Il ritorno di Zero

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CAPITOLO UNO

Zero si sedette sul bordo del letto matrimoniale e si strinse nervosamente le mani in grembo. Ci aveva già pensato molte volte, l'aveva provato mille volte nella sua mente. Eppure, era ancora lì.

Le sue due figlie adolescenti erano sedute sul letto vicino al suo. Erano in una stanza del Plaza, un hotel di lusso appena fuori Washington. Avevano deciso di dormire lì invece di tornare a casa a seguito dell'attentato alla vita del presidente Pierson.

“Vi devo dire una cosa”.

Maya aveva quasi diciassette anni. Aveva i capelli castani e i lineamenti del viso di suo padre, lo spirito acuto e il sarcasmo pungente di sua madre. Lo guardò passivamente, con un'ombra di preoccupazione.

“Non è facile da dire. Ma avete il diritto di saperlo”.

Sara aveva quattordici anni e viveva i conflitti dell'età in cui ci si avvicina alla pubertà. Aveva ereditato i capelli biondi di Kate e il suo viso espressivo. Assomigliava sempre di più a sua madre ogni giorno che passava, e al momento sembrava nervosa.

“Riguarda vostra madre”.

Entrambe ne avevano passate molte, erano state rapite e avevano assistito a omicidi e più volte era stata loro puntata la canna di una pistola in fronte. Nonostante tutto, erano sempre state forti. Meritavano di saperlo.

Perciò lo disse loro.

L'aveva provato tante volte nella sua mente, ma per lui era ancora difficile trovare le parole. Arrivavano lentamente, come tronchi alla deriva sul letto di un fiume. Pensava che una volta iniziato sarebbe stato più facile, ma non era affatto così.

Lì nell'hotel Plaza, mentre Alan andava a prendere le pizze e a pochi passi da loro una TV trasmetteva una sitcom, Zero disse alle sue figlie che la loro madre, Kate Lawson, non era morta per un ictus ischemico come tutti pensavano.

Era stata avvelenata.

La CIA l'aveva uccisa.

Per colpa sua. Dell'agente Zero. Per le sue azioni.

E la persona che l'aveva uccisa...

“Non sapeva nulla”, disse Zero alle sue figlie. Fissò il copriletto, il tappeto, qualsiasi cosa che non fossero i loro occhi. “Non sapeva chi fosse. Gli avevano mentito. Non lo seppe fino a più tardi. Fino a quando non ebbe compiuto il fatto”. Stava farfugliando. Stava accampando scuse per l'uomo che aveva ucciso sua moglie, la madre delle sue figlie. L'uomo che Zero aveva lasciato fuggire invece che ucciderlo.

“Chi?” La voce di Maya si fece roca, come un sussurro aspro, era più un suono che una parola.

L'agente John Watson. L'uomo che aveva salvato la vita delle sue figlie più di una volta. Un uomo che avevano conosciuto, a cui volevano bene di cui potevano fidarsi.

Il silenzio negli istanti successivi fu terribile, e a Zero sembrò una mano invisibile che gli stringeva il cuore. L'unità di aria condizionata della camera d'albergo si animò all'improvviso, forte come un motore a reazione nel vuoto.

“Da quanto tempo lo sai?” Il tono di Maya era diretto, intransigente.

Sii sincero. Questa era la posizione che voleva avere con le sue ragazze. Onestà. Non importa quanto male faccia la verità. Quella confessione era l'ultima barriera tra di loro. Sapeva che era tempo di abbatterla.

Sapeva già che le avrebbe distrutte.

“So da tempo che non è stato un incidente”, disse loro. “Non sapevo chi fosse stato. Ed ora lo so”.

A quel punto osò alzare lo sguardo e guardare i loro volti. Sara piangeva in silenzio, senza emettere alcun suono mentre le lacrime le rigavano le guance. Maya si fissava le mani, senza espressione.

Lui le prese la mano. Era l'unica cosa che aveva senso fare in quel momento. Per avere un contatto.

Ricordava esattamente cosa fosse successo. Mentre le sue dita si chiudevano attorno alle sue, lei si era allontanata con violenza. Si era girata ed era saltata giù dal letto. Sara aveva sussultato, sorpresa, mentre Maya gli diceva che lo odiava. Mentre gli rivolgeva i peggiori insulti. E lui era rimasto seduto, e se li era presi, perché era quello che si meritava.

Questa volta non accadde nulla di tutto ciò. Mentre le sue dita si chiudevano attorno alle sue, la mano di Maya si dissolse nella sua come nebbia.

“No...”

Cercò di raggiungerla, ma lei svanì sotto il suo tocco come una colonna di cenere nella brezza. Si voltò rapidamente e prese Sara, ma lei scosse solo la testa tristemente mentre anche lei si dissolveva davanti ai suoi occhi.

E rimase solo.

*

“Sara!”

Zero si svegliò di soprassalto, gemendo. Aveva un forte mal di testa. Era solo un sogno, un incubo. Un incubo che aveva avuto già mille volte prima.

Era andata sempre all'incirca così.

Zero aveva avuto un incredibile successo. Aveva evitato un tentato omicidio presidenziale. Aveva fermato una guerra prima che scoppiasse. Aveva scoperto una cospirazione. E poi lui e le sue ragazze erano andati al Plaza; nessuno di loro voleva tornare ad Alexandria, in Virginia. Erano successe troppe cose lì. Troppe morti.

Era lì che glielo aveva detto. Meritavano di conoscere la verità.

Ma poi se ne erano andate.

Era stato... quanto tempo prima? Quasi diciotto mesi, se ricordava bene. Un anno e mezzo fa. Tuttavia, quel sogno lo affliggeva quasi tutte le sere. A volte le ragazze evaporavano davanti ai suoi occhi. A volte urlavano contro di lui, maledicendolo con parole molto più dure di quelle che realmente avevano utilizzato. Altre volte se ne erano andate in silenzio, e quando le aveva raggiunte nel corridoio erano già svanite.

Sebbene il finale variasse, le conseguenze nella vita reale erano le stesse. Si svegliò dall'incubo con un forte mal di testa e il cupo, disperato ricordo che se ne erano andate davvero.

Zero si stiracchiò e si alzò dal divano. Non ricordava di essersi addormentato, ma non se ne stupì. Di notte non dormiva bene, e non solo per l'incubo delle sue figlie. Un anno e mezzo fa aveva recuperato i suoi ricordi, i suoi ricordi completi come Agente Zero, e con loro erano arrivati incubi terribili. I ricordi si facevano strada nel suo subconscio mentre dormiva o cercava di farlo. Scene atroci di tortura. Bombe sganciate su edifici. L'impatto dei proiettili su un cranio umano.

La cosa peggiore era che non sapeva se fossero reali o no. Il dottor Guyer, il geniale neurologo svizzero che lo aveva aiutato a recuperare i ricordi, lo aveva avvertito che alcuni ricordi avrebbero potuto non essere reali, ma un prodotto del suo sistema limbico che manifestava fantasie, sospetti e incubi come realtà.

Anche la realtà gli sembrava a tratti immaginazione.

Zero arrancò in cucina per prendere un bicchiere d'acqua, scalzo e intontito, quando suonò il campanello. Sobbalzò al suono, mentre ogni suo muscolo si irrigidì all'istante. Era ancora piuttosto nervoso, anche dopo tanto tempo. Lanciò un'occhiata all'orologio digitale sul fornello. Erano quasi le quattro e mezzo. Poteva essere solo una persona.

Lui aprì la porta e forzò un sorriso per accogliere il suo vecchio amico. “Giusto in tempo”.

Alan Reidigger sorrise sollevando un pacco di sei birre e tenendolo tra il pollice e l'indice. “Per la tua sessione di terapia settimanale”.

Zero sbuffò e si fece da parte. “Dai, ne usciremo insieme”.

Attraversò la casa e uscì su un patio da una porta a vetri. L'aria di metà ottobre non era ancora fredda, ma abbastanza pungente da ricordargli che era scalzo. Si sedettero su un paio di sedie a sdraio mentre Alan apriva due lattine e ne passava una a Zero.

Lui guardò l'etichetta, perplesso. “Che cos'è?”

“Non lo so. Il ragazzo del negozio ha dato un'occhiata alla mia barba e alla camicia di flanella e ha detto che mi sarebbe piaciuta”. Alan ridacchiò, fece scattare la linguetta e bevve un lungo sorso. Si irrigidì, stupito. “È ... diversa. O forse sto solo invecchiando”. Si voltò cupamente verso Zero. “Allora. Come stai?”

Come stai. All'improvviso gli sembrò una domanda così strana. Se qualcuno diverso da Alan lo avesse chiesto, lo avrebbe riconosciuto come una formalità e avrebbe risposto con un semplice e frettoloso “Bene, e tu?” Ma sapeva che Alan voleva davvero sapere come stava.

Ma non sapeva come rispondere. Tutto era cambiato così tanto in diciotto mesi; non solo nella vita personale di Zero, ma anche nel mondo. Gli Stati Uniti avevano evitato una guerra con l'Iran e gli stati vicini, ma le tensioni erano rimaste alte. Apparentemente il governo americano si era ripreso dall'infiltrazione di cospiratori e dall'influenza russa, solamente attraverso i numerosi mandati di arresto. Il presidente Eli Pierson era rimasto in carica per altri sette mesi dopo l'attentato alla sua vita, ma era stato sconfitto alle successive elezioni dal candidato democratico. Fu una vittoria facile dopo che fu rivelato che il gabinetto di Pierson era un vero e proprio nido di serpi.

Ma a Zero non importava molto. Non era più coinvolto in nulla di tutto ciò. Non aveva nemmeno un'opinione sul nuovo presidente. Sapeva a malapena cosa stesse succedendo nel mondo; evitava le notizie ogni volta che era possibile. Adesso era solo un cittadino. Qualunque cosa si stesse svolgendo nell'ombra, se ne sarebbe lavato le mani.

“Sto bene”.

Indugiò.

“Davvero. Sto bene”.

Alan bevve un altro sorso, visibilmente perplesso ma senza ribattere. “E Maria?”

Un lieve sorriso attraversò le labbra di Zero. “Se la sta cavando bene”. Ed era vero. Stava ricoprendo la sua nuova posizione con professionalità. Dopo la scoperta della cospirazione, gli organi interni della CIA erano stati completamente rinnovati; David Barren, membro di alto rango del Consiglio di sicurezza nazionale e padre di Maria, era stato nominato direttore ad interim dell'agenzia e aveva supervisionato personalmente il controllo di ogni singola persona fino a quando non è stato nominato un nuovo direttore, un ex direttore della NSA di nome Edward Shaw.

 

Maria Johansson era stata nominata vicedirettore della divisione Attività speciali, un lavoro precedentemente ricoperto dall'ormai defunto Shawn Cartwright, il vecchio capo di Zero. A sua volta lei aveva nominato Todd Strickland come Responsabile degli Agenti Speciali, una posizione precedentemente ricoperta da Kent Steele.

Ed era molto capace nel suo nuovo incarico. Non ci sarebbe stata corruzione sotto la sua supervisione, non sarebbero stati assunti agenti precedentemente espulsi come Jason Carver, né cospiratori come Ashleigh Riker. Era ovvio, tuttavia, che le mancava il lavoro sul campo; non accadeva spesso, ma a volte accompagnava la sua squadra in qualche operazione.

Zero, d'altra parte, non era tornato al lavoro. Né alla CIA, e nemmeno all'insegnamento. Non era tornato a nulla.

“Come va il negozio?” chiese ad Alan, cercando di cambiare argomento.

“Mi tiene impegnato”, rispose Reidigger con noncuranza. Gestiva il Garage della Terza Strada, che nonostante le esperienze di Alan nello spionaggio e nelle operazioni segrete era, di fatto, un'autofficina. “Non c'è molto da dire. A che punto è il seminterrato?”

Zero alzò gli occhi al cielo. “È un lavoro in corso”. Dopo aver litigato con le sue ragazze, non riusciva a stare da solo nella casa di Alessandria. L'aveva messa sul mercato e aveva accettato la prima offerta che gli era stata fatta. A quel punto lui e Maria avevano reso ufficiale la loro relazione, e anche lei voleva cambiare residenza, quindi avevano comprato una piccola casa nella periferia della città di Langley, non lontano dal quartier generale della CIA. Era un “bungalow per artigiani”, così lo aveva chiamato l'agente immobiliare. Era un posto semplice, adatto ad entrambi. Una delle tante cose che lui e Maria avevano in comune era il desiderio di semplicità. Avrebbero potuto permettersi qualcosa di più grande, più moderno, ma quella piccola casa era perfetta per loro. Era accogliente, calda, aveva una grande vetrata sul retro, un soppalco per la suite padronale e un seminterrato incompiuto, con le pareti e il pavimento ancora in cemento grezzo.

Circa quattro mesi prima, all'inizio dell'estate, Zero aveva avuto l'idea di finire il seminterrato, trasformandolo in spazio abitabile. Da allora aveva solamente passato dell'isolante rosa.

Ultimamente, il solo pensiero di tornare laggiù lo sfiniva.

“Se vuoi che ti venga a dare una mano, chiamami”, disse Alan.

“Va bene”. Alan gli faceva la stessa proposta ogni settimana. “Roma non è stata costruita in un giorno, lo sai”.

“Avrebbe potuto se avessero assunto appaltatori competenti”. Alan gli fece l'occhiolino.

Zero sorrise. La lattina in mano sembrava leggera, troppo leggera. La scosse e si sorprese rendendosi conto che era vuota. Non ricordava nemmeno di aver bevuto un sorso, di averla anche solo assaggiata. Posò la lattina sul patio accanto a lui e ne prese un'altra.

“Attento”, avvertì Reidigger con un sorriso. Indicò l'addome di zero che si stava facendo sempre meno tonico.

“Già”. Aveva guadagnato qualche chilo nel suo semi-pensionamento. Cinque, forse sei. Non ne era sicuro e certamente non sarebbe salito su una bilancia per verificarlo. “Senti chi parla”.

Reidigger rise. Era molto diverso dall'agente dalla faccia tonda che Zero aveva conosciuto quattro anni prima, con il suo aspetto da ragazzo e il torso incredibilmente imponente. Per camuffarsi dopo la sua presunta morte e per assumere le sembianze di un meccanico di nome Mitch, Alan aveva messo su almeno venti chili, si era fatto crescere una folta barba macchiata di grigio e indossava perennemente un cappello da camionista abbassato sulla fronte, macchiato di sudore e di olio per motori.

Il berretto era diventato un accessorio integrante della sua persona, tanto che Zero si chiedeva se lo indossasse a letto.

“Che? Questo?” Reidigger ridacchiò di nuovo e si diede una pacca sullo stomaco. “Questo è tutto muscolo. Sai, vado in palestra due volte a settimana. Hanno un ring. I ragazzi adorano prendersi gioco dei più anziani. Prima che io li metta a terra”. Bevve un sorso e aggiunse: “Dovresti venire qualche volta. Di solito vado …”

“Martedì e giovedì”, Zero lo interruppe. Alan gli faceva anche quella proposta ogni settimana.

Apprezzava lo sforzo. Apprezzava il fatto che Alan passasse così spesso a sedersi nel patio con il suo vecchio amico. Apprezzava le visite e i tentativi di portarlo fuori di casa che diventavano sempre più spensierati ad ogni visita.

La verità era che senza la CIA o l'insegnamento o le sue figlie in giro, non si sentiva sé stesso e aveva portato a una sorta di malattia che si insediava nel suo cervello, un malessere generale che non riusciva a superare.

La porta a vetri scorrevole si aprì all'improvviso, ed entrambi si voltarono mentre Maria li raggiungeva sotto il sole di ottobre. Indossava un elegante blazer bianco con pantaloni neri e una sottile collana d'oro, i capelli biondi le ricadevano sulle spalle e il mascara scuro metteva in risalto i suoi occhi grigi.

Fu strano, ma per un breve istante Zero provò gelosia. Dove lui si era fermato, lei era rifiorita. Ma soppresse questa sensazione nella palude oscura delle sue emozioni e si disse che era contento di vederla.

“Buon pomeriggio, ragazzi”, disse con un sorriso. Sembrava di buon umore; il suo umore all'arrivo a casa dal lavoro tendeva a variare quanto i suoi orari. “Alan, è bello rivederti”. Si chinò per abbracciarlo.

“Sbalordita”, non c'era altra parola per descrivere la reazione di Maria quando Zero le aveva detto che Alan non solo era ancora vivo, ma che viveva nascosto in un garage a meno di trenta minuti di Langley. Ma aveva accolto subito la notizia con piacere. Dargli un pugno alla spalla e rimproverarlo con un “avresti dovuto dircelo!” sembrava essere stato sufficiente a riportarla alla realtà.

“Ciao, Kent”. Lo baciò prima di prendere una delle sei birre di Alan e unirsi a loro. “Tutto bene?”

“Sì”. Lui annuì. “Tutto bene”. Non voleva aggiungere nulla, perché tutto quello che avrebbe potuto raccontarle era che aveva trascorso la giornata a guardare vecchi film, a fare un sonnellino e a pensare vagamente di tornare a lavorare al seminterrato incompiuto. “E tu?”

Lei alzò le spalle. “Tutto abbastanza bene”. Tendeva a non parlare troppo del lavoro con lui, non solo per ragioni di sicurezza, ma anche per la paura inespressa (almeno così Zero supponeva) di poter risvegliare in lui ricordi o di invogliarlo a rimettersi in gioco. Sembrava che a lei piacesse la sua situazione. Sebbene quelli fossero tutt'altro che sospetti.

“Kent”, disse, “non dimenticare che abbiamo programmi per la cena”.

Lui sorrise. “Certamente”. Non si era dimenticato dell'ospite di quella sera. Ma stava cercando con tutte le sue forze di non pensarci.

Kent.

Era l'unica a chiamarlo ancora in quel modo.

Agente Kent Steele era il suo pseudonimo nella CIA, ma ora non era altro che un ricordo. Zero era il segnale per chiamarlo, era stato inventato per gioco da Alan Reidigger, che lo chiamava ancora Zero. E da quando aveva recuperato i suoi ricordi, quello era il nome che sentiva più suo. Ma ormai non era più né Kent né Zero. Non era più nemmeno il professor Lawson. Al diavolo, si sentiva a malapena sé stesso, il suo vero io, Reid Lawson, padre di due figlie e professore di storia e agente segreto della CIA. Anche se erano passati diciotto mesi, ricordava ancora amaramente gli oscuri cospiratori che trascinarono il suo nome nel fango, rilasciando la sua immagine ai media, chiamandolo terrorista e tentando di incolparlo del tentato assassinio. Ovviamente, era stato completamente scagionato da quelle accuse, e non aveva idea se qualcuno lo ricordasse. Ma lui sì. E ora quel nome gli sembrava quello di uno sconosciuto. Evitava di riferirsi a sé stesso o di farsi riconoscere come Reid Lawson ogni volta che era possibile, la casa, le bollette e persino le macchine erano tutte a nome di Maria. Non arrivava alcuna lettera con il suo nome sopra. Nessuno aveva mai chiamato per chiedere di Reid.

O di Kent.

O di Zero.

O di papà.

Quindi chi diavolo sono io?

Non lo sapeva. Ma sapeva che avrebbe dovuto scoprirlo da solo, perché la vita che stava conducendo non era una vita degna di essere vissuta.

CAPITOLO DUE

Zero era contento di non doverne parlare. Ma Alan sapeva che non era il caso di chiedere delle ragazze.

Reidigger rimase lì per circa quarantacinque minuti prima di alzarsi dalla sedia a sdraio, allungarsi e nel suo solito modo, annunciare che avrebbe dovuto “tornare sulla sua vecchia pista”. Zero gli diede un breve abbraccio e fece un cenno con la mano mentre usciva con il suo camioncino dal vialetto, ringraziandolo silenziosamente per non aver chiesto delle sue figlie, perché la verità era che se Alan avesse chiesto come stavano, Zero non avrebbe potuto rispondere.

Trovò Maria in cucina, con indosso un grembiule sopra i suoi abiti da lavoro mentre tagliava una cipolla. “È stata piacevole la visita?”

“Sì”.

Silenzio. Solo il suono ritmato del coltello contro il tagliere.

“Sei pronto per stasera?” chiese dopo un lungo momento.

Lui annuì. “Sì. Certamente”. Ma non lo era. “Che cosa stai facendo?”

“Un pasticcio”. Versò il contenuto del tagliere in una grande pentola sul fornello che conteneva già kielbasa, cavolo e altre verdure. “È una ricetta polacca”.

Zero si accigliò. “Un pasticcio. Da quando sai cucinare il pasticcio?”

“Ho imparato da mia nonna”. Fece lei con un sorrisetto. “Ci sono ancora molte cose che non sai di me, signor Steele”.

“Evidentemente”. Esitò, chiedendosi come affrontare meglio l'argomento, e poi decise che la cosa migliore era farlo in modo diretto. "Uhm... ehi... Stasera, pensi che potresti provare a non chiamarmi Kent?”

Maria si fermò tenendo il coltello sospeso su un fungo secco. Si accigliò, ma annuì. “Ok. Come vuoi che ti chiami? Reid?”

“Io...” Stava per rispondere di sì, ma poi si rese conto che nemmeno quell'opzione gli piaceva. “Non lo so”. Forse, pensò, avrebbe dovuto evitare di chiamarlo.

“Uhm”. Dalla sua espressione era evidente che era preoccupata, voleva a tutti i costi sapere cosa succedesse nella sua testa, ma non era il momento giusto per indagare ulteriormente. “Che ne dici se ti chiamo 'biscottino'?”

“Molto divertente”. Ma non poté fare a meno di sorridere.

“O 'pasticcino'?”

“Vado a cambiarmi”. Uscì dalla cucina mentre Maria lo chiamava, ridendo tra sé e sé.

“Aspetta, ci sono. Ti chiamerò tesoro”.

“Ti sto ignorando”, rispose lui. Apprezzò quello che stava cercando di fare, ovvero tentare di sdrammatizzare la situazione scherzando. Ma quando raggiunse la cima della breve scala che conduceva al soppalco, si sentì nuovamente in presa all'ansia. Era stato contento della visita di Alan perché gli aveva permesso di non pensarci per un po'. Era stato contento che Alan non avesse chiesto delle ragazze perché significava che non avrebbe dovuto affrontare nuovamente i suoi ricordi. Ma non c'era modo di evitarlo ora.

Maya veniva a cena da loro.

Zero ispezionò i suoi jeans, si assicurò che fossero privi di buchi o macchie di caffè e si tolse la maglietta per indossare una camicia a strisce.

Sei un bugiardo.

Si passò un pettine tra i capelli. Stavano diventando troppo lunghi. Stavano diventando grigi, specialmente sulle tempie.

La mamma è morta per colpa tua.

Si girò di lato e si ispezionò allo specchio, spostando all’indietro le spalle e cercando di tirare indietro la pancia.

Ti odio.

L'ultimo scambio significativo che aveva avuto con la figlia maggiore era al vetriolo. Nella stanza d'albergo al Plaza quando aveva detto loro la verità sulla madre, Maya si era alzata dal letto. Aveva iniziato piano, ma la sua voce era diventata sempre più acuta. Il suo viso era diventato sempre più rosso mentre imprecava contro di lui. Gli aveva rivolto tutti gli insulti che meritava. Dicendogli esattamente cosa pensava di lui, della sua vita e delle sue bugie.

 

Dopo di che, nulla era più stato lo stesso. La loro relazione era cambiata all'istante, drammaticamente, ma quella non era la parte più dolorosa. Almeno era ancora lì fisicamente, al momento. Le conseguenze a lungo termine furono ancora peggiori. Dopo la confessione in hotel, dopo che furono tornati a casa nella loro casa di Alessandria, Maya era tornata a scuola. Stava finendo il liceo; aveva perso due mesi di lavoro, ma si era messa al lavoro per recuperare con una determinazione che Zero non aveva mai visto prima in lei.

Poi venne l'estate, e lei continuava a studiare nella sua stanza. Non ci volle molto per capire cosa stesse succedendo. Maya era estremamente intelligente, troppo intelligente, diceva spesso. Ma in questo caso, era troppo intelligente per il suo bene.

Maya aveva studiato e lavorato sodo e, grazie a una clausola poco conosciuta nel regolamento scolastico, era riuscita ad anticipare il suo esame sostenendo ogni prova. Si è diplomata al liceo prima della fine dell'estate, anche se non c'erano state cerimonie. Nessuna foto accanto a suo padre e sua sorella. Un giorno per posta arrivarono una lettera e un diploma e Zero si rese immediatamente conto di cosa stava cercando di fare.

E poi, solo in quel momento, se n'era andata.

Sospirò. Era successo più di un anno fa. L'aveva vista l'ultima volta l'estate scorsa, intorno a luglio o agosto, non molto tempo dopo il suo quarantesimo compleanno. Da quel momento, era tornata di rado a New York. In quell'occasione era tornata per prendere alcune delle sue cose e aveva accettato con esitazione di pranzare con lui. Era stata una situazione imbarazzante e tesa. Lui le aveva fatto domande, incoraggiandola a raccontargli della sua vita, e lei gli aveva dato risposte concise evitando il contatto visivo.

E ora stava venendo a cena.

"Ehi". Non aveva sentito Maria entrare nella camera da letto del soppalco, ma sentì le sue braccia intorno alla sua vita e la sua testa appoggiata alla sua schiena. “È normale che tu sia nervoso”.

“Non sono nervoso”. In realtà, era molto nervoso. “Sarà bello rivederla”.

Certamente. Se ne era occupata Maria. Era stata lei a contattare Maya, per invitarla a cena quando sarebbe tornata in città. L'invito era stato posto due mesi prima. Maya sarebbe tornata in Virginia quel fine settimana per vedere alcuni vecchi compagni di scuola e con riluttanza aveva accettato di venire. Solo per cena. Non sarebbe rimasta. Lo aveva specificato.

“Ehi”, disse Maria dolcemente alle sue spalle. “So che non è il momento giusto per parlarne, ma...”

Zero fece una smorfia. Sapeva cosa avrebbe detto e desiderava che non lo facesse.

“Sono in ovulazione”.

Non rispose per un lungo momento, abbastanza a lungo per rendersi conto che il silenzio stava diventando imbarazzante.

Quando si erano trasferiti per la prima volta insieme, si erano trovati d'accordo sul fatto che nessuno dei due era incredibilmente interessato al matrimonio. I bambini non erano nemmeno nell'anticamera del cervello. Ma Maria aveva solo due anni meno di lui; si stava avvicinando rapidamente ai quaranta. Il suo orologio biologico non poteva essere fermato. All'inizio inseriva dei rapidi accenni nelle conversazioni, ma poi interruppe l'assunzione dell'anticoncezionale. Iniziò a tenere traccia del suo ciclo.

In realtà non si erano mai seduti a discuterne. Era come se Maria avesse semplicemente supposto che, avendolo già fatto due volte, gli sarebbe piaciuto essere di nuovo padre. Sebbene non l'avesse mai detto ad alta voce, sospettava che fosse per questo che non aveva voluto che tornasse all’agenzia o a insegnare. Le piaceva dov'era perché significava che ci sarebbe stato qualcuno che potesse prendersi cura del bambino.

Come è possibile, si chiese amaramente, che la mia vita di civile disoccupato è più complicata della vita di agente segreto?

Aveva aspettato troppo a lungo per rispondere, e quando alla fine lo fece sembrò forzato. “Penso”, disse alla fine, “che dovremmo aspettare per ora”.

Sentì le sue braccia staccarsi dalla sua vita e frettolosamente aggiunse: “Solo prima di questa visita. Poi ne parleremo e decideremo...”

“Aspettare ancora”. Quando si girò verso di lei, fissava il tappeto con malcelata delusione.

“Non ho detto questo”.

Eppure, era quello che intendeva.

“Penso solo che sia necessario avere una discussione in merito”, disse.

Poi dovrò essere abbastanza forte da ammettere che non voglio un figlio.

“Dovremmo almeno occuparci prima della nostra attuale situazione”.

Come il fatto che le due figlie che ho già cresciuto mi odiano.

“Sì”, concordò Maria piano. “Hai ragione. Aspetteremo ancora”. Si voltò e uscì dalla camera da letto.

“Maria, aspetta...”

“Devo finire la cena”. Sentì i suoi passi sulle scale e si maledisse sottovoce per aver gestito così male la situazione. Ultimamente era praticamente alla pari del corso della sua vita.

Poi il campanello squillò. Il suono lo fece sobbalzare.

Udì la porta d'ingresso aprirsi. La voce allegra di Maria: “Ciao! È così bello rivederti! Entra, entra”.

Era lì. All'improvviso i piedi di Zero sembrarono diventare di piombo. Non voleva andare di sotto. Non voleva affrontare tutto questo.

“E tu devi essere Greg...” Disse Maria.

Greg? Chi diavolo è Greg? All'improvviso trovò la forza di volontà per muoversi. Una scala alla volta, si fece strada lentamente. Erano passati solo pochi mesi dall'ultima volta che l'aveva vista, ma rivederla gli tolse il respiro.

Maya ora aveva diciotto anni, non era più una bambina, e stava crescendo più rapidamente di quanto non avrebbe mai voluto ammettere. Quando si erano incontrati a pranzo l'estate scorsa, i suoi capelli erano ancora lunghi e arricciati nell'acconciatura a ciambella richiesta dai militari, ma da allora li aveva tagliati più corti e ora mettevano in risalto il suo viso magro. Sembrava più forte e stava sviluppando i muscoli delle braccia.

Sembrava più simile a lui ogni giorno, mentre lui sembrava e si sentiva meno sé stesso ogni giorno che passava.

Maya lo guardò scendere le scale. “Ciao”. Era un saluto passivo, piatto, senza gioia. Neutro. Come un saluto che si rivolge a uno sconosciuto.

“Ciao, Maya”. Si avvicinò per abbracciarla e un'ombra di apprensione le oscurò il viso. La abbracciò, mettendole una mano sulla spalla e con l'altra dandole una pacca sulla schiena. “Sei in forma”.

“Sì”. Si schiarì la voce e fece un cenno verso il ragazzo che era con lei. “Lui è Greg".

Il ragazzo, se così si poteva chiamare, si fece avanti e gli porse con entusiasmo la mano. “Sig. Lawson, piacere di conoscerla, signore”. Era alto, aveva capelli biondi corti, dei denti perfetti e delle braccia abbronzate strette nelle maniche di una polo.

Sembrava il quarterback della squadra di rugby delle superiori.

“Uhm, piacere di conoscerti, Greg”. Zero strinse la mano al ragazzo. Greg aveva una presa salda, più del necessario.

A Zero non piacque fin da subito. “Tu sei, ehm, un compagno di scuola di Maya”

“E’ Il mio fidanzato”, disse Maya senza batter ciglio.

Lui? A Zero piaceva sempre meno. Il suo sorriso, i suoi denti. Si ritrovò sopraffatto dalla gelosia. Quell'idiota sorridente era così vicino a sua figlia. Più vicino di quanto non fosse permesso a lui.

“Perché stiamo tutti qui in piedi? Venite, dai”. Maria chiuse la porta e li accompagnò in soggiorno. “Accomodatevi”. La cena non è ancora pronta. “Posso offrirvi qualcosa da bere?"

Risposero, ma Zero non se ne accorse quasi. Era troppo impegnato a esaminare quell'estraneo in casa sua, e non parlava di Greg. Maya stava diventando una giovane donna, aveva un nuovo taglio di capelli, i vestiti stirati, il fidanzato stava delineando la sua formazione e la sua carriera... ma lui non poteva essere partecipe a nulla di tutto ciò.

Nonostante tutto quello che era successo, Maya non aveva abbandonato l'idea che aveva avuto quasi due anni prima. Voleva essere un agente della CIA, ma voleva diventare anche l'agente più giovane della storia della CIA. Ma non aveva nulla a che fare con il seguire le orme di suo padre ormai. Aveva vissuto esperienze strazianti per conto suo, tra le quali la principale era stata venire rapita da un assassino psicopatico e consegnata a un trafficante di esseri umani, e voleva essere tra le persone che avrebbero impedito che cose del genere accadessero ad altre giovani donne.