Il Nostro Sacro Onore

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CAPITOLO TRE

23:16 ora di Israele (16:16 ora della costa orientale)

Linea Blu, confine tra Israele e Libano

“Non obbedite ai mentitori, ai miscredenti,” sussurrava il diciassettenne.

Fece un respiro profondo.

“Lottate contro di essi vigorosamente. Combatteteli finché Allah li castighi per mano vostra, li copra di ignominia, vi dia la vittoria su di loro.”

Il ragazzo era decisamente agguerrito. A quindici anni aveva lasciato casa e famiglia per entrare nell’Esercito di Dio. Aveva attraversato il confine in Siria e aveva trascorso gli ultimi due anni a combattere strada per strada, faccia a faccia e a volte corpo a corpo gli apostati di Daesh, come avevano chiamato l’ISIS gli occidentali.

Daesh non aveva paura di morire – anzi, quelli la morte l’accoglievano con entusiasmo. Molti di loro erano vecchi ceceni e iracheni, difficilissimi da uccidere. Gli ultimi giorni passati a opporsi a loro erano stati un incubo, ma il ragazzo era sopravvissuto. In due anni aveva combattuto tante battaglie e ucciso tanti uomini. E aveva imparato molto sulla guerra.

Ora si trovava nell’oscurità della pendice di una collina del nord di Israele. Si sistemò un lanciarazzi anticarro sulla spalla destra. Ai primi tempi un razzo pesante come quello gli avrebbe bucato la spalla, e dopo un po’ le ossa avrebbero cominciato a dolere. Però adesso era più forte. Il peso non gli faceva più tanta impressione.

C’era una piccola schiera di alberi attorno a lui, e molto vicino, a terra, un gruppo di commando che osservavano la carreggiata sottostante.

“Combattano dunque sul sentiero di Allah, coloro che barattano la vita terrena con l’altra,” disse, molto piano, sottovoce. “A chi combatte per la causa di Allah, sia ucciso o vittorioso, daremo presto ricompensa immensa.”

“Abu!” sussurrò qualcuno ferocemente.

“Sì.” La voce sua, invece, era calma.

“Zitto!”

Abu fece un respiro profondo e l’esalazione uscì lentamente.

Era un esperto del razzo anticarro. Ne aveva sparati così tanti, ed era diventato così preciso, da essere adesso un uomo molto prezioso. Era una cosa che aveva imparato sulla guerra. Più a lungo si sopravviveva, più abilità si accumulavano, e migliore si diventava nel combattimento. Migliori si diventava, più preziosi si era, ed era ancor più probabile rimanere in vita. Ne aveva conosciuti molti che non era sopravvissuti a lungo in combattimento – una settimana, dieci giorni. Ne aveva incontrato uno che era morto il primo giorno. Se solo fossero riusciti a durare un mese, le cose avrebbero cominciato a farsi più chiare per…

“Abu!” sibilò la voce.

Annuì. “Sì.”

“Pronto? Arrivano.”

“Ok.”

Si mise al lavoro, rilassato, quasi come se si stesse solo allenando. Sollevò il lanciarazzi e ne aprì il fondo. Sistemò la mano sinistra lungo la canna, leggermente, leggermente, finché non comparve l’obiettivo. Niente presa troppo ferma troppo presto. L’indice della mano destra accarezzava il meccanismo del grilletto. Si mise il mirino vicino alla faccia, ma non all’occhio. Gli piaceva tenere gli occhi liberi fino all’ultimo momento, in modo da acquisire il quadro intero prima di concentrarsi sui dettagli. Curvò leggermente le ginocchia, la schiena arcuata di pochissimo.

Adesso vedeva venire dal convoglio della luce, dietro alla collina alla sua destra, in avvicinamento sulla strada. Le luci raggiunsero la sommità, gettando strane ombre. Qualche secondo dopo udì il rombo dei motori.

Fece un altro respiro profondo.

“Fermo…” disse una voce severa. “Fermo.”

“Signore Allah,” disse Abu, le parole che uscivano rapidamente ora, e più forti di prima. “Guida le mie mani e i miei occhi. Consentimi di portare morte ai tuoi nemici, nel tuo nome e nel nome del tuo adoratissimo profeta Maometto, e di tutti i grandi profeti di tutti i tempi.”

La prima jeep sbucò dalla curva. I tondi fanali adesso erano chiari, lì a tagliare la foschia notturna.

Abu il ragazzo si irrigidì istantaneamente sotto al peso della pesante arma. Mise l’occhio destro sul mirino. Apparvero i veicoli della fila, grossi, come se potesse allungare una mano e toccarli. Il dito gli si strinse sul grilletto. Il respiro gli rimase incastrato in gola. Non era più un ragazzo con un lanciarazzi – lui e l’arma si fusero insieme, diventando un’unica entità, una macchina assassina.

Tutt’intorno ai suoi piedi, degli uomini si muovevano come serpenti, strisciando verso la carreggiata.

“Fermo,” ripeté la voce. “La seconda macchina, capito?”

“Sì.”

Nel mirino, la seconda jeep era LÌ. Vedeva le ombre delle persone che c’erano dentro.

“È facile,” sussurrò. “Facilissimo… Fermo…”

Trascorsero due secondi, Abu lentamente fece passare il lanciarazzi da destra a sinistra, seguendo l’obiettivo, senza mai vacillare.

“FUOCO!”

* * *

Avraham Gold questa parte la odiava.

Odiare era la parola sbagliata. La temeva. In qualsiasi secondo, ormai, poteva arrivare.

Qui parlava sempre. Parlava troppo. Gli pareva di poter sputar fuori tutto, solo per superare quel posto. Diede un lungo tiro alla sigaretta – era contro alle regole fumare di pattuglia, ma era l’unica cosa che lo rilassava.

“Lasciare Israele?” disse. “Mai! Israele è casa mia, ora e per sempre. Farò dei viaggi all’esterno, certo, ma andarsene? Come potrei mai? Siamo stati chiamati da Dio a vivere qui. Questa è la Terra Santa. Questa è la terra promessa.”

Avraham aveva vent’anni, caporale delle forze di difesa israeliane. I suoi nonni erano tedeschi sopravvissuti all’Olocausto. Credeva a ogni parola che diceva. Ma gli suonavano comunque vuote alle orecchie, come un trito spot televisivo pro-coloni.

Era al volante della jeep, a guidare la terza e ultima auto della fila. Guardò la ragazza seduta accanto a lui. Daria. Dio, che bella!

Persino con i capelli quasi rasati, persino con il corpo coperto cerimoniosamente dall’uniforme. Era il sorriso. Poteva accendere il cielo. E quelle lunghe ciglia – da gatta.

Lei non aveva ragione di stare lì, in quella… terra di nessuno. Soprattutto con le sue vedute. Era una liberale. Non ci dovrebbero essere liberali nelle IDF, aveva deciso Avraham. Erano inutili. E Daria era peggio che liberale. Era…

“Io non credo nel tuo Dio,” disse semplicemente. “Lo sai.”

Adesso Avraham sorrise. “Lo so, e quando uscirai dall’esercito farai…”

Terminò lei il suo pensiero. “Un trasferimento a Brooklyn, esatto. Mio cugino ha una ditta di traslochi.”

Quasi rise, nonostante il nervosismo. “Sei una ragazzina un po’ scheletrica per trasportare divani e pianoforti su e giù per rampe di scale.”

“Sono più forte di quanto tu…”

Allora la radio strillò. “Pattuglia Abel. Rispondete, pattuglia Abel.”

Lui sollevò il ricevitore. “Abel.”

“Ubicazione?” giunse la voce metallica.

“Stiamo entrando proprio adesso nel settore nove.”

“Giusto in tempo. Ok. Occhi aperti.”

“Sì, signore,” disse Avraham. Risistemò il ricevitore e guardò Daria.

Lei scosse la testa. “Se è così preoccupante, perché non fanno qualcosa?”

Lui si strinse nelle spalle. “È l’esercito. Sistemeranno la cosa quando accadrà qualcosa di terribile.”

Il problema ce lo avevano proprio davanti. Il convoglio si spostava da est a ovest lungo la sottile striscia di carreggiata. Alla loro destra c’era una schiera di fitta e profonda foresta – cominciava a cinquanta metri dalla strada. Le IDF avevano ripulito il territorio fino al confine. Dove cominciavano gli alberi, c’era il Libano.

Alla loro sinistra c’erano tre verdi colline scoscese. Non proprio montagne, ma nemmeno appena in pendenza. Erano secche, e cadevano a strapiombo. La carreggiata si avvolgeva attorno e dietro di esse, e per un solo istante le comunicazioni radio erano inconsistenti, e i convogli vulnerabili.

Il comando delle IDF parlava di quelle colline da più di un anno. Dovevano essere le colline. Non potevano sgombrare la foresta perché era territorio libanese – avrebbe causato un incidente internazionale. Quindi per un po’ avrebbero fatto saltare per aria le colline. Poi avrebbero costruito una torre di guardia sulla cima di una di esse. Entrambi i piani erano stati giudicati inidonei. Far saltare le colline voleva dire che la strada avrebbe dovuto essere temporaneamente deviata lontano dal confine. E la torre di guardia sarebbe stata sotto costante minaccia di attacco.

No, la cosa migliore da fare era far passare delle pattuglie tra le colline e la foresta giorno e notte e sperare per il meglio.

“Guarda quei boschi,” disse Avraham. “Occhi aperti.”

Si accorse di aver appena ripetuto le esatte parole del comandante. Che scemo! Lanciò un’altra occhiata a Daria. Il suo pesante fucile giaceva lungo la sua sottile figura. Ridacchiava e scuoteva la testa, facendosi rossa in volto.

Nell’oscurità davanti, dalla loro sinistra eruttò un bagliore di luce.

Si schiantò contro alla jeep centrale, venti metri davanti a loro. L’auto esplose, girò alla sua sinistra e rotolò. L’auto bruciò, gli occupanti già inceneriti.

Avraham schiacciò i freni, ma troppo tardi. Sbandò nel veicolo in fiamme.

Accanto a lui, Daria urlò.

Avevano attaccato dal lato sbagliato – il lato della collina. Lì non c’era copertura. Erano dentro a Israele.

Non c’era tempo per parlare, non c’era tempo per dare un ordine a Daria.

I colpi d’arma da fuoco adesso arrivavano da entrambi i lati. I proiettili di una mitragliatrice gli crivellarono la portiera. DANK-DANK-DANK-DANK-DANK. Il finestrino gli andò in pezzi, gettandogli addosso vetro. Almeno uno dei colpi aveva penetrato il giubbotto. Era stato colpito. Si abbassò lo sguardo sul fianco – c’era un’oscurità crescente che si espandeva. Sanguinava. Lo sentiva a malapena – sembrava la puntura di un’ape.

 

Grugnì. Degli uomini correvano nell’oscurità.

Istantaneamente, prima di accorgersene, aveva la pistola in mano. La puntò fuori dal finestrino mancante.

BLAM!

Il rumore fu assordante per le sue orecchie.

Ne aveva preso uno. Ne aveva preso uno. Era andato giù.

Ne mirò un altro.

Fermo…

Accadde qualcosa. Tutto il suo corpo venne strattonato sul sedile. Aveva mollato la pistola. Un colpo, qualcosa di pesante, lo aveva attraversato. Era venuto da dietro e aveva forato il cruscotto. Uno sparo, o un piccolo razzo. Con cautela, intorpidito dal terrore, si portò una mano al petto e toccò la zona sotto alla gola.

Era… andata.

Aveva una grossa voragine sul petto. Come cavolo faceva a essere ancora vivo?

La risposta giunse istantaneamente: presto non lo sarebbe stato.

Non lo sentì neanche. Una sensazione di calore gli si diffuse per il corpo. Guardò di nuovo Daria. Che peccato. Voleva convincerla di… qualcosa. Adesso non sarebbe mai accaduto.

Lei lo fissava. Aveva gli occhi rotondi, come piattini da caffè. Aveva la bocca aperta in una gigantesca O di orrore. Sentiva il bisogno di consolarla, persino adesso.

“Va tutto bene,” voleva dirle. “Non fa male.”

Ma non riusciva a parlare.

Al finestrino dietro di lei apparvero degli uomini. Con i calci dei fucili, distrussero i resti del vetro. Entrarono delle mani, per cercare di tirarla fuori dal finestrino, ma lei lottò. Si lanciò su di loro a mani nude.

Si aprì la portiera. Ora erano in tre, a trascinarla, tirarla.

Poi era sparita, e lui era solo.

Avraham fissò il veicolo bruciare nell’oscurità davanti a lui. Gli venne in mente che non aveva idea di quel che era successo al veicolo di testa. Immaginava che adesso non avesse importanza.

Pensò brevemente ai suoi genitori e a sua sorella. Voleva bene a tutti loro, semplicemente e senza rimpianti.

Pensò ai nonni, forse pronti a riceverlo.

Non sarebbe più potuto uscire dal veicolo in fiamme. Erano solo rossi, gialli e aranci brillanti che sfarfallavano contro allo sfondo nero. Osservò i colori farsi sempre più piccoli e sempre più fiochi, l’oscurità che si diffondeva e che si faceva ancora più oscura. L’inferno dell’auto esplosa adesso sembrava il tremolio di una candela spenta.

Guardò finché non si spense l’ultimo colore.

CAPITOLO QUATTRO

16:35 ora della costa orientale

Quartier generale dello Special Response Team

McLean, Virginia

“Be’, immagino che il gruppo sia tornato insieme ufficialmente,” disse Susan Hopkins.

Luke al pensiero sorrise.

Era il primo giorno dello Special Response Team negli alloggi nuovi di pacca. Il nuovo quartier generale era quello di una volta, ma ristrutturato. Il tozzo edificio a tre piani di vetro e cemento si trovava nel benestante sobborgo di McLean, a sole poche miglia dalla CIA. Aveva un’elisuperficie con un nuovo Bell 430 nero curvo sull’asfalto come una libellula, sul fianco il brillante logo bianco dell’SRT.

C’erano quattro SUV neri dell’agenzia nel parcheggio. L’edificio aveva uffici al pianterreno e al primo piano, e una sala conferenze all’avanguardia che quasi faceva il paio con la sala operativa della Casa Bianca. Aveva ogni gadget tecnologico che la febbrile mente di Mark Swann potesse evocare. La palestra (completa di attrezzatura cardio, macchine per la pesistica e una sala allenamento con pareti molto imbottite) e la mensa si trovavano al secondo piano. Il poligono di tiro insonorizzato si trovava nel seminterrato.

La nuova agenzia aveva venti impiegati, le dimensioni perfette per rispondere a eventi in corso rapidamente, con leggerezza e in totale flessibilità. Scorporata dall’FBI e ora organizzata come subagenzia dei servizi segreti, la disposizione limitava le interazioni di Luke con la burocrazia federale. Faceva rapporto direttamente alla presidente degli Stati Uniti.

Il piccolo campus era circondato da recinzioni di sicurezza con in cima filo spinato. Però in quel momento i cancelli erano spalancati. Oggi c’era l’Open Day. E Luke era felice di esserci.

Percorreva i corridoi a grandi passi con Susan, entusiasta di mostrare alla presidente degli Stati Uniti tutte le cose che lei già conosceva. Gli sembrava di avere cinque anni. Le lanciava un’occhiata di tanto in tanto, si immergeva nella sua bellezza, ma non fissava. Soffocava la voglia di tenerla per mano, cosa che apparentemente faceva anche lei, perché la mano di lei gli sfiorava la sua, il braccio, la spalla, quasi costantemente.

Susan doveva conservare tutto quel contatto per dopo.

Luke rivolse l’attenzione all’edificio. Il luogo era stato messo insieme esattamente come aveva sperato, e così l’SRT. I suoi avevano accettato di unirsi a lui. Non era una questione da poco – con tutte le fatiche che avevano sopportato, e la lunga assenza di Luke, era un miracolo che tutti fossero disponibili a fidarsi ancora di lui.

Lui e Susan entrarono nella mensa e guadarono la folla, seguiti da due agenti dei servizi segreti. Una dozzina di persone circa formava una coda serpentina al bar. Alla finestra, Luke scorse la persona che cercava, in piedi tra Ed Newsam e Mark Swann, sovrastato dai muscoli gonfi di Ed e da quella pertica di Swann. Suo figlio, Gunner.

“Vieni, Susan, laggiù c’è qualcuno che voglio presentarti.”

D’un tratto parve affranta. “Aspetta, Luke! Questo non è il…”

Lui scosse la testa, e stavolta la afferrò davvero – per il polso. “Andrà tutto bene. Digli che sei il mio capo. Mentigli.”

Emersero dalla folla e apparvero accanto a Gunner, Ed e Swann. Swann aveva i capelli in una coda di cavallo, occhiali avvolgenti in viso. Aveva il lungo corpo avvolto in una t-shirt nera dei RAMONES, blue jeans sbiaditi, con sneakers Chuck Taylor a scacchiera gialla e nera ai grossi piedi.

Ed sembrava enorme con un dolcevita nero, pantaloni eleganti beige e scarpe in pelle nera. Aveva un orologio d’oro della Rolex al polso. Aveva capelli e barba nero corvino, tagliati cortissimi, e in maniera meticolosa, come siepi curate da un maestro giardiniere.

Swann era ai sistemi informatici – uno dei migliori hacker con cui Luke avesse mai lavorato. Ed era alla armi e tattica – era venuto alla Delta Force dopo Luke. Era assolutamente devastante nell’uso della forza. Aveva un bicchiere di vino – sembrava minuscolo nella sua mano gigantesca. Swann teneva una lattina nera di birra con il logo di un pirata in una mano, un piatto con molti e grossi sandwich nell’altra.

“Ragazzi, conoscete entrambi Susan Hopkins, vero?” disse Luke.

Ed e Swann le strinsero la mano a turno.

“Signora presidente,” disse Ed. La squadrò da capo a piedi e sorrise. “Che piacere rivederla.”

Luke quasi rise davanti a Ed che faceva gli occhi da lupo alla presidente. Scompigliò i capelli a Gunner. Fu leggermente imbarazzante, perché Gunner era un pochino troppo alto per farsi scompigliare i capelli.

“Signora presidente, questo è mio figlio, Gunner.”

Lei gli strinse la mano ed esibì la sua simpatica faccia da Sono la presidente e sto incontrando un bambino a caso. “Gunner, è un vero piacere conoscerti. Ti diverti alla festa?”

“È ok,” disse lui. Arrossì tantissimo e non incrociò il suo sguardo. Era ancora un bambino timido, per certi versi.

“Le tue ragazze sono qui?” disse Luke a Ed, cambiando argomento.

Ed fece spallucce e sorrise. “Oh, stanno correndo da qualche parte.”

A margine del gruppo apparve una donna. Era alta, bionda e impressionante. Indossava un tailleur rosso e i tacchi alti. Ancor più impressionante dell’aspetto fu il fatto che andò dritta da Luke, ignorando la presidente degli Stati Uniti.

Allungò verso Luke uno smartphone come fosse stato un microfono.

“Agente Stone, sono Tera Wright, della WFNK, il notiziario radio numero uno di Washington DC.”

Luke quasi rise alla presentazione. “Salve, Tera,” disse. Si aspettava che gli chiedesse della riapertura degli uffici dello Special Response Team, e del mandato che avrebbe avuto l’SRT nella lotta al terrorismo nel paese e all’estero. Bello. Una cosa di cui non gli sarebbe dispiaciuto parlare.

“Come posso aiutarla?”

“Be’,” cominciò Tera, “vedo che la presidente è qui per la grande riapertura della sua agenzia.”

Luke annuì. “Certo che c’è. Penso che la presidente sappia quant’è impor…”

La donna lo interruppe. “Può rispondere a una domanda per me, per favore?”

“Certamente.”

“Le voci sono vere?”

“Uh, non so di nessu…”

“Da un paio di settimane girano delle voci,” lo informò Tera Wright.

“Voci su cosa?” disse Luke. Guardò il gruppo, come un uomo che affoga e spera che gli venga lanciata una corda.

Tera Wright sollevò una mano come a dire STOP. “Cambiamo sistema,” disse. “Quale direbbe essere la natura della sua relazione con la presidente Hopkins?”

Luke guardò Susan. Susan era una del mestiere, nella questione. Non arrossì. Non parve colpevole. Si limitò a sollevare un sopracciglio e a fissare interrogativamente la nuca della reporter, come se non avesse idea di che cosa stesse dicendo.

Luke prese fiato. “Be’, direi che la presidente Hopkins è il mio capo.”

“Nient’altro?” disse la reporter.

“Come per lei,” disse Luke. “È anche la mia comandante in capo.”

Diede un’altra occhiata a Susan, pensando che adesso sarebbe saltata su per reindirizzare la conversazione. Ma adesso c’era il capo di gabinetto di Susan, la carina Kat Lopez, in un attillato gessato azzurro. Kat era ancora snella, anche se il volto non era neanche lontanamente giovanile come quando aveva accettato quel lavoro. Tre anni di stress costante e caos totale avrebbero fatto male a chiunque.

Parlava a bassa voce, praticamente sussurrava, direttamente nell’orecchio di Susan.

Il viso di Susan si oscurò mentre ascoltava, poi annuì. Di qualsiasi cosa si trattasse, era brutta.

Alzò lo sguardo.

“Signori,” disse. “Spero che mi scuserete.”

CAPITOLO CINQUE

18:15 ora della costa orientale

Sala operativa

Casa bianca, Washington DC

“Amy,” disse Kurt, “per favore, dacci Libano e Israele. Concentrati sulla Linea Blu.”

Sull’eccessivo schermo alle sue spalle, apparve una mappa. Un secondo dopo, comparve anche sugli schermi più piccoli incassati alle pareti. La mappa mostrava due territori tagliati da una spessa e ondulata linea blu. Alla sinistra del terreno c’era una zona azzurro pallido, a denotare il mar Mediterraneo.

Susan conosceva l’area abbastanza bene da poter saltare tranquillamente la lezione di geografia. Inoltre, era frustrata – era tornata alla Casa Bianca già da un’ora. Ci era voluto tutto quel tempo per mettere insieme la riunione.

“Passerò rapidamente in rassegna i preliminari, se non dispiace a nessuno,” disse Kurt. “Immagino che in questa stanza siate tutti abbastanza aggiornati sugli eventi correnti da sapere che quasi due ore fa c’è stata una schermaglia sul confine tra il Libano e Israele.

“La Linea Blu, che vedete qui, è il confine negoziato, dietro al quale Israele ha accettato di ritirare le truppe dopo la guerra del 1982 e l’occupazione. Un numero ignoto di commando di Hezbollah ha compiuto un’incursione e ha attaccato una pattuglia israeliana sulla strada che segue la Linea Blu per gran parte della lunghezza. Sulla pattuglia c’erano otto soldati delle forze di difesa israeliane, e sappiamo che sono rimasti uccisi tutti eccetto uno.”

Sugli schermi apparve una fotografia formale di una giovane donna dai capelli scuri. Sembrava una foto presa dall’annuario delle superiori, o prima di una qualche cerimonia. La ragazza sorrideva radiosa. Anzi, di più – era decisamente raggiante.

“Daria Shalit,” disse Kurt. “Diciannove anni, appena all’inizio del secondo anno del servizio obbligatorio di due anni nelle IDF.”

 

“Carina,” disse qualcuno nella stanza.

Kurt non rispose. Gli sfuggì un lungo sospiro.

“Credetemi, si fanno un gran sbattere i pugni sul tavolo ed esami di coscienza nei circoli decisionali israeliani. Le donne partecipano alle pattuglie al confine da mesi. Ora pare chiaro che qui si è trattato di un rapimento programmato della Shalit, o di qualsiasi giovane donna presente nella pattuglia, come obiettivo previsto. Una forza d’assalto ha seguito i rapitori oltre il confine, ma nel giro di due chilometri è andata incontro a una furiosa resistenza. Sono stati uccisi altri quattro israeliani, insieme a venti militanti di Hezbollah, secondo le stime.”

“Elena di Troia,” disse un uomo in abito militare verde.

Kurt annuì. “Esatto. L’effetto sulla società israeliana è stato viscerale. È stato un pugno nello stomaco, e probabilmente quello era l’intento. Le informazioni in nostro possesso indicano che Hezbollah stia deliberatamente cercando di far scoppiare una guerra, simile a quella avvenuta nel 2006. Purtroppo sospettiamo che stiano conducendo Israele a una trappola.”

“Hezbollah è tosta,” disse il militare. “Sono difficili da sradicare.”

“Amy,” disse Kurt. “Dammi Hezbollah, per favore.”

Sullo schermo comparve l’immagine di un gruppo di uomini in marcia con striscioni, i pugni in aria. Kurt indicò gli uomini con un puntatore laser.

“Hezbollah – il Partito di Dio, o Esercito di Dio, a seconda della traduzione che si preferisce – probabilmente è l’organizzazione terroristica più grande e più militarmente capace del mondo. Sono stati creati, e addestrati, finanziati e schierati, in nome e per conto del governo iraniano, con operazioni che attraversano l’Europa, l’Africa, l’Asia e le Americhe.

“Nel terrorismo, Hezbollah è ampliamente formidabile. Godono di credibilità a livello mondiale presso i musulmani sciiti, di sofisticatezza nelle operazioni e di un’abilità organizzativa che l’ISIS può solo sognare presso i sunniti. Le aree del Libano dove è di base Hezbollah spesso agiscono de facto da governo locale, con la piena cooperazione della popolazione. Gestiscono scuole, il cibo, lo svago e i programmi di lavoro, e inviano una manciata di rappresentanti eletti al parlamento libanese. L’ala militare è molto più efficiente e potente dell’esercito libanese. Viste le differenze religiose tra musulmani sciiti e sunniti, Hezbollah e l’ISIS sono nemici, e hanno giurato di distruggersi a vicenda.”

“E che c’è di così tremendo nella cosa?” disse Susan, scherzando solo in parte. “Il nemico del mio nemico è mio amico, no?”

Kurt quasi sorrise. “Attenzione. La politica di Hezbollah verso il nostro vicino alleato Israele è di aperta guerra santa. Stando a Hezbollah, Israele è una minaccia esistenziale, che opprime la società libanese, opprime i palestinesi, e che deve essere distrutta a tutti i costi.”

“Hanno modo di farlo?” disse Susan.

Kurt scrollò le spalle.

“Potrebbero arrecare dei danni, di estensione a noi ignota. Stime attuali indicano che Hezbollah abbia tra i venticinquemila e i trentamila combattenti. Forse tra i diecimila e i quindicimila con esperienza di combattimento, o nella guerra del 2006 o avendo combattuto più di recente direttamente contro all’ISIS nella guerra civile siriana. Crediamo che almeno ventimila truppe abbiano ricevuto addestramento dai Guardiani della rivoluzione iraniani – cinquemila o più sono state in Iran per ricevere un addestramento esteso.

“Hezbollah ha una rete di profondi tunnel e fortificazioni nella regione collinare appena a nord della Linea Blu, che durante la guerra del 2006 con Israele si è dimostrata impossibile da eliminare completamente via aria. Le stime dell’intelligence israeliana indicano che questi forti dal 2006 si sono fatti più profondi, più temprati e più sofisticati. La nostra intelligence indica che Hezbollah ha più di sessantacinquemila razzi e missili, in più milioni di proiettili per armi piccole. L’arsenale che hanno probabilmente è cinque volte più grande di quello che avevano nel 2006. In tutta la storia di Hezbollah, l’Iran si è dimostrato riluttante a rifornirli di altro che missili e razzi lenti e a corto raggio, e sospettiamo che le cose stiano ancora così.”

“Israele cosa fa?” disse l’uomo in uniforme.

Kurt annuì. Sullo schermo dietro di lui riapparve la Linea Blu. Lungo tutto il lato meridionale, apparvero piccole icone di soldati.

“Adesso arriviamo al punto. Gli israeliani hanno ammassato una grossa forza di incursione al confine, con altre unità ad aggiungervisi continuamente. Il segretario di Stato ha parlato al telefono con Yonatan Stern, il primo ministro israeliano. Yonatan è un integralista, popolare nella destra della società israeliana. Per mantenere questa popolarità con la base, qui dovrà agire. Gli serve una vittoria decisiva, un ritorno della soldata dispersa – qualcosa. A quel che capiamo noi, entro le prossime ore ha in progetto di inviare un’incursione israeliana oltre il confine, fondamentalmente invadendo il Libano.”

“In un certo senso, si potrebbe dire che Israele è stato già invaso dal Libano,” disse il militare.

Kurt annuì. “Si potrebbe dire così. Insieme all’invasione, Stern ha in progetto di condurre una campagna di bombardamenti. Abbiamo presentato richiesta che la campagna sia limitata alla durata di dodici ore, che sia ideata per evitare vittime civili e che il suo solo obiettivo consista nelle risorse militari note di Hezbollah.”

“E Yonatan cos’ha risposto?” disse Susan. Yonatan Stern non era la persona che preferiva al mondo. Si poteva anche dire che non andavano d’accordo.

“Ha risposto che l’avrebbe preso in considerazione.”

Susan scosse la testa. “Yonatan è un altro dei vostri. Non ha mai visto guerra o sistema d’arma che non gli siano piaciuti.”

Fece una pausa. Sembrava un’altra schermaglia di bassa lega tra Israele ed Hezbollah, proprio come tutte le schermaglie tra Israele e Hamas, e prima ancora le schermaglie tra Israele e l’OLP. Brutte, sanguinarie, rozze, e alla fine inconclusive. Solo un altro giro di prove per il prossimo giro di prove.

“Allora qual è la nostra conclusione qui, Kurt? Quali sono i pericoli, e tu cosa ci suggerisci di fare?”

Kurt sospirò. La testa perfettamente calva rifletteva le luci incassate nel soffitto. “Come sempre, il pericolo è che il combattimento vada fuori controllo e diventi un legame per, o causi, un altro combattimento nella regione. Hezbollah e i palestinesi sono alleati. Spesso Hamas usa queste guerre con Hezbollah come copertura per lanciare propri attacchi di guerriglieri all’interno di Israele. La Siria è nel caos, con numerosi piccoli, ma pesantemente armati, gruppi che cercano di sfruttare l’instabilità.

“Intanto grosse maggioranze in Giordania, Egitto, Turchia e Arabia Saudita si identificano come anti-israeliane. E c’è sempre l’Iran, il più grosso e cattivo del circondario, a incombere sullo sfondo a braccia conserte, con il grande orso russo a incombere dietro tutti. Tutti i coinvolti sono armati fino ai denti.”

“E i nostri prossimi passi?”

Kurt scosse la testa e scrollò le grosse spalle. “I nostri prossimi passi sono sul filo del rasoio. L’intera regione è campo minato, e dobbiamo fare attenzione a dove mettiamo i piedi. Israele è uno dei nostri alleati più vicini e un partner strategico importante. Sono l’unica vera democrazia funzionante di tutta la regione. Nello stesso tempo, il Libano è nostro alleato e partner da molto tempo. La Giordania e la Turchia sono nostri alleati. Acquistiamo buona parte dei rifornimenti energetici esteri dall’Arabia Saudita. Abbiamo anche un impegno come mediatori di pace tra i palestinesi e Israele, e nel progetto di creazione di uno stato sovrano in Palestina.”

Annuì, come a se stesso. “Direi che il nostro lavoro è non infiammare ulteriormente le tensioni, e sperare che questa piccola vampata si riveli un fuoco di paglia – o, ancora meglio, un fuocherello.”

Susan quasi rise. “In altre parole, ce ne restiamo con le mani in mano.”

Adesso Kurt sorrise. “Direi che dovremmo starcene con le mani in mano. Però adesso abbiamo le mani legate dietro la schiena.”