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– La so già. Infatti non l’avrei mai creduto. Lo zio abbandona la città in piena stagione di affari! Queste mura sono poi solide che dalla sorpresa non cadano? L’ho incontrato sulle scale e mi ha raccontato la novità, però con tutt’altra faccia di quella che hai tu adesso!

Gestiva parlando; aveva degl’indugi durante i quali metteva le mani all’altezza delle orecchie, quasi accennando con le dita tese a dei sottintesi che Alfonso non comprendeva.

– Capisco che non ne sia lieto, – disse Annetta. – Quando però qui si vuole, – e si toccò coll’indice la fronte, – basta.

Macario asserì che d’inverno Parigi era più noioso che d’estate. Pareva prendesse una piccola rivincita per una disfatta toccatagli; si capiva ch’egli aveva cercato d’impedire questo viaggio.

– D’inverno hanno sempre qualche cosa per il capo che ne fa gente intrattabile. Ogni giorno Parigi si occupa di un solo argomento che preoccupa tutti, ma tutti. Un giorno della caduta di un ministero, l’altro del discorso di un deputato, il terzo di un omicidio. Sempre noiosi! – concluse.

Annetta, che in questa descrizione riconosceva il Parigi dei romanzi, esclamò:

– Sempre simpatici!

Aveva cercato invano quel Parigi in un suo viaggio precedente.

– Affari di gusti. Si va da un amico, non ti parla che della revolverata toccata a Gambetta; si tratta con qualcuno d’affari ed il vostro cliente è preoccupato dalle revolverate e da Gambetta; si va dal calzolaio e anche lui non vi parla che di Gambetta e qui meno male.

Alfonso rise forte dello scherzo perché non trovava di mettere una parola nel discorso e credette doveroso di dar prova che vi partecipava.

– A teatro si sta bene, d’inverno, a Parigi; una bella première vale il viaggio.

Non traspariva più l’intenzione di sminuire il trionfo di Annetta e parlava più serio, rivolto ad Alfonso, forse per ringraziarlo della risata.

– Assisteremo alla première dell’Odette – gridò con gioia Francesca.

La dimane avrebbero telegrafato per farsi prenotare ai posti.

Macario si rivolse ad Alfonso chiedendogli se era impiegato da suo zio e da quanto tempo lo fosse. Avutone risposta, gli raccontò che sulle scale lo zio l’aveva prevenuto che troverebbe presso Annetta un suo impiegato, corrispondente in parecchie lingue. Alfonso rispose a monosillabi. Alla comunicazione delle lodi di Maller s’inchinò sorpreso e le attribuì a un malinteso. Eppure Maller doveva aver parlato proprio di lui. Macario sapeva ch’egli veniva dal villaggio e gli chiese se soffrisse di nostalgia.

– Alquanto, – rispose Alfonso.

Volle completare la parola secca con l’espressione del volto e vi riuscì.

– Passerà, vedrà! – gli disse Macario; – ci si abitua a tutto a questo mondo; di abitare in una città poi, venendo da un villaggio, molto facilmente, credo.

Annetta si divertiva poco a quel discorso e senza riguardo lo interruppe. Al suono della sua voce, Alfonso alzò il capo credendo che anch’essa volesse fargli qualche domanda e subito disilluso cercò di mascherare il motivo del suo movimento con l’aspetto di un’attenzione intensa.

– Sai che ho imparato delle canzoni che sono popolari a Parigi per fare da Gavroche per le strade, con Federico!

Federico era il fratello di Annetta. Miceni che lo conosceva lo aveva descritto ad Alfonso quale una persona molto altera. Faceva la carriera consolare ed era viceconsole in un porto francese.

– Si potrebbe udire una di queste canzonette? – chiese Macario.

– Perché no? – e si alzò. – Vuoi accompagnarmi? Via, su! Macario è tanto noioso questa sera ch’è il miglior mezzo di passare il tempo, credo.

– Questo toccherà di giudicare a noi – rispose impertinente Macario. – Non le pare?

Alfonso sorrise con sforzo. La tensione continua per apparire disinvolto lo stancava. Se avesse trovato il modo acconcio se ne sarebbe andato subito.

Francesca, seduta al piano, aveva preso sulle ginocchia un fascio di musica e diceva ad Annetta dei titoli di pezzi. Annetta rifiutava con un gesto del capo. Si teneva sulla guancia una mano in atto di riflessione. Finalmente con uno scoppio di risa gridò:

– Quello! Quello!

Dopo alcuni accordi d’introduzione, la signorina passò ad un accompagnamento rudimentale ma vivace.

Con la sua voce dolce, soda, Annetta si mise a cantare e a grande sorpresa di Alfonso principiò a saltellare sul posto, in tempo, fingendo di correre. Francesca rideva sgangheratamente, rideva Macario e non seppe trattenersi neppure la cantatrice stessa con grave danno della canzone che ne risultava qua e là mozza. Riacquistò ben presto la serietà e anche Macario divenne molto serio; in quanto ad Alfonso non aveva riso che per fare come gli altri.

Cantando, Annetta fingeva di essere stanca, incrociava le braccia sul petto per correre meglio, evitava un ostacolo che abilmente faceva supporre, chiedeva scusa ad una persona che correndo aveva urtata.

Alfonso sapeva il francese ma non avendoci abituato l’orecchio difficilmente comprendeva. Macario, guardando sempre Annetta con lo sguardo fiso e parlando a frasi staccate per disturbare meno il canto, gli disse:

– È canzone cantata da un uomo… un uomo che corre dietro ad un omnibus. – S’interruppe e con ammirazione mormorò: – Fatta divinamente!

Annetta era ora realmente stanca: correva sempre, ma saltando meno. Si teneva una mano al petto e la voce veniva rotta dall’affanno.

– Non ne posso più, – disse, e si fermò.

Francesca, ridendo, innestò all’accompagnamento il canto, ma dopo pochi istanti, rimanendo ferma, Annetta ricominciò a cantare. La sua voce risuonava fresca e dolce. Cantava meno vivacemente e si soffermava su qualche nota prolungandola con sentimento così che ad Alfonso che non aveva capito il testo, la canzone terminò col sembrare triste.

Quelle note dolci gli rivelarono la ragione del suo malessere. Il desiderio ch’esse gli diedero di udire una parola amichevole da quella magnifica creatura che aveva una voce così bella, lo fecero accorto che ancora non ne aveva ricevuto alcuna. Era stato accolto bruscamente, quando aveva principiato a parlare era stato interrotto senz’alcun riguardo, non gli era mai stata rivolta la parola. Perché? Ella non lo aveva mai veduto prima di allora. Doveva essere semplicemente il disprezzo per l’inferiore, per la persona vestita male, perché ora egli sapeva quanto male egli fosse vestito; il confronto con Macario ne l’aveva reso avvertito.

Quando Annetta terminò, Macario batté con entusiasmo le mani e Alfonso si unì all’applauso nel modo medesimo. Eccedeva e poco dopo, ripensandoci, se ne accorse, ma non voleva lasciar capire ch’era offeso. Soffriva molto di dover simulare e capiva di aver perduto definitivamente tutto quel poco di disinvoltura che aveva portato seco. Macario nell’entusiasmo tenne lungamente nelle sue la mano che Annetta gli lasciava.

– La signorina parla magnificamente il francese! – fece quasi in tono di domanda Alfonso.

Nessuno si curò di rispondergli ed egli tacque riconoscendosi sciocco e noioso.

Aiutata dalla cameriera, Annetta servì il tè. Con Macario ella insistette che prendesse anche qualche cosa d’altro; incaricò la cameriera di porgere una tazza ad Alfonso gli occhi del quale brillarono dall’ira. Cominciava a sentire il dovere di reagire; quello che più di tutto lo preoccupava era il timore che Macario lo disprezzasse vedendolo subire tanto umilmente tali impertinenze. Avrebbe dato del suo sangue per trovare una parola acconcia, pungente.

– Non prendo mai tè – disse con accento cortese, quasi domandando scusa, irritato di non trovare altra frase e di non saperle dare altra intonazione.

– Vuole del cognac? – domandò Annetta senza guardarlo.

– No! – e non volle dire di più, ma un inchino involontario rese cortese anche questo monosillabo.

Macario gli diresse più di spesso la parola e Alfonso pensò ch’era stato colpito dallo strano contegno d’Annetta e che volesse indennizzarlo con le sue attenzioni. A Macario Alfonso rispose con maggiore tranquillità ma anche a monosillabi.

– Suona qualche strumento?

– No!

Macario gliene fece i complimenti; nulla di più terribile di uno strimpellatore dilettante.

– Cantare, meno male, come mia cugina. Non capisce tutto quello che canta, ma ha la voce aggradevole e piace. Piace persino a me; il mio entusiasmo di poco fa era sincero.

Annetta ringraziò con ironia, si capiva però ch’era offesa del rimprovero più di quanto volesse lasciare trasparire e lo capì anche Alfonso che ne ebbe un senso di profonda soddisfazione; anch’essa andava ora cercando senza trovarla una risposta per ferire o per difendersi.

Per qualche tempo ella aveva parlato scherzosamente, ma poiché Macario continuava a farle dei complimenti sulla sua bellezza e sulla sua grazia ma non recedeva da quanto aveva detto, ella aveva finito col dimostrare più apertamente la sua stizza. Col volto serio e persino alquanto più pallido gridò:

– Dimmi qualche cosa di più preciso; dove ho sbagliato? Per criticare – e voleva essere pungente, – non basta mica deridere.

Macario si mise a ridere così di gusto che Alfonso lo invidiò.

– Ci tieni tanto alla tua fama di artista? Perdonami l’osservazione, la ritiro!

Alfonso si alzò per primo. Francesca si levò in piedi anch’essa e lo incaricò di salutare la signora Carolina. Annetta rimase seduta a discutere col cugino. Costui però si alzò deciso anche lui di andarsene e gridò ad Alfonso:

– Se mi attende vengo con lei.

Lusingato, Alfonso attese.

Macario, sempre molto allegro, stringendole la mano, disse ad Annetta:

– Un’altra volta, mia cara cugina, non dubitarne, preciserò le mie critiche!

In tono scherzoso ma superbamente, Annetta rispose:

– Non me ne importa; se c’è da correggersi, troverò il modo di correggermi da sola.

 

Ella porse la mano anche ad Alfonso; le due mani si toccarono ambedue inerti e ricaddero. Vedendola impallidire, Alfonso fu spaventato, ma dopo si sentì soddisfatto di aver trovato il modo di dimostrare anche lui la sua indifferenza.

Sulla via i due uomini si fermarono.

– Ella va per di là? – chiese Macario accennando verso il mare.

– No, – rispose Alfonso, – veramente verso il Corso.

– Mi faccia il piacere di accompagnarmi per un pezzetto.

Si abbottonava lentamente la pelliccia mentre Alfonso con un brivido cacciava le mani nelle tasche del suo cappottuccio. Senz’attendere risposta al suo invito, Macario si diresse lentamente verso la riva.

– Ella vede mia cugina per la prima volta? – e udita la risposta affermativa di Alfonso: – e per l’ultima, eh? – chiese con un risolino che nell’oscurità suppliva perfettamente al suo gesto abituale.

Alfonso credette di dar prova di grande coraggio rispondendo con franchezza:

– Sì! Lo spero!

– Ma non vale la pena di adirarsi per capricci di donne; mia cugina è una sciocca.

– Non mi pare! – rispose Alfonso con voce commossa.

Era chiaro che a Macario importava di diminuire in Alfonso la cattiva impressione prodotta in lui dal contegno di Annetta.

– Sa perché è stato trattato con tanta freddezza? Un impiegato di mio zio, non appena presentato, s’è messo a fare la corte ad Annetta. Pare che si sia anche vantato di venire corrisposto, così che mio zio lo riseppe e si divertì per qualche tempo a deridere la figliuola. Non era uno sciocco quell’impiegato, un moretto dai capelli corti e crespi. Annetta non ne volle più sapere d’impiegati, perché ella procede sempre per massime generali.

Erano giunti alla riva. Dal mare agitato giungeva il romore delle onde che si frangevano sulla diga. Nell’oscurità della notte senza luna, al di là dei bastimenti schierati alla riva, il mare sembrava un vuoto enorme, nero. Soltanto il raggio mobile del faro si rifletteva sull’acqua e ne svelava la superficie.

Macario trascinò seco Alfonso a destra, verso la stazione.

– Avrei preferito di non venir invitato. Del resto sia certo che non mi lagnerò con nessuno.

Gli era venuto il sospetto che Macario volesse questa promessa.

Macario si mise a ridere:

– Oh! in quanto a me, può raccontarlo a tutti. Crede davvero ch’io ami tanto i miei cari parenti? Non ha visto con quanto piacere feci adirare la cuginetta? Che vanerella, eh!

Poi evidentemente non pensava più al contegno di Annetta con Alfonso. Parlava per proprio conto e alquanto agitato.

– Come poteva io lodarla dopo averla udita poco prima filare le note di quella canzone da Gavroche come se fossero state di una romanza di Tosti! Di qui a qualche tempo, potrò mentire perché allora non rammenterò più quelle note e soltanto la magnifica figura agitata dalla stanchezza. Non trova che di solito la faccia di mia cugina non è abbastanza vivace? Ecco! Come Napoleone aveva il pieno possesso delle sue facoltà mentali soltanto sul campo di battaglia, così mia cugina non è bella perfettamente che quand’è agitata! Ma è difficile agitarla.

Alla luce di un fanale Alfonso vide che mancava il gesto abituale.

Con la sua semplicità da contadino gli chiese se realmente non volesse bene a sua cugina.

– In quanto ad amarla… – si fermò volendo far mostra d’essere pentito dello scherzo e con voce profonda e seria continuò: – Amo le ragazze che sono fatte altrimenti. Mia cugina non è una ragazza, è una donna e anzi di più… – e fece un breve risolino; – una cara donna però, bella, dotta troppo, tanto che spesso appare di non essere educata. Conosce matematica, conosce filosofia, legge con predilezione libri seri, e di questo non sarebbe troppo da meravigliarsi, ma li comprende, parola di onore, li comprende! Con la sua solita scrupolosa esattezza saprebbe ridirne il contenuto. Però artista non sarà giammai… forse in qualche istante di forte ebollizione del sangue… – e con le mani fece dei gesti vivaci tanto che avrebbero fatto supporre ch’egli volesse parlare di rivoluzione. – È figliuola di suo padre, non di sua madre ch’era un’ignorante, dal cervello debole, ma graziosa, sempre simpatica anche quando diceva sciocchezze. Annetta ha la memoria ferrea, le qualità matematiche pronunziatissime, lo spirito pronto per cose concrete, solide, come suo padre. Non capiscono caratteri, non sentono musica, non distinguono il quadro originale dalla mala copia. Ora Annetta si dedica alle chineserie, fu la prima ad introdurle in città, ma ne sa quanto i suoi autori gliene dissero e non ne capisce nulla affatto perché non le sente. L’unico quadro buono che abbiano in casa l’ho comperato io, una via attraverso i sassi.

– L’ho visto, magnifico! – esclamò Alfonso e per darsi aria d’importanza chiese: – Di chi è?

– Il nome dell’autore non rammento, rammento il quadro – rispose Macario – io sono figliuolo di mia zia.

Alfonso rise, ma Macario non rideva. Anche quando le sue osservazioni apparivano scherzose, erano dette con l’espressione di un profondo rancore e Alfonso non sapeva convincersi che fosse naturale di parlare così a lui, a uno straniero. Andava ricercando quando Macario avesse potuto ubbriacarsi dopo di essersi contenuto tanto abilmente in casa Maller.

Venne di peggio:

– Certo che un uomo che avesse del sale in zucca non sposerebbe Annetta. Conosce le novelle di Franco Sacchetti? Merita di leggerle, se non tutte, una, indimenticabile: Un frate viene ospitato in una casa ove vede il suo ospite troppo debole, maltrattato dalla moglie. Il frate, nell’ira fa il voto, per poterla castigare, di sposare quella donna se le circostanze glielo permetteranno. Infatti capita il malore, muore il marito e muoiono tutti gli altri frati del convento che viene sciolto. Il frate compie il suo voto, sposa la donna e come propostosi la bastona di santa ragione. Per Annetta verrebbe voglia di fare dei voti simili, solo allo scopo di annientare quella superbia che secca, che offende. Si avrebbe torto, perché all’esecuzione si finirebbe coll’essere il bastonato.

Era possibile che Macario si fosse proposto di dire delle verità in tono che le facesse apparire dette per ischerzo e che senza proposito avesse abbandonato tale tono. Così pensò Alfonso vedendo che Macario, forse pentito, cominciava a spiegare le ragioni che lo avevano reso tanto loquace.

– Non creda che io usi fare di queste confidenze al primo venuto. Ella mi è simpatico; mi creda o non mi creda, è così.

Alfonso, confuso, mormorò un ringraziamento.

– Mi piacque ch’ella abbia avuto tanto forte il desiderio di vendicarsi di Annetta e mi piacque anche che non l’abbia saputo soddisfare. Oh! io osservo, è inutile negare con me! Non sono mica le persone più sciocche quelle che non hanno prontissima la parola più o meno offensiva per reagire. Anzi! – Credendosi giustificato aggiunse un’altra osservazione cruda, ridendo però:

– Quando m’imbatto in queste donne tanto attive e tanto aggressive, tanto inquietanti insomma, mi vien fatto di pensare a quell’inglese che ad una troppo focosa rammentava che pagava per baciare e non per venir baciato!

Sulla piazza della Stazione strinse la mano ad Alfonso e, con un saluto a mezza voce, lo lasciò e si diresse verso il caffè. Alfonso che aveva freddo, si avviò verso casa correndo.

V

In maggio, quell’anno, si ebbero già delle forti caldure; per alcune settimane, dal cielo senza nubi, il sole inviò dei raggi cocenti certo non primaverili.

– È un’ingiustizia – diceva Ballina – che con queste paghe miserabili si debba sudare tanto già in maggio.

Il lavoro non era ancora diminuito. Uscivano dalla stanza del signor Cellani, passavano per quella di Sanneo e terminavano in corrispondenza, pacchi enormi di lettere arrivate. Sbuffava persino Giacomo che da essi non aveva che il disturbo di trasportarli da un luogo all’altro.

In giugno principiava a pena la diminuzione del lavoro, e Miceni, col suo metodismo abituale, aveva spiegato ad Alfonso la legge che regolava questa diminuzione:

– In giugno si ritirano alla campagna i più ricchi banchieri, gli scienziati del mondo bancario, gl’iniziatori della speculazione. Il nostro lavoro giornaliero rimane il medesimo perché quello non è creato da costoro, ma mancano le foghe inaspettate di lavoro, tanto dolorose ai subalterni, le emissioni e le conversioni. Già in luglio diminuisce il lavoro bancario, non perché sia avvenuto nulla di nuovo alle banche, ma perché a loro volta si mettono in libertà i più ricchi commercianti. In agosto, il più bel mese dell’anno, si trovano al verde, presidenti di banca, direttori e peggio, unitamente ai commercianti. Non rimane a casa che il numero necessario d’impiegati.

Da Maller il processo non corrispondeva a questa regola. In maggio e giugno prendevano il permesso alcuni impiegati e i capi, in luglio il signor Cellani, il procuratore, ed in agosto a pena il signor Maller.

Il primo a partire fu Sanneo il quale si prese quindici giorni di permesso mentre ne avrebbe avuto diritto a trenta. Fra gl’impiegati si asseriva che il signor Sanneo non sapesse restare per troppo lungo tempo privo del suo pane quotidiano, la posta e la polemica.

Alfonso, per caso, presente, Sanneo diede le istruzioni a Miceni, il quale nella sua assenza doveva fungere da capo. La stanza di Sanneo era posta accanto a quella del signor Cellani, più buia di questa perché un palazzo di faccia le toglieva la luce. Anche questa stanza, d’inverno aveva i tappeti, ma, salvo il tavolo di legno nero, largo e comodo, cedutogli dal procuratore che ne aveva preso un altro, i mobili erano identici a quelli degli altri impiegati: due armadi di legno dipinti rozzamente in giallo, una sedia di paglia e, di fianco all’unica finestra, un altro tavolo da cui era stato levato il palchetto.

Sanneo, seduto, andava consegnando a Miceni che stava alla sua destra in piedi, lettera per lettera, un grosso pacco, indicandogli esattamente quanto avesse da fare a un dato giorno o dopo ricevuto altro scritto. Riponeva qualche lettera anche dopo data tutta la spiegazione osservando con una smorfia che c’era tempo per rispondere e che voleva farlo lui a suo tempo. Si capiva che gli seccava di abbandonare a Miceni tutta la sua gestione.

Miceni ritornò nella sua stanza col capo ritto, la figurina tesa, il passo rigido. Si sedette e con un sorriso sprezzante mormorò:

– Tante spiegazioni come se fossi da ieri alla banca.

Ripensandoci rammentò dei particolari del suo colloquio con Sanneo e ne rise:

– Vuoi scommettere che all’ultimo momento Sanneo si pente e rimane?

Il più vivo desiderio di Alfonso era di andarsene; non sapeva perciò ammettere che altri volesse rimanere.

Poco dopo venne Sanneo ad avvisare che differiva la partenza al giorno appresso. Miceni guardò Alfonso, e quando uscì Sanneo esclamò con ira:

– Valeva la pena di tenermi di là per un’ora a darmi delle istruzioni di cui non avevo bisogno!

– Saranno buone per domani! – rispose Alfonso che per affari d’ufficio non comprendeva l’ira.

– Domani partirà come è partito oggi.

Invece Sanneo partì. Alla sera andò in giro nei diversi uffici a salutare gl’impiegati. Porse la mano ad Alfonso che, balbettando, gli augurava il buon divertimento, e lo ringraziò con un sorriso veramente benevolo. Ad onta di quanto gli era stato detto, Alfonso credette di veder brillare in quegli occhi irrequieti la gioia per i quindici giorni di libertà.

Miceni occupò la stanza di Sanneo per essere alla mano dei direttori. Riceveva gli ordini direttamente dal signor Maller o dal signor Cellani e Alfonso gl’invidiava la disinvoltura con la quale trattava con tali alti personaggi.

Per Alfonso fu questo un intervallo di riposo a quel lavorio di copiatura a cui veniva costretto da Sanneo ed ebbe poscia spesso a rimpiangere questi quindici giorni. Non importava gran fatto a Miceni che venissero spedite molte offerte; per corrispondere all’impegno preso gli bastava che il lavoro d’obbligo venisse fatto intero e senza errori. Ebbe l’intelligenza di abbandonare subito il sistema seguito da Sanneo. Costui non dava da fare la posta corrente che a Miceni e a due altri impiegati; gli altri tutti facevano un lavoro basso di copiatura e di revisione di conteggi: «È preferibile un impiegato che comprenda a dieci imbecilli» soleva dire Sanneo. Miceni chiamò tutti ad aiutarlo e ad Alfonso toccò scrivere piccole lettere italiane di scritturazione, lavoro più variato e più piccolo di quello avuto sino ad allora.

Solo nella sua stanza, trovò il tempo di leggere dei libri che si portava di casa. Romanzi non leggeva avendo ancora sempre il disprezzo da ragazzo per la letteratura detta leggera. Amava i suoi libri scolastici che gli ricordavano l’epoca più felice della sua vita. Uno di questi leggeva e rileggeva instancabile, un trattatello di retorica contenente una piccola antologia ragionata di autori classici. Vi si parlava per lungo e per largo di stile fiorito o meno, lingua pura o impura, e Alfonso, avuta l’idea teorica che faceva sua, sognava di divenire il divino autore che avrebbe riunito in sé tutti quei pregi essendo immune da quei difetti.

 

Alla sera nella stanza di Alfonso, la quale era la più appartata, si riunivano parecchi corrispondenti a chiacchierare. Quando c’era il signor Sanneo vi si stava sempre all’erta perché capitava inatteso come una bomba, col suo passo sempre affrettato e a pena entrato, qualunque ora fosse, gridava: «Non perdano tempo, non perdano tempo!» Nessuno si arrischiava di rispondere e il gruppo si scioglieva come una mandra dispersa da un cane imbizzito.

Miceni invece, anche adesso, veniva qualche sera a passare la mezz’ora quieto in quella stanza. Stava zitto, sdraiato sul vecchio sofà, stanco ma lieto della giornata, agitato dall’importanza del suo lavoro.

Ballina lo trattava per derisione con rispetto affettato. Un giorno, nella foga del lavoro, Miceni gli aveva rimproverato lentezza ed egli non gliela perdonava. Miceni cercò di giustificare quella sgridata, ma Ballina gli rise in faccia:

– Come se gli affari della banca fossero i tuoi. Capisco, quantunque molto difficilmente, che il signor Maller, che il signor Sanneo ci tratti con alterigia, ma non un capo corrispondente per quindici giorni.

Certamente Ballina doveva essere una persona felice; aveva la beatitudine del suo molto lavoro meccanico tanto evidente, che persino Alfonso che volentieri non l’avrebbe ammesso, la comprese. Si diceva per vanteria capo dell’ufficio informazioni ma ne era l’unico componente. Lui domandava le informazioni e lui le copiava e le disponeva per ordine alfabetico in un grande armadio. Non teneva sospesi perché il suo lavoro non lo richiedeva e aveva l’abitudine di rimanere all’ufficio molte più ore di quanto fosse obbligato. Puliva bocchini d’osso di cui era provvisto in quantità, raddrizzava serrature, aguzzava rasoi, si faceva la barba in ufficio, quando se la faceva. Grande fumatore, aveva sempre nel cassetto un enorme quantità di tabacco in mucchio su un foglio di carta oleata; era una mescolanza di diverse specie e profumata da una radice che dava alla sua stanza un odore intenso di resina. Era la sua vera abitazione quella stanza; ci aveva introdotto delle comodità, tra altre inchiodato sulla sedia di paglia un pezzo di corame per sedere più comodo. Un cassetto del suo tavolo era destinato esclusivamente alle munizioni; del pane, talvolta del burro, spesso una bottiglia di birra, sempre una bottiglietta di zozza di cui usava offrire agli amici che venivano a fargli visita. Nell’altra sua abitazione non doveva stare troppo comodo. Raccontava che la stanza ove dormiva era tanto piccola che essendoci il letto e l’armadio, la sedia era di troppo e impediva l’ingresso. Non potendo farne a meno trovò un meccanismo ingegnoso:

– Legai la sedia ad una corda che attaccai alla parte superiore della porta dopo di averla fatta passare per un gancio sporgente dal muro. Aprendosi la porta, la sedia sale e lascia l’ingresso libero; chiusa la porta ci si trova la sedia accanto e si può sedervisi senza muover passo.

C’era forse dell’esagerazione in tale descrizione, ma di certo qualche cosa di vero. Un giorno dinanzi ad Alfonso consegnò ad un servo di piazza le chiavi della sua stanza incaricandolo di trovargli un nuovo alloggio e di trasportarvi i suoi pochi mobili. La sua abitazione, quella che aveva il suo affetto da femmina, era l’ufficio.

Ballina con quel suo aspetto posato aveva dissipato una piccola sostanza che gli era stata affidata, come egli diceva, quando ancora non comprendeva il valore del denaro. Per un annetto di piaceri, ne aveva passati molti nella miseria e doveva passarne molti altri, «fino alla morte probabilmente» diceva, mentre se avesse avuto a disposizione qualche poco di denaro, ingegnoso come era avrebbe saputo aiutarsi. Così invece lavorò sempre per altri, in una fabbrica di bocchini, in altra di aceto, rivenditore ad un’esposizione, da un negoziante di bastoni e così via, sempre malissimo retribuito. Finalmente capitò da Maller ove si affezionò a quel lavoro tanto da rassegnarsi ad un emolumento misero assai.

Il corrispondente francese, White, faceva di solito le spese della conversazione. Di famiglia inglese trapiantata in Francia, era stato allontanato da Parigi dai suoi parenti che temevano mangiasse tutta la sua sostanza al giuoco e nella vita comoda e signorile che amava di condurre. Era entrato alla banca quale corrispondente francese, da prima sottoposto a Sanneo, poi indipendente dopo una violenta baruffa con il suo capo. Maller riconobbe che quei due non potevano andare d’accordo e li divise non volendo costringere White a sottomettersi. White era protetto da un banchiere suo vecchio amico. Il lavoro di White verteva quasi del tutto su affari di borsa di cui pareva avesse una perfetta conoscenza. Era del resto un buon impiegato, rapido lavoratore quantunque disordinato. Sempre vestito elegantemente, aveva però una figura tozza, il passo incerto, la schiena teneva curva e gli dava un aspetto molto originale il vestito da lion con quella figura da vecchio. Il suo volto invece era regolarissimo; gli occhiali lo abbellivano accrescendo serietà alla sua faccia bruna. Nel luogo che per lui era di provincia, s’era appassionato per la caccia e la sua pelle portava le traccie delle molte ore passate al sole. Lavorava con grande rapidità e quando nulla aveva da fare, prendendosi una libertà che gli altri impiegati non avrebbero osato, non veniva affatto all’ufficio.

Intelligentemente blagueur, la sua conversazione riusciva interessante; leggeva tutti i nuovi romanzi francesi e ne parlava da un certo punto di vista che dava originalità alle sue osservazioni. Non amava i romanzi più moderni; ne comprendeva, a quanto Alfonso poteva giudicare, tutti i meriti, ma non li amava sempre. Vi trovava una cosa di troppo o altra di troppo poco e finiva col dirne male. Offendeva il feticismo di Alfonso parlando con famigliarità sprezzante degli scrittori più celebri. «Quegli dava il titolo al suo romanzo per attirare gli acquirenti, l’altro scriveva porcherie al medesimo scopo, il terzo che si diceva buono, scrittore che veniva letto dalle signorine, era un birbante che legnava sua madre.»

Offerse ad Alfonso dei libri in prestito, e, dimenticandosi sempre di portarglieli, una sera lo condusse seco a prenderli. Abitava nel centro della città in un primo piano spazioso. Attraversata una piccola anticamera, entrarono in uno stanzone non ammobigliato che da un tavolo e alcune sedie; le finestre erano senza coltrinaggi. In tanta luce e per tanto spazio la stanza rimaneva troppo nuda.

Vestita di un accappatoio color rosa, bionda, dai tratti troppo regolari, una donna era seduta accanto ad una finestra lavorando al telaio.

– Ma femme – disse White presentando, e poi: – Mon ami Monsieur Nitti.

La signora s’era alzata a stento, impedita dal panno che pendeva dal telaio. I due presentati si guardarono, lui mormorando una parola di complimento, ella proprio attendendo ch’egli se ne andasse per rimettersi al lavoro. White s’era precipitato in una stanza vicina e Alfonso, seccato di trovarsi muto con una muta, dopo un inchino leggermente corrisposto lo seguì.

La stanza da letto aveva i due letti uno accanto all’altro, un armadio e alcune sedie. I libri di White, una ventina, giacevano in disordine sul pavimento, sotto all’unica finestra, anche questa mancante di coltrinaggi. Non un quadro alle pareti; nulla di più del necessario; sembravano due stanze ammobigliate per albergarci per qualche tempo, non un’abitazione.