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«Subito dopo la vostra partenza, ella parlò a lungo col signor Maller il quale, a quanto me ne disse Santo che origliò, gridò molto, tanto che Annetta pianse, per la prima volta, credo, in sua vita. Poi, vedendo che con me ella non apriva bocca, io la guardai con aria di rimprovero che mi costò grande fatica come mi costa grande fatica tutto quanto faccio in vostro vantaggio. Annetta mi disse ch’ella vi amava sempre, ma che avrebbe avuto molto da lottare con suo padre per ridurlo ad accondiscendere alla vostra unione. Mi pregò perciò di scrivervi pregandovi di trovare un pretesto qualunque per rimanere più a lungo nel vostro villaggio.

«Badate, Alfonso, ch’è un brutto indizio che non volle scrivervi direttamente. Accettai l’incarico e non vi scrissi nulla sperando di vedervi capitare inaspettato oggi ch’è trascorso il vostro permesso; io lo so bene perché contai i giorni. Non giungeste invece! Al primo vostro errore andate aggiungendo degli altri fino a ruinarvi. Vi scrivo per mandarvi un ultimo ammonimento. Forse partendo immediatamente arrivereste ancora in tempo, perché nulla ancora è perduto. Annetta esita, combattuta dal desiderio di compiacere al padre che adesso piange e scongiura, e dall’amore per voi, perché vi ha amato. Non garantisco di nulla ora, e al vostro arrivo potreste ricevere la comunicazione ch’ella è fidanzata a Macario. Non so se questa mia raggiungerà lo scopo per cui fu scritta. Feci con voi più del mio dovere. Se ad onta di questo avvertimento esitaste a partire, sarebbe del tutto inutile che rispondiate o che scriviate ad Annetta. Da voi non attendo parole, scuse inutili. Non vi servirebbero a nulla. Soltanto la vostra presenza qui può salvarvi, salvarci.»

Questo ch’ella diceva essere un ammonimento somigliava molto a una domanda di aiuto, ed egli ne fu scosso. Naturalmente non poteva neppur pensare a lasciare il villaggio e abbandonare la madre moribonda, così che egli veniva salvato da ogni dubbio, e per quanto Francesca ammonisse e gridasse egli non poteva darle ascolto. Ma era ben triste che con un atto, che a lui era sembrato naturale e necessario ma che ad ogni altro uomo sarebbe parso irragionevole, egli si fosse posto sulla via che Francesca con tanta energia perseguiva. Le aveva lui impedito il cammino mentre ella aveva sperato di trovare in lui un alleato nella sua lotta alla quale anche in nome dell’onestà e della giustizia si doveva augurare la vittoria. Maller l’aveva sedotta ed era troppo giusto che la sposasse. Era l’unico rimorso che avesse Alfonso. Più che Annetta egli si rimproverava di aver tradito Francesca.

Stette per un’ora circa accanto al letto della madre assorto nei suoi pensieri.

– Quella lettera ti dà molto pensiero? – chiese la signora Carolina che da lungo tempo lo osservava.

Ella parlava poco perché le dava fatica e le poche parole che diceva erano qualche volta pronunciate molto tempo dopo pensate. Forse ella era stata ad osservare il suo volto dal momento in cui egli s’era abbandonato alle sue riflessioni.

Egli trasalì.

– No! – rispose, – è un amico che mi chiacchiera su cose che non mi fanno ridere.

Ella non chiese altro. Le costava un grande sforzo rivolgere la sua attenzione alle cose di fuori ed era facile ingannarla.

La lettera di Francesca gli portava del resto una buona notizia. Proprio come essa lo aveva preveduto, la sua partenza dalla città era equivaluta a una rinunzia ad Annetta. Ora ne era sicuro, sarebbe stato lui l’abbandonato e la parte gli piaceva molto più che quella di traditore. Intuiva che invece Annetta non avrebbe sopportato di essere l’abbandonata e che era ad ogni modo più soddisfatta di essere dessa la prima a lasciarlo. Così da quella parte non aveva rimorsi.

Mettendosi a scrivere la risposta che doveva dare a Francesca per quanto ella non l’avesse chiesta, comprese che la difficoltà principale, per renderla efficace, per non attirarsi anche l’odio di Francesca, era di persuaderla della gravità della malattia della madre. Sembrava che alle due donne non fosse stata fatta alcuna comunicazione in questo riguardo dalla direzione della banca. Finì col trovare la nota giusta. Evitò ogni artifizio e fu breve come persona che espone dei fatti veri non curandosi di addurre prove della propria veracità. Disse che sua madre era in pericolo di vita e ch’egli per il momento non aveva testa per altro. Chiuse con una frase che gli parve ed era realmente una trovata. Finse di non credere che la sua presenza in città fosse tanto necessaria come lo asseriva Francesca.

«Annetta, come me lo conferma nella sua lettera, mi ama. Perché avrebbe da abbandonarmi? Se resto qui non faccio che il mio dovere.»

Dopo spedita la lettera si sentì sollevato. Era un sollievo, e se anche in minore grado, simile a quello provato alla partenza dalla città. Ritornava al villaggio dopo di essere stato ripiombato in quegl’intrighi, e non giungeva a rubargli interamente la gioia di esserne salvo la vista della faccia cadaverica della madre.

Alla sera, in un istante di pace dopo una giornata di terribili sofferenze, ella gli chiese:

– Hai scritto alla tua amorosa? Non negarlo, perché sarebbe male che così non fosse.

Ma negli occhi semispenti le passò un lampo di gelosia.

Egli non negò. Conoscendosi uomo dai rimpianti amari e dai rimorsi, s’era dato cura in tutti quei giorni di portarsi in modo da non avere a rimproverarsi né una parola né un cenno brusco verso la moribonda. Bisognava dunque dimostrarsi confidente, toglierla alla curiosità e non dirle bugie perché sarebbe potuto dolergli anche di quelle. Non le disse l’intera verità per riguardo al segreto altrui o almeno così si scusò con se stesso. Le raccontò che amava una fanciulla, ma che l’aveva scoperta tanto civetta e leggera che voleva togliersela dal cuore, ciò che gli doveva riuscire facilmente del resto.

– È la signorina Lanucci? – chiese la signora Carolina con un sorriso forzato.

– No! – rispose serio come in confessionale, – è una ragazza ricca che tu non conosci.

– Molto ricca?

– Così così! più ricca di me ad ogni modo!

Egli non voleva confessare che, abbandonando colei che aveva dichiarato civetta, respingeva da sé una grande fortuna, perché, sapendolo, la madre gli avrebbe dato torto.

Per quella sera ella non ne parlò più, ma a quelle parole doveva aver riflettuto lungamente:

– Si capisce che tu non le vuoi bene, – gli disse il giorno dopo, – non avresti tanto facilmente compreso ch’è leggera e civetta o, comprendendolo, glielo avresti perdonato.

Dopo un assalto in cui era sembrato che da un momento all’altro rimanesse soffocata, grata per l’aiuto ch’egli le aveva dato, gli disse:

– Non amarla e non amarne alcuna. Le donne non ti meritano.

Per quanto egli credesse che degl’intrighi in città nulla affatto gl’importasse, pure, dopo ricevuta la lettera di Francesca, il suo pensiero era per ore intere rivolto più a quelli che alla madre. Se, come Francesca, con quel suo tono che non ammetteva dubbî, glielo diceva, Annetta lo lasciava per sposare suo cugino, quali sentimenti avrebbe avuto per lui? Di odio, era certo. Il ricordo della caduta di Annetta faceva anche a lui ribrezzo, ma che cosa avrebbe dovuto produrre nell’animo di Annetta maritata ad un altro? Onta e odio e forse, per il timore di veder divulgato il segreto, un odio attivo; lo avrebbe fatto scacciare dalla casa Maller e avrebbe tentato di rendergli impossibile la vita in città. E come si sarebbe comportato lui di fronte a tale odio? Reagire, difendersi? Ma gli sembrava di non averne il diritto! Fantasticava su tali persecuzioni e si commoveva sulle sventure ch’egli immaginava gli dovessero toccare.

La madre vide ch’egli aveva le lagrime agli occhi.

– Perché piangi?

– Ho bruciore agli occhi, non piango!

Ella tacque e credette ch’egli piangesse al vederla tanto soffrire, mentre egli lagrimava sognandosi scacciato dalla banca con ingiurie da Maller e da Cellani e vedendosi uscirne col capo basso sotto il peso di una colpa, ma non quella ch’essi gli addebitavano pubblicamente.

Spesso quando ella aveva bisogno di lui doveva chiamarlo più volte acciocché egli udisse.

La povera donna aveva continuamente bisogno di aiuto perché da sola non sapeva più neppure voltarsi nel letto. Il suo corpo era piagato in più luoghi dal giacere continuato e il dolore che le causava la pressione su quelle parti le faceva sentire continuamente il bisogno di mutare posizione. Per renderle possibile il difficile movimento, Alfonso aveva trovato un modo ingegnoso. Egli si piegava innanzi fino a mezzo il letto e con ambe le mani ella si attaccava al suo collo; egli allora si spingeva verso quella parte ove voltandosi ella doveva venire a poggiare, e l’ammalata faceva l’evoluzione così sospesa, semplicemente ritirando dal suo collo una mano. Grande sollievo ella non provava che quando, sospesa al collo di Alfonso, sul letto non poggiavano che i suoi piedi. Egli veniva tolto ai suoi sogni per andare a lei e per aiutarla a sospendersi al suo collo, ma quando non aveva che da sostenerla, mentre ella gridava e piangeva nel fare il primo sforzo per sollevarsi, egli di nuovo sognava di Maller, di Cellani e di Annetta.

Ben presto però le sofferenze della signora Carolina aumentarono in modo che non gli lasciarono più tempo a sogni, perché ella non ebbe più un istante di requie e abbisognava continuamente di lui, non solo della sua forza per sostenerla, ma anche della sua intelligenza per trovare nuovo modo di soccorrere a nuovi mali. Non soltanto non poteva più sognare, ma neppure riflettere, perché l’imminenza del grave avvenimento che andava compiendosi sotto ai suoi occhi gliene toglieva la facoltà.

I disturbi più dolorosi provenivano alla signora Carolina dai turbamenti del suo sistema nervoso. All’ammalata sembrava che il materasso si piegasse da una parte in modo da farla sdrucciolare fuori del letto e per quanto fosse diritto bisognava elevarlo da quella parte mettendoci sotto dei guanciali. Naturalmente tutti gli sforzi finivano col provare all’ammalata che il male risiedeva nel suo organismo e non negli oggetti che la offendevano. Alla destra del suo letto v’era una finestra ch’ella volle venisse coperta con un lenzuolo perché la luce da quella parte l’offendeva. La bianchezza del lenzuolo continuò a molestarla e anche quando Alfonso sostituì al lenzuolo un panno nero ella non ebbe pace.

 

– Capisco, capisco! – gemette e non chiese altri mutamenti, ma da quella parte anche quando vi aveva rivolta la schiena continuava a venirle un malessere indefinibile.

Una sola volta ancora Alfonso si trovò tranquillo tanto da poter uscire. Aveva fretta perché non voleva rimanere troppo tempo lontano dall’ammalata e desiderava di andare almeno fino al villaggio. Fu quindi seccato d’imbattersi all’uscire di casa nel giovine Creglingi, lo sposo di Rosina. Accompagnato da due contadini, andava verso i suoi campi situati di là dalla casa di Alfonso; occupavano una metà della plaga più ubertosa della valle.

Alfonso non seppe celare del tutto che l’incontro non era stato da lui molto desiderato ma, ed egli se ne accorse, neppure Creglingi ebbe subito il modo più amichevole, e anzi, se Alfonso non si fosse mosso per il primo ad incontrarlo vergognandosi di passare accanto al suo antico amico senza neppur salutarlo, Creglingi non avrebbe dimostrato di essersi accorto di lui.

«Tanto mi è dispiaciuto di trovarlo sposo di Rosina?» si chiese Alfonso sorpreso del proprio odio e non dell’altrui.

– Come stai? – gli chiese Creglingi, un giovine forte, dai tratti volgari, la pelle macchiata dal sole e nel viso quasi rotondo gli occhi piccoli dell’astuzia. Dimostrava qualche imbarazzo e Alfonso gli attribuì della gelosia per Rosina.

– Le mie congratulazioni, – disse subito Alfonso, e gli strinse con forza la mano per non lasciar dubitare della sincerità dei suoi auguri.

Ma Creglingi ricevute tali congratulazioni parve non si trovasse meglio col vecchio amico e lo lasciò asserendo che doveva essere di ritorno a una data ora dopo aver fatto tagliare del fieno in un campo per giungere al quale doveva camminare ancora parecchio.

Era un’amicizia di prima gioventù ed era durata fino alla partenza di Alfonso ad onta che con l’avanzarsi dell’età la differenza fra i due giovani fosse divenuta sempre maggiore. L’intelligenza di Creglingi era stata poco sviluppata o meglio soffocata dal lavoro manuale. Mai Alfonso si sarebbe risolto a tagliare quella relazione conservando un culto superstizioso alle memorie della sua prima giovinezza. Ebbe qualche avvilimento al vedersi lui respinto. Creglingi era il possessore di due o tre idee in tutto e dovevano servirgli per tutta la vita e Alfonso lo aveva sopportato per una certa simpatia per la forza e risolutezza che scorgeva in lui.

Gli parve che i tre uomini ridessero discretamente di lui. Il sangue gli salì alla testa e, voltatosi, era in procinto di dire loro qualche insolenza, ma essi camminavano quieti uno accanto all’altro, Creglingi in mezzo con la testa bassa. Dubitò di avere inteso male. Poi comprese che il riso dei contadini era stato provocato dalla scappellata ch’egli s’era creduto in dovere di dare loro ad uso cittadino.

«Imbecilli!» pensò per tranquillarsi, «all’occasione spiegherò loro lo scopo di tale gesto.»

Era trascorso il mese di permesso e all’ultimo giorno egli si rammentò di chiederne la prolungazione scrivendo direttamente a Cellani una lettera affettuosa in cui ringraziava per la pazienza che fino ad allora si era avuta con lui e chiedeva addirittura un altro mese di libertà. Aveva l’intimo convincimento che quindici giorni sarebbero bastati, ma, visto che non si potevano sperare migliorie nello stato della signora Carolina, non volle mettere in iscritto un termine troppo breve quasi il desiderio di vederne abbreviata la vita. Nella lettera parlò della sua speranza di una guarigione perfetta e aggiunse, per scrupolo, che forse gli sarebbe bisognato di chiedere anche un’altra prolungazione.

Nell’ultima settimana le sofferenze fisiche della signora Carolina erano diminuite, ed era proprio l’indizio dell’avvicinarsi della grande pacificatrice. Il suo organismo era divenuto incapace persino di dolore.

Una mattina, dopo una notte di veglia inquieta e durante la quale l’ammalata più volte si perdette non nel delirio ma nell’indebolimento spaventevole dei sensi, Alfonso le trovò la voce mutata, il timbro più profondo e meno sonoro. Questa voce era interrotta dalla respirazione frequente e insufficiente, ma l’ammalata sembrava non ne soffrisse. In un istante di lucidezza disse con voce angosciata che moriva. Le sembrava che i muri si piegassero e minacciassero di cadere; di fuori, per essa, infuriava la tempesta e una volta, fuori di sé, chiese che si mandasse al villaggio a vedere se era ancora in piedi. Poi volle definire quello che sentiva e per ore invano andò cercando la parola adatta. Era strano e terribile, diceva, perché si sentiva martoriare e non erano dolori.

Perdette totalmente la conoscenza verso sera così che Alfonso credendola morta si mise a piangere senza riguardo. Quella lunga giornata di sofferenze nuove, il sentimento della propria immensa impotenza gli parve rivelassero cose sorprendenti ch’egli non aveva saputo esistessero. Il male a cui il povero organismo della madre soggiaceva finì col sembrargli un essere personale. Egli lo aveva visto colpire a intervalli, deridere tutti gli sforzi che contr’esso si erano fatti, poi baloccarsi con chi sapeva non potergli sfuggire e accordare tregue illusorie, infine, ora, uccidere.

Giuseppina aveva toccato il corpo della padrona e trovatolo freddo aveva avuto l’idea ingegnosa di rianimarlo riscaldando il letto artificialmente. Infatti ancora una volta la signora Carolina aperse gli occhi e guardò d’intorno supplichevole. Implorava grazia da qualcuno.

Giuseppina andava vantandosi del miracolo da lei fatto, ma durò poco. L’ammalata forse sentì l’avvicinarsi della morte perché, alzato il capo quasi avesse voluto salutare con cortesia, mormorò:

– Questo non ho mai provato! – Furono le sue ultime parole. L’affanno si mutò in rantolo. Alfonso credette che finalmente le fosse dato pace e che i polmoni riprendessero il loro lavoro regolare; le voleva trattenere una mano per appoggiarla e la trovò irrigidita.

Il dottor Frontini capitò per combinazione proprio allora. Constatò il decesso dopo un esame accurato come se si fosse ancora trattato di apportare rimedio.

– È finita! – lo avvertì Alfonso per risparmiargli la fatica.

Dovette dare il medesimo avvertimento a Mascotti ch’era accorso chiamato da Giuseppina e che non voleva credere alla morte. Mascotti voleva confortare e cominciava un discorso per provare ch’era meglio che la signora Carolina fosse morta. Ma Alfonso di conforti non aveva bisogno. Non faceva eccessi, non gridava, aveva la voce soda e tranquilla. Era meravigliato della rapidità con la quale era cessato un tanto male, quell’orribile affanno. La morta era adagiata nel letto che più non la faceva soffrire, da cui più non sdrucciolava. La bocca era spalancata ma non per gridare. Sembrava aperta per un lungo sbadiglio.

Vedendo Alfonso tanto calmo, Mascotti si trovò subito bene in quella casa ove era entrato col timore di dover assistere a delle scenate. Volle rimanere e invitò anche Frontini a far compagnia ad Alfonso. Giuseppina, senza esserne stata incaricata, portò il tavolo dalla stanza della morta nella sua, vi pose intorno delle sedie e approntò del vino.

Appena seduti, Mascotti propose ad Alfonso di andare a stare da lui.

Alfonso rifiutò dicendo che sarebbe rimasto in quella casa finché non lasciava il villaggio. Lo disse tranquillo ma risoluto e Mascotti non insistette oltre.

Tanto Mascotti che Frontini tentavano di far deviare la conversazione, ma parlarono del vino che bevevano, della posizione della casa, della neve abbondante caduta il giorno innanzi e della temperatura rigida di quel giorno, e poi ricaddero a parlare dell’avvenimento che li aveva riuniti in quella stanza.

Giuseppina aveva incominciato raccontando quanto alla signora Carolina fosse giovata la sua assistenza. Se ella non ci fosse stata, la poveretta sarebbe morta mezz’ora prima.

Mascotti stava a sentire con curiosità:

– Strano! La vita dunque proprio non era che un poco di caldo.

Parlava come un contadino, mentre Frontini asseriva che, se la paziente era ritornata in sé, ciò non poteva esser dipeso unicamente da quel poco di calore che le era stato fornito da Giuseppina.

Il dottore poi assicurò che per l’ammalata erano stati eseguiti tutti i dettami della scienza, ma che già dallo scoppio del male egli aveva compreso che non c’era più rimedio. Lo aveva detto a Mascotti.

– Non era forse vero?

Mascotti confermò.

Alfonso stava a udire comprendendo a metà, infastidito dalle loro voci. Non bevette affatto e parlò poco, soltanto quando era costretto a rispondere a una domanda diretta. Non era commosso, ma sembrava riflettesse profondamente; una grande stanchezza nelle membra e nella testa lo accasciava. Certo, Mascotti dovette pensare che quel figliuolo aveva poco cuore.

Non c’erano letti in casa all’infuori di quello del padre, e quello si sarebbe dovuto scomporre per trarlo fuori dalla stanza della morta. Mascotti rinnovò la sua proposta che Alfonso andasse a dormire per un paio di notti da lui, e Frontini, con un poco più di energia perché a lui non costava niente, lo appoggiò. Alfonso, stanco, adottò il partito che gli costava meno parole, accettò. Giuseppina promise di far dessa la guardia al cadavere. Non era mai stata tanto pronta e attiva. Ella aveva avvisato il curato e s’era data un gran da fare intorno alla morta a cui aveva posto fra le mani un crocifisso e messo a canto due candele.

Prima di uscire da quella casa Alfonso volle baciare la madre, e vedendo che Mascotti e Frontini non badavano a lui tentò di entrare non visto nella stanza vicina. Mascotti glielo impedì dicendogli che avrebbe potuto porgere l’estremo saluto alla defunta il giorno dopo. Il pover’uomo ancora sempre temeva di scenate. Frontini fu del parere di Mascotti e Giuseppina, nel suo nuovo zelo, prese Alfonso per la giacchetta e addirittura lo trasse indietro. Ma Alfonso si ostinò e finì con lo sforzare il passo violentemente. Nella lotta gli vennero copiose lagrime agli occhi. Aveva da lasciare sua madre come se l’avesse fuggita?

Non era più la fisonomia ch’egli aveva amata e allibì baciando una fronte già gelida. Aveva baciato una cosa non una persona.

Poi fu docile e fece quanto volle Mascotti. Uscì dalla casa senza fare alcuna raccomandazione a Giuseppina; le lasciava poca cosa in custodia. Camminò in mezzo ai due a capo chino. Erano anch’essi silenziosi perché, dopo di aver visto colare dai suoi occhi quelle due lagrime strappate dalla loro ferocia nel consolare, il suo dolore senza parole li commoveva.

La neve ghiacciata scricchiava sotto ai loro piedi e la luna piena nel cielo sereno inondava dei suoi raggi la vallata bianca, abbagliante in tanta luce fredda. La cima del monte di ghiaia, di là dal villaggio, sembrava incendiata, circondata da un fuoco pallido, immoto. Nel villaggio erano stati fatti dei tentativi meschini di spazzare via la neve e poche macchie più oscure della terra denudata interrompevano finalmente la terribile uniformità bianca.

Le case erano silenziose e oscure; solo da una stanza a pianterreno dell’osteria di Faldelli uscivano da due finestre dei fasci di luce intensa e il suono di voci forti.

Si fermarono dinanzi alla casa di Mascotti situata accanto all’osteria. Frontini si congedò da Alfonso dicendogli qualche parola che non venne da lui udita; dovevano essere ancora delle consolazioni.

La figlia del notaio, una vecchia zitella bruttina, aperse la porta e quantunque già sapesse della disgrazia toccata ad Alfonso, subito dopo strettagli la mano in segno di condoglianza, gli disse una frase ch’era preparata da chissà quanto tempo e a cui ella non aveva saputo rinunziare per quanto fosse fuori di luogo:

– Non aveva proprio trovato il tempo sinora di farmi una visita; in un mese!

Egli volle scusarsi, ma Mascotti lo interruppe ordinando bruscamente alla figliuola di andare a preparare il letto per Alfonso. Costei obbedì, ma dopo di essersi sorpresa che non la si fosse avvisata prima dell’ospitalità che ora tutt’ad un tratto le si chiedeva. Vincendo la sua enorme stanchezza, Alfonso sarebbe uscito da quella casa se ella non avesse resa più cortese la sua frase dicendo che, non essendo stata prevenuta, egli si sarebbe trovato molto male nella stanza e nel letto ch’ella doveva destinargli.

 

Infatti, lasciato solo in una stanzuccia di una finestra, si sentì molto male. Dovette aprire subito la finestra perché l’aria era più umida che fuori. Un forte odore di muffa aumentava la sua tristezza. Gli sembrava che intorno a lui tutto marcisse. La stanza era a pianterreno e la finestra dava sulla via principale. Quando si ritirò dalla finestra, l’odore nella stanza era forte come se l’aria non vi si fosse ancora mutata. Fu in procinto di fuggirne facendo un salto sulla via. Ebbe paura di non poter dormire neppure quella notte mentre dal sonno sperava sollievo; lo desiderava per essere almeno per qualche ora libero dalla tristezza che gli sembrava non lo avrebbe lasciato mai più.

Ma avrebbe dormito! La sua stanchezza era enorme; la testa non rimaneva più ritta sul suo collo. Se avesse lasciato quella casa non sarebbe giunto fino a casa sua ma si sarebbe addormentato sulla neve.

Nel letto si sentì a disagio. La tela delle lenzuola era di grana grossolana e per di più anche il letto gli parve umido; subito dopo chiusa la finestra nella stanza putiva fortemente. Erano i muri, erano i mobili vecchi ch’emanavano quell’odore.

Non sentì l’avvicinarsi lento del sonno ristoratore. Il malessere ch’egli ancora sempre attribuiva alla puzza e alla mancanza d’aria aumentava. Egli di nuovo risolse di levarsi e uscire dalla casa. Era tanto risoluto di agire così che andava immaginando delle scuse alla sua fuga, da dirsi il giorno dopo a Mascotti. Gli parve anche d’essere stato in procinto di porre ad esecuzione il suo progetto e di aver sollevato il busto. Il fatto si è che non ricordava di essersi steso di nuovo e che ben s’avvedeva di trovarsi ancora sempre nel medesimo letto e premendo sul guanciale la testa che gli doleva.

Si sentì tutt’ad un tratto meglio, più comodo nel letto e senza dolori. Stette immoto temendo di far svanire il suo benessere. Certamente non dormiva ma riposava aggradevolmente.

Non si rammentò mai come il passaggio fosse avvenuto, ma improvvisamente egli si vide in tutt’altro luogo e in stato d’animo ben differente.

Giaceva nel suo letto, a casa, nello stanzone bene arieggiato e il sole d’estate entrava da una delle finestre aperte. Era convalescente di una lunga malattia e debole tanto che non gli riusciva di spostare le coperte che gli opprimevano il petto. Ma questo era l’unico disturbo, perché del resto si sentiva lieto, allegro. Fissava il fascio di luce che illuminava un’immensità di corpuscoli sospesi nell’aria, una nebbia leggiera che il sole scopre nell’atmosfera più pura. Era lieto perché sapeva che di là a pochi giorni gli sarebbe stato permesso di uscire all’aria e al sole. Era lieto perché nella cucina vicina sentiva moversi la madre giovine ancora e la quale canticchiava lavorando per lui. Di là gli giungeva il suono monotono che la madre produceva pestando della carne con un coltello, ma nelle orecchie aveva un altro rumore monotono, un ronzìo dolce, una nota tenuta che lo addormentava.

Doveva essere entrato qualcuno nel piccolo corridoio perché sulle pietre sentiva il suono di un piccolo piede e il fruscio di una veste. Proprio dinanzi alla sua porta risonò una dolce voce di donna: – Come sta Alfonso? – Per quanto dolce diveniva disaggradevole quella voce perché si ripeteva e risonava in tutti i vuoti della grande casa. Di chi era che gli sembrava notissima? La mise in relazione con tutte le voci di donna che conosceva e con nessuna s’accordava. – Ah! sì! Francesca! – e lo colse un profondo malessere e pensò: – Se s’è stabilita nel villaggio ruberà la quiete a tutti i suoi abitanti.

La porta s’era aperta e subito la stanza era stata invasa da un tumulto di suoni dei carri che passavano sulla via e dei gridii prolungati dei carrettieri. Con movimento istintivo egli aveva chiuso gli occhi per isolarsi. Era sua madre. Prima ch’ella giungesse al suo letto egli la vide e vide il suo sorriso soddisfatto al trovarlo tanto quieto. Ella si chinò su lui e lo baciò, ma giusto sulla cavità dell’orecchio. Egli sentì un acuto dolore come se dentro qualche cosa fosse scoppiato e si svegliò.

Fu abbagliato dalla luce ch’entrava dalla finestra. Già giorno? La sorpresa era maggiore perché si sentiva ancora stanco come se avesse dormito un’ora al più.

Accanto al suo letto c’erano Mascotti e Frontini e parve che non si fossero accorti ch’egli aveva aperto gli occhi.

– Quanto può durare? – chiese Mascotti pensieroso e accarezzandosi il naso con l’indice.

– Chi lo può sapere? Anche quindici giorni. È probabilmente una tifoidea.

– Io tifo? – chiese Alfonso.

– Vede che capisce e che si sente meglio? – gridò Mascotti contento.

– Ha la febbre ma lieve, – disse Frontini rivolto ad Alfonso. – Deriva probabilmente dalla stanchezza e dal dispiacere. Le garantisco che non è cosa seria. Adesso mi pare che stia molto meglio.

Era dunque ammalato e si sorprendeva di non essersene accorto prima. Aveva la febbre che continuava con brividi alla schiena, tutto il corpo caldo e asciutto, una tendenza a ridere nelle mascelle. Non era disaggradevole come non erano stati disaggradevoli i sogni ch’essa gli aveva dati.

– Sta meglio eh? – chiese Mascotti, e si chinò su lui forse desiderando che Frontini non udisse. Alfonso non dimenticò mai né quanto aveva sognato né quanto ora udiva. – Io la terrei ben volontieri qui, ma non ho nessuno che possa avere per lei le cure di cui abbisogna. Giuseppina sì, quella saprebbe fare da infermiera perché ne ha la pratica.

– Sì, sì, a casa mia, – gridò Alfonso cui la febbre non toglieva di vedere la paura che aveva il pover’uomo di dover tenersi in casa un ammalato.

Udì ancora che Mascotti s’era rivolto a Frontini per fargli constatare ch’era Alfonso stesso che desiderava di ritornare a casa sua.

Ricadde nel sogno ma non interamente. Lottava con la febbre e ad ogni tratto ne usciva trionfante. Sentiva la voce della madre che gli chiedeva come stesse e poi subito gli riusciva di vedere il biondeggiare dei mustacchi di Frontini. Era molto assiduo Frontini. Ogni qualvolta Alfonso apriva gli occhi lo vedeva accanto al letto che gli tastava il polso o ponevagli alla testa delle pezze ghiacciate. Doveva essere una buona persona e nella febbre Alfonso si commoveva per quel povero uomo che egli aveva odiato.

Poi la febbre aumentò di nuovo e vi si aggiunse un forte mal di capo. Si sentì affanno e ne soffrì.

«Oh! povera madre mia!» pensò rammentandosi di quell’altro affanno a cui egli aveva assistito e che doveva essere stato tanto più doloroso del suo.

Doveva aver perduto la nozione del tempo perché riaprendo gli occhi trovò notte oscura. Un lumicino brillava accanto al suo letto e Giuseppina semiaddormentata era sdraiata su un sofà posto sotto alla finestra, parallelo al suo letto. L’avevano chiamata dunque anziché mandare lui fuori di casa. Anche Mascotti era una buona persona.

Aveva una forte sete e mise un piede fuori del letto per andare a bere da una bottiglia d’acqua ch’egli tanto presto aveva scoperta perché vi si rifletteva il piccolo chiarore del lumicino.

– Vuole rimanere nel suo letto? – gridò improvvisamente Giuseppina minacciosa andando verso di lui.

Spaventato ritirò la gamba.

– Non volevo che acqua! – disse per iscusarsi.

– Ah! è in sé! – disse Giuseppina riflettendo comodamente ad alta voce. – Scusi! – aggiunse e quella sua voce grossa d’uomo non sapeva chiedere scusa, – mi hanno raccomandato di stare molto attenta! – Gli diede dell’acqua quanta ne volle.

Dovettero essere più giorni che passò in quello stato perché più volte aprendo gli occhi rimanevano sorpresi dalla luce del giorno mentre s’erano chiusi di notte.