

Sentendosi sollevata dopo presa la medicina datale da Alfonso, naturalmente ella aveva attribuito la miglioria a questa e, secondo le prescrizioni mediche, ne aveva presa un’altra cucchiaiata dopo mezz’ora. Venne assalita dal malessere che già conosceva, molto differente da quello avuto nella notte ma non meno doloroso. Era una stanchezza enorme, proprio il sentimento che i singoli organi si rifiutavano alla vita. Aveva i sudori alla fronte come durante l’assalto di mal di cuore, ma l’occhio anziché semispento, brillante, dilatato dall’angoscia. Non seppe dare spiegazioni ad Alfonso ma le sue parole di compianto la fecero piangere:

– Quella maledetta medicina! – mormorò dimenticando i beneficî che le aveva apportati.

Fu una pessima giornata come era stata una cattiva notte. Ella non giunse a dichiarare di star meglio del suo nuovo male perché verso sera fu ripresa dall’affanno che le durò quasi l’intera notte.

Da allora non ci furono più neppure delle migliorie passeggiere. Quanto più l’ammalata peggiorava, tanto più desiderava la vita, ed era sempre facile convincerla a prendere la medicina che, secondo il medico, era l’unica che potesse ridarle la vita. Era un continuo soffrire per la malattia stessa o per la cura. Un altro segno dell’aumentato suo affetto alla vita era il suo contegno divenuto più cortese col dottore Frontini. Il male suo era tale che aveva rotto ogni sua resistenza e fattole dimenticare ogni antipatia. Le avevano detto che la salvezza doveva venire dal dottor Frontini ed ella ci aveva creduto.

Il dottore veniva perciò più di spesso e si fermava per delle ore a ciarlare con Alfonso più d’altre cose che della malattia della signora Carolina. Non aveva saputo mostrare la sua scienza su quella e cercava di mostrarla parlando d’altro. Alfonso era lieto di vederlo fermarsi lungamente in camera dell’ammalata perché se durante quel tempo la signora Carolina si sentiva peggio, per quanto Frontini poco o nulla potesse aiutare, egli si sentiva più tranquillo.

Mascotti veniva di spesso, ma si fermava alla porta, le gridava qualche parola d’incoraggiamento, ma non entrava. L’ammalata si avvide della sua ripugnanza ad entrare e chiese ad Alfonso:

– Puzzo tanto che mi si evita così?

Era divenuta sempre più pesante l’atmosfera in quella stanza e persino Alfonso si sentiva sollevato quando poteva correre per una mezz’ora all’aperto. Non si poteva più ventilare la stanza perché in pochi giorni, dopo una nevicata, la temperatura si era sensibilmente abbassata, tanto che le lastre delle finestre erano coperte di fogliami capricciosi di ghiaccio. Anche quando si sentiva mancare il fiato l’ammalata non chiedeva più si aprissero le finestre perché una volta che dall’aria aveva sperato sollievo poco mancò che quel freddo tagliente non la ammazzasse.

Era una vita ben strana quella ch’egli conduceva in quella stanza, tutto il giorno occupato a convincere l’ammalata che il suo male non era grave o a tentare di alleviarglielo. Un giorno era tanto simile all’altro ch’egli non avrebbe saputo dire da quanto tempo si trovasse nel villaggio. Era tanto lontana l’epoca in cui aveva amoreggiato con Annetta!

Un giorno il postiere Marco gli portò due lettere. Una, a quanto disse Marco che nelle sue lunghe gite nei dintorni si divertiva a fare degli studî sui caratteri degl’indirizzi, doveva essere di donna. Ricevendole Alfonso ebbe un sentimento spiacevole. Non a tutti dunque sembrava che il tempo passato fosse tanto da far dimenticare avvenimenti e persone!

L’altra era di uomo, la caratteristica calligrafia di Sanneo, ma firmata da Cellani. Veramente una lettera della banca Maller e C. e anche quanto a contenuto. Con la forma fredda e misurata che la banca usava per fare ai suoi clienti delle comunicazioni d’affari, gli veniva annunciato che dal telegramma a lui indirizzato, firmato «Mascotti», la direzione aveva saputo della gravità della malattia di sua madre e che perciò, spontaneamente, portava il permesso accordatogli da quindici giorni a un mese. La forma burocratica dello scritto, firmato da Cellani con quel segno ch’egli usava per gli avvisi alla contabilità, non sorprese Alfonso. Fu grato per il mese di permesso e immediatamente lesse la lettera alla signora Carolina, la quale trovandosi in un istante di disperazione mormorò foscamente:

– Un mese basterà!

L’altra lettera era di Francesca.

«Quello che io prevedeva è già accaduto o sta per accadere. Non so veramente con precisione a quale punto sieno giunte le trattative tra padre e figlia, ma queste trattative si fanno, giornalmente, e che siano già abbastanza avanzate ho la prova nel fatto che Annetta a me nulla ne dice. Suppongo che nel suo interno sia già d’accordo col padre, ma siccome fino a pochi giorni fa ella era ancora sinceramente vostra, può essere che si vergogni di avervi dimenticato del tutto.