La caccia di Zero

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CAPITOLO DUE

Reid Lawson salì in fretta le scale della sua casa ad Alexandria, in Virginia. Si sentiva rigido, con le gambe ancora insensibili per lo shock di qualche minuto prima, ma il suo volto era una maschera di cupa determinazione. Fece i gradini due alla volta fino al primo piano, anche se temeva quello che vi avrebbe trovato, o più precisamente, quello che non vi avrebbe trovato.

Al piano di sotto e nel cortile c’era una grande attività. Nella strada di fronte alla casa c’erano non meno di quattro auto della polizia, due ambulanze e un camion dei pompieri, come da protocollo nelle situazioni come quella. Agenti in uniforme stavano tendendo il nastro giallo a X davanti alla porta. La scientifica stava raccogliendo campioni del sangue di Thompson nell’ingresso e i follicoli dei capelli delle sue figlie dai cuscini.

Reid quasi non si ricordava di aver chiamato le autorità. A malapena era riuscito a rilasciare una dichiarazione alla polizia, una serie di frasi balbettate e confuse inframezzate da singhiozzi e respiri mozzati, con la mente affollata di orrende possibilità.

Era andato via per il weekend con un’amica. Il vicino avrebbe dovuto tenere d’occhio le sue figlie.

Il vicino ora era morto. Le ragazze erano sparite.

Non appena fu in cima alle scale e lontano da occhi indiscreti fece una telefonata.

“Avresti dovuto chiamare noi per primi,” disse Cartwright a mo’ di saluto. Il vice direttore Shawn Cartwright era il capo della Divisione Attività Speciali e, in via ufficiosa, il capo di Reid alla CIA.

L’hanno già saputo. “Come fai a saperlo?”

“Sei controllato,” rispose l’altro uomo. “Lo siamo tutti. Ogni volta che appaiono i nostri dati nel sistema, che sia il nome, l’indirizzo, il codice fiscale, qualsiasi cosa, la chiamata viene subito mandata all’NSA. Diavolo, se prendi una multa per eccesso di velocità l’agenzia lo sa prima ancora che l’agente ti lasci andare via.”

“Devo trovarle.” Ogni secondo che passava non faceva che pensare che non avrebbe mai più rivisto le sue figlie se non avesse iniziato a cercarle subito, in quell’istante. “Ho visto il corpo di Thompson. È morto da almeno ventiquattro ore, che gli dà un vantaggio enorme su di noi. Mi serve dell’equipaggiamento, e devo muovermi adesso.”

Due anni prima, quando sua moglie, Kate, era morta all’improvviso per un ictus ischemico, si era sentito completamente stordito. Un senso di intorpidimento era sceso su di lui. Niente gli era più sembrato reale, come se da un momento all’altro si sarebbe potuto svegliare da quell’incubo per scoprire che era successo solo nella sua testa.

Non le era stato vicino. Era andato a una conferenza di storia antica dell’Europa… no, non era vero. Quella era la sua storia di copertura. In realtà era stato impegnato in una missione della CIA in Bangladesh, per dare la caccia a una fazione terrorista.

Non era stato vicino a Kate allora e adesso non c’era stato per le sue figlie.

Ma era sicuro come l’inferno che le avrebbe ritrovate.

“Ti aiuteremo, Zero,” gli garantì Cartwright. “Sei uno di noi e ci prendiamo cura dei nostri. Stiamo mandando dei tecnici a casa tua per aiutare la polizia nelle indagini. Si fingeranno personale della Homeland Security. La nostra scientifica è più veloce; dovremmo avere una pista sul colpevole entro…”

“So già chi è stato,” lo interruppe Reid. “È stato lui.” Non aveva alcun dubbio su chi fosse stato, chi avesse rapito le sue figlie. “Rais.” Anche solo pronunciare quel nome ad alta voce rinnovò la sua rabbia, che gli si accese nel petto per irradiarsi in tutte le membra. Serrò i pugni per evitare che gli tremassero le mani. “L’assassino di Amun che è scappato dalla Svizzera. È stato lui.”

Cartwright sospirò. “Zero, fino a quando non avremo prove non possiamo esserne sicuri.”

“Io lo sono già. Lo so. Mi ha mandato una loro foto.” Aveva ricevuto l’immagine, spedita dal telefono di Sara verso quello di Maya. C’erano le sue due figlie, ancora in pigiama, strette insieme sui sedili posteriori del pick-up rubato di Thompson.

“Kent,” disse con attenzione il vice direttore, “ti sei fatto diversi nemici. Questo non conferma…”

“È stato lui. So che è stato lui. Quella foto è la prova che sono vive. Mi sta provocando. Chiunque altro avrebbe…” Non riuscì a costringersi a dirlo ad alta voce, ma tutti gli altri nemici che Kent Steele si era fatto nel corso della sua carriera avrebbero solo ammazzato le due ragazze per vendetta. Rais lo stava facendo perché era un fanatico convinto di essere destinato a ucciderlo. Significava che voleva farsi trovare, con un po’ di fortuna insieme alle sue figlie.

Solo che non so se saranno ancora vive quando succederà… Si premette le mani alla fronte, come per strappare quell’idea dalla sua testa. Rimani lucido. Non devi nemmeno pensarci.

“Zero?” lo chiamò Cartwright. “Ci sei ancora?”

Reid tirò un sospiro per calmarsi. “Sono qui. Ascolta, dobbiamo rintracciare il pick-up di Thompson. È un modello recente, e ha un’unità GPS. E poi il rapitore ha il cellulare di una delle mie figlie. Sono certo che l’agenzia deve avere il numero.” Avrebbero potuto trovare sia il telefono che l’auto; se fossero stati nella stessa posizione e Rais non li avesse ancora abbandonati, avrebbero avuto una direzione da seguire.

“Kent, ascolta…” cercò di dire Cartwright, ma Reid lo interruppe di nuovo.

“Sappiamo che ci sono membri di Amun negli Stati Uniti,” continuò implacabile. Altri due terroristi avevano già inseguito le sue figlie su un pontile nel New Jersey in passato. “Quindi è possibile che ci sia una loro casa sicura da qualche parte all’interno dei nostri confini. Dovremmo contattare l’H-6 per scoprire se possono cavare qualche informazione dai loro prigionieri.” L’H-6 era la prigione segreta della CIA in Marocco, dove venivano rinchiusi i membri della associazioni terroristiche.

“Zero…” Cartwright cercò di fermare quella conversazione a senso unico.

“Faccio la valigia e parto tra due minuti,” gli disse Reid affrettandosi verso la sua camera da letto. Ogni momento che passava era un istante in più che le sue figlie trascorrevano lontano da lui. “Allertate il dipartimento dei Trasporti, nel caso cerchi di portarle fuori dal paese. E bisogna fare lo stesso con i porti e le stazioni dei treni. E le telecamere dell’autostrada… dovremmo accedere anche a quelle. Non appena troverete una traccia, fatemelo sapere. Mi servirà un’auto, qualcosa di veloce. E un telefono dell’agenzia, un tracker GPS, delle armi…”

“Kent!” sbottò il vice direttore nel telefono. “Aspetta un secondo, va bene?”

“Aspettare? Qui si tratta delle mie figlie, Cartwright. Mi servono informazioni. Ho bisogno di aiuto…”

Il vice direttore fece un profondo sospiro, e Reid capì subito che c’era qualcosa che non andava. “Non puoi partecipare a questa operazione, agente,” gli disse. “Sei troppo coinvolto.”

Reid gonfiò il petto, pieno di rabbia. “Di che cosa stai parlando?” chiese piano. “Di che diavolo stai parlando? Devo cercare le mie ragazze…”

“Non puoi farlo.”

“Sono le mie bambine…”

“Ascoltati,” gli disse seccamente Cartwright. “Stai parlando a vanvera. Sei emotivo. È un conflitto di interesse. Non possiamo permetterlo.”

“Lo sai che sono la persona migliore per questa missione,” sbottò Reid. Nessun altro avrebbe potuto trovare le sue figlie. Stava a lui. Doveva farlo lui.

“Mi dispiace. Ma tendi ad attrarre il tipo sbagliato di attenzioni,” spiegò l’altro uomo, come se fosse una giustificazione. “I piani alti stanno cercando di evitare una replica di eventi passati, se vogliamo dire così.”

Reid esitò. Sapeva perfettamente di che cosa stava parlando Cartwright, anche se non se lo ricordava. Due anni prima sua moglie, Kate, era morta, e Kent Steele aveva sepolto il suo dolore nel lavoro. Si era buttato in una caccia lunga intere settimane, interrompendo i contatti con la sua squadra per inseguire i membri di Amun per tutta l’Europa. Si era rifiutato di rientrare quando la CIA lo aveva richiamato. Non aveva ascoltato nessuno, né Maria Johansson, né il suo miglior amico, Alan Reidigger. Da quello che gli avevano detto, si era lasciato dietro un lago di sangue nella sua furia. In effetti, era principalmente per quello che il nome “Agente Zero” era bisbigliato con terrore e sdegno tra i terroristi di tutto il mondo.

E quando la CIA ne aveva avuto abbastanza, avevano mandato qualcuno a farlo fuori. Avevano mandato Reidigger a ucciderlo. Ma Alan non lo aveva abbattuto; aveva trovato un altro modo, il soppressore sperimentale di memoria che gli aveva permesso di dimenticare la sua vita e il suo lavoro per la CIA.

“Lo capisco. Avete paura di quello che potrei fare.”

“Già,” concordò Cartwright. “È proprio così.”

“E avete ragione.”

“Zero,” lo avvisò il vice direttore, “non farlo. Lasciaci indagare a modo nostro, per poter sbrigare questa faccenda in fretta, in silenzio e senza far danni. Non te lo dirò di nuovo.”

Reid chiuse la chiamata. Avrebbe cercato le sue ragazze, con o senza l’aiuto della CIA.

CAPITOLO TRE

Dopo aver chiuso la chiamata con il vice direttore, Reid si fermò davanti alla porta della camera di Sara con una mano sulla maniglia. Non voleva entrare. Ma doveva farlo.

Invece si distrasse con i dettagli di quello che sapeva, ripassandoli nella propria mente: Rais era entrato in casa sua attraverso una porta che non stata chiusa a chiave. Non c’erano segni di ingresso forzato, non erano state rotte finestre o serrature. Thompson aveva cercato di allontanarlo; si vedevano i segni di una lotta. Alla fine l’uomo anziano era morto per le ferite da taglio al petto. Non erano stati esplosi colpi, ma la Glock che Reid teneva accanto alla porta d’ingresso era svanita. E lo stesso valeva per la Smith & Wesson che Thompson portava sempre alla cintura, che significava che Rais era armato.

 

Ma dove avrebbe portato le sue figlie? Nessuna delle prove sulla scena del crimine in cui si era trasformata casa sua portava a una destinazione.

Nella camera di Sara, la finestra era ancora aperta e la scaletta anti-incendio era srotolata sul davanzale. Pareva che le ragazze avessero tentato di scendere da lì, o che almeno ci avessero pensato. Ma non ci erano riuscite.

Reid chiuse gli occhi e respirò tra le mani, costringendosi ad allontanare il terrore e le lacrime. Quindi prese il caricatore del cellulare, che era attaccato alla presa accanto al comodino.

Aveva trovato il telefono sul pavimento del seminterrato, ma non lo aveva detto alla polizia. Né aveva mostrato loro la foto che era stata mandata perché lui la vedesse. Non poteva consegnarglielo, nonostante fosse una prova.

Poteva servirgli.

Una volta in camera sua mise in carica il telefono della figlia nella presa dietro il letto. Silenziò il dispositivo e poi fece in modo che le telefonate e i messaggi arrivassero direttamente al suo cellulare. Infine lo nascose tra il materasso e la rete. Non voleva che la polizia lo prendesse. Aveva bisogno che rimanesse attivo, nel caso gli avesse mandato altre provocazioni. Provocazioni che sarebbero potute diventare tracce.

Riempì in fretta una borsa con un paio di cambi d’abito. Non sapeva per quanto tempo sarebbe stato via, né dove sarebbe dovuto andare. Fino alla fine della terra, se necessario.

Scambiò le scarpe da ginnastica con un paio di stivali. Lasciò il portafoglio nel primo cassetto del comodino. Nel suo guardaroba, infilata dentro un paio di scarpe eleganti, c’era una mazzetta di denaro per le emergenze, quasi cinquecento dollari. Li prese tutti.

Sopra al comò c’era una foto incorniciata delle ragazze e gli si strinse il cuore a guardarla.

Maya aveva un braccio attorno alle spalle di Sara. Entrambe le sue figlie sorridevano, sedute nel ristorante di pesce in cui aveva scattato quella foto. Era stato durante un viaggio di famiglia in Florida l’estate prima. Se lo ricordava bene; le aveva riprese appena prima che arrivasse il cibo. Maya aveva un virgin daiquiri davanti a sé e Sara un milkshake alla vaniglia.

Erano state felici. Allegre. Soddisfatte. Al sicuro. Prima che quell’incubo si scatenasse su di loro a causa sua, erano state sane e salve. Quando gli aveva scattato quella foto, la sola idea di essere inseguite da terroristi che volevano fargli del male oppure di essere rapite da assassini, erano una mera fantasia.

È tutta colpa tua.

Girò la cornice e aprì il retro. Nel frattempo si fece una promessa. Quando le avesse trovate—e sarebbe successo presto—avrebbe chiuso. Basta missioni per la CIA. Basta operazioni segrete. Basta salvare il mondo.

Al diavolo il mondo, voglio solo che la mia famiglia stia bene.

Se ne sarebbero andati, si sarebbero trasferiti lontano, se necessario avrebbero cambiato i loro nomi. Per il resto della sua vita si sarebbe occupato solamente della loro sicurezza e della loro felicità. Della loro sopravvivenza.

Prese la foto dalla cornice, la piegò a metà e se l’infilò in una tasca interna della giacca.

Gli sarebbe servita una pistola. Era certo che ne avrebbe trovata una a casa di Thompson, proprio lì accanto, se fosse riuscito a entrare senza che la polizia e i paramedici lo vedessero…

Qualcuno si schiarì rumorosamente la gola nel corridoio, segnalando la propria presenza nel caso a lui fosse servito un momento per ricomporsi.

“Signor Lawson.” L’uomo avanzò verso la soglia della camera. Era basso e con la pancetta, ma il suo volto era segnato da linee dure. A Reid faceva venire in mente Thompson, anche se poteva essere solo il senso di colpa. “Sono il detective Noles, del Dipartimento di Polizia di Alexandria. Capisco che per lei questo è un momento molto difficile. So che ha già rilasciato una dichiarazione ai primi agenti accorsi sulla scena, ma ho qualche altra domanda che vorrei mettere a verbale, se vuole seguirmi fino in centrale.”

“No.” Reid prese la borsa. “Vado a cercare le mie figlie.” Uscì a grandi passi dalla stanza e superò il detective.

Noles lo seguì in fretta. “Signor Lawson, scoraggiamo fortemente i privati cittadini a intervenire in casi come questo. Ci lasci fare il nostro lavoro. La cosa migliore che può fare è rimanere al sicuro, insieme ad amici e famiglia, ma comunque senza allontanarsi dalla zona…”

L’agente si fermò in fondo alle scale. “Sono sospettato del rapimento delle mie stesse figlie, detective?” chiese, con voce bassa e ostile.

Noles lo fissò. Dilatò leggermente le narici. Lui sapeva che l’addestramento del detective prevedeva che affrontasse con delicatezza quella situazione, per non traumatizzare ulteriormente le famiglie delle vittime.

Ma Reid non era traumatizzato. Era furioso.

“Come ho detto, ho qualche altra domanda,” ripeté con gentilezza Noles. “Vorrei che venisse con me alla centrale.”

“Mi rifiuto di rispondere alle sue domande.” Reid lo fissò. “Ora vado alla mia auto. Se vuole portarmi con lei dovrà mettermi in manette.” Voleva che quel robusto poliziotto si levasse di torno. Per un breve momento considerò persino di menzionare le sue credenziali della CIA, ma non aveva niente che le confermasse.

Noles non disse nulla e lui si girò sui tacchi per uscire di casa, diretto verso il vialetto d’ingresso.

Il detective continuò a seguirlo, fuori dalla porta e nel cortile. “Signor Lawson, glielo chiederò solo un’altra volta. Pensi per un istante che impressione sta dando, preparando una borsa e scappando via mentre noi indaghiamo a casa sua.”

Reid fu attraversato da un lampo di furia feroce, che lo accese dalla base della spina dorsale fino alla testa. Fu sul punto di mollare la borsa per il desiderio di sferrare un colpo alla mascella di Noles, per aver insinuato che potesse essere coinvolto in quella storia.

Il detective era un veterano; doveva aver letto il suo linguaggio del corpo ma comunque non demorse. “Le sue figlie sono sparite e il suo vicino è morto. È successo tutto mentre non era a casa, e tuttavia lei non ha un alibi solido. Non può dirci con chi né dove era. E adesso sta scappando come se sapesse qualcosa che noi non abbiamo ancora capito. Ho delle domande, signor Lawson. E otterrò delle risposte.”

Il mio alibi. Il vero alibi di Reid, la verità, era che aveva passato le ultime quarantotto ore all’inseguimento di un folle leader religioso in possesso di un campione di vaiolo abbastanza grande da provocare un’apocalisse. Il suo alibi era che era appena tornato a casa dopo aver salvato milioni di vite, forse anche miliardi, solo per scoprire che le due persone a cui teneva di più in tutto il mondo erano svanite nel nulla.

Ma non poteva dirlo, per quanto volesse farlo. Invece soffocò la rabbia e trattenne la lingua e i pugni. Si fermò accanto all’auto e si girò verso l’altro uomo. Allo stesso tempo, il basso poliziotto abbassò una mano alla cintura, vicino alle manette.

Due agenti in uniforme che facevano la guardia davanti alla porta notarono il potenziale alterco e si avvicinarono con cautela, portando anche loro le mani alla cintura.

Da quando il soppressore della memoria gli era stato tolto dal cranio, Reid si sentiva come se avesse due menti. Una era il lato logico del professor Lawson, che gli stava dicendo: Arrenditi. Fai come chiede. O altrimenti ti ritroverai in galera e non raggiungerai mai le ragazze.

Ma l’altra parte, quella che era Kent Steele, l’agente segreto, il ribelle, l’uomo alla costante ricerca del brivido, era molto più rumorosa e gridava, sapendo quanto fosse importante ogni secondo.

La seconda parte vinse. Reid si tese, preparandosi alla lotta.

CAPITOLO QUATTRO

Per quello che sembrò un momento lunghissimo nessuno si mosse, né Reid né Noles, e nemmeno i due agenti dietro il detective. Reid stringeva forte la borsa. Se avesse cercato di salire in auto e scappare, era certo che i poliziotti lo avrebbero aggredito. E sapeva che lui avrebbe reagito di conseguenza.

All’improvviso risuonò lo stridio di freni e tutti gli occhi si rivolsero verso un SUV nero che si fermò bruscamente alla fine del vialetto, in perpendicolare rispetto al suo veicolo, bloccandolo. Emerse una figura che si avvicinò in fretta per calmare la situazione.

Watson? quasi sbottò Reid.

John Watson era un agente operativo come lui, un uomo afro-americano alto e dall’espressione sempre impassibile. Aveva il braccio destro sospeso da una fasciatura blu; solo il giorno prima era stato colpito da un proiettile durante l’operazione per impedire ai radicali islamici di rilasciare il virus.

“Detective.” Watson salutò Noles con cenno del capo. “Sono l’agente Hopkins, del dipartimento dell’Homeland Security.” Con la mano sana gli mostrò un distintivo convincente. “Quest’uomo deve venire con me.”

Il detective si accigliò. La tensione del momento era evaporata, ed era stata sostituita dalla confusione. “Come dice? Homeland Security?”

L’agente afro-americano annuì severamente. “Crediamo che il rapimento abbia a che fare con un’indagine in corso. Ho bisogno che il signor Lawson venga con me, subito.”

“Ora aspetti un momento.” Noles scosse la testa, ancora perplesso dall’improvvisa intrusione e dalla rapida spiegazione. “Non può intromettersi così e prendere…”

“Quest’uomo è una risorsa del dipartimento,” lo interruppe Watson. Tenne la voce bassa, come se stesse svelando un segreto, ma Reid sapeva che era una tattica della CIA. “È con il WITSEC.”

Il detective sgranò gli occhi tanto che sembrarono sul punto di cadergli fuori dalla testa. Il WITSEC era l’acronimo del programma di protezione testimoni del Dipartimento della Giustizia americano. Ma Reid non disse nulla; si limitò a incrociare le braccia sul petto e a lanciare uno sguardo duro al poliziotto.

“In ogni caso…” riprese con esitazione Noles, “mi servirà qualcos’altro qui oltre a un distintivo luccicante…” Il suo cellulare cominciò a squillare all’improvviso.

“Immagino che quella sia la conferma del mio dipartimento,” garantì Watson mentre l’altro uomo prendeva il telefono. “È meglio che risponda. Signor Lawson, la prego, da questa parte.”

L’agente si allontanò, lasciando il detective sbalordito a balbettare nel ricevitore. Reid prese la borsa e lo seguì, ma si fermò davanti al SUV.

“Aspetta,” disse prima che Watson salì dietro il volante. “Che sta succedendo? Dove stiamo andando?”

“Possiamo parlare durante il viaggio, o possiamo farlo ora e perdere tempo.”

L’unico motivo che gli veniva in mente per la presenza di Watson era che l’agenzia lo avesse mandato con lo scopo di prenderlo sotto custodia e tenerlo d’occhio.

Scosse la testa. “Non andrò a Langley.”

“Nemmeno io,” rispose l’altro uomo. “Sono qui per aiutarti. Sali in auto.” Si accomodò nel sedile del guidatore.

Reid esitò per un breve istante. Doveva mettersi in strada, ma non aveva nessuna destinazione. Gli serviva una traccia. E non aveva motivo di credere che Watson gli stesse mentendo. Era uno degli agenti più onesti e leali che avesse mai incontrato.

Salì nel sedile del passeggero accanto a lui. Con il braccio nella fasciatura, l’altro agente dovette piegare tutto il corpo per inserire la prima e girare il volante con una mano. Si misero subito in moto, superando il limite di velocità ma non abbastanza da attirare l’attenzione.

L’uomo lanciò uno sguardo alla borsa nera in grembo a Reid. “Dove avevi intenzione di andare?”

“Devo trovarle, John.” Gli si annebbiò la vista al pensiero delle sue due figlie là fuori, sole, nelle mani di un folle assassino.

“Senza supporto? Disarmato e con un cellulare civile?” L’agente Watson scosse la testa. “Sai che non è una buona idea.”

“Ho già parlato con Cartwright,” disse amareggiato Reid.

Watson sbuffò. “Pensi che il vice direttore fosse da solo mentre parlava con te? Credi che fosse su una linea sicura, in un ufficio a Langley?”

Lui si accigliò. “Non sono sicuro di capire. Mi stai suggerendo che Cartwright in realtà vuole che io faccia esattamente quello che mi ha detto di non fare?”

 

L’altro fece spallucce, senza togliere lo sguardo dalla strada. “Più che altro sa che lo faresti in ogni caso, che lui lo voglia oppure no. Ti conosce meglio di molti altri. Per come la vede Cartwright, è meglio evitare un altro problema accertandosi che tu abbia il supporto che ti serve.”

“E ha mandato te,” mormorò Reid. L’agente non lo confermò né lo negò, ma non era necessario. Il vice direttore sapeva che Zero avrebbe cercato le figlie; la loro conversazione era stata a uso e consumo delle altre orecchie a Langley. Tuttavia, sapendo quanto Watson fosse fissato con il protocollo, non capiva perché lo volesse aiutare. “E tu? Perché lo stai facendo?”

L’altro uomo scrollò le spalle. “Ci sono un paio di bambine là fuori. Spaventate, sole e in mani cattive. Non mi piace molto.”

Non era una vera risposta, e forse non era neanche tutta la verità, ma Reid sapeva che dallo stoico agente non avrebbe cavato altro.

Non poteva evitare di pensare che in parte Cartwright avesse deciso di aiutarlo perché si sentiva in colpa. Lui gli aveva già chiesto due volte di mettere le figlie in una casa sicura, e invece il vice direttore aveva addotto scuse sulla mancanza di agenti e di risorse… e ora erano svanite.

Avrebbe potuto evitarlo. Avrebbe potuto aiutarlo. Reid si sentì di nuovo accendere dalla rabbia e ancora una volta la soffocò. Non era il momento per quello. Adesso doveva trovare le sue figlie. Nient’altro aveva importanza.

Le troverò. Le riprenderò. E ucciderò Rais.

Reid fece un profondo respiro. Inalò dal naso ed espirò dalla bocca. “Quindi per ora che cosa sappiamo?”

Watson scosse la testa. “Non molto. L’abbiamo appena scoperto, grazie alla tua telefonata alla polizia. Ma l’agenzia è già al lavoro. Dovremmo avere una pista in poco tempo.”

“Chi ci sta lavorando? Qualcuno che conosco?”

“Il direttore Mullen ha affidato l’indagine alle Operazioni Speciali, quindi se ne sta occupando Riker…”

Reid si ritrovò a sbuffare di nuovo. Meno di quarantotto ore prima gli era tornato alla mente un ricordo, uno della sua vita passata come Kent Steele. Era ancora nebuloso e frammentario, ma c’entrava una cospirazione, un qualche segreto del governo. Una guerra in arrivo. Due anni prima aveva saputo di cosa si trattava—o almeno ne aveva saputo una parte—ed era stato alla ricerca di altri indizi. Nonostante la mancanza di chiarezza, era stato certo che fossero coinvolti diversi agenti della CIA.

In cima alla lista c’era l’appena nominata vice direttrice Ashleigh Riker, capo del gruppo Operazioni Speciali. E a prescindere dalla sua mancanza di fiducia nei confronti della donna, non credeva affatto che lei si sarebbe impegnata per ritrovare le sue figlie.

“Ha assegnato il caso a un ragazzo nuovo, giovane ma in gamba,” continuò Watson. “Si chiama Strickland. È un ex Ranger dell’esercito, un eccellente cacciatore. Se qualcuno può trovare il colpevole è lui. A parte te, ovviamente.”

“Io so già chi è stato, John.” Scosse amareggiato il capo. Pensò subito a Maria; la donna era un’agente come loro, un’amica, e forse qualcosa di più. Era anche una delle poche persone di cui Reid si fidava. L’ultima volta che aveva avuto sue notizie, Maria Johansson era stata in Russia a inseguire Rais. “Devo contattare Johansson. È giusto che sappia che cosa è successo.” Sapeva che la CIA non l’avrebbe richiamata fino a quando lui non avesse trovato le prove che dimostravano la colpevolezza dell’assassino di Amun.

“Non puoi farlo, non mentre è sul campo,” rispose Watson. “Ma posso cercare di entrare in contatto con lei in qualche altra maniera. Le dirò di chiamarti non appena riuscirà a trovare una linea sicura.”

Reid annuì. Non gli piaceva il pensiero che Maria fosse irraggiungibile, ma non poteva farci niente. Durante le operazioni non si potevano usare i cellulari personali, e la CIA monitorava le sue comunicazioni.

“Hai intenzione di dirmi dove stiamo andando?” domandò. Stava iniziando a innervosirsi.

“Da qualcuno che può aiutarci. Ecco.” Gli gettò un piccolo telefono a conchiglia argentato, uno usa e getta, che la CIA non avrebbe potuto tracciare a meno che non avesse saputo della sua esistenza e a che numero rispondeva. “Lì dentro ci sono alcuni contatti. Uno è per la mia linea sicura. Un altro è quello di Mitch.”

Reid batté le palpebre. Non conosceva nessun Mitch. “Chi diavolo sarebbe?”

Invece di rispondere, Watson guidò il SUV fuori strada e nel vialetto di un’officina chiamata Third Street Garage. Parcheggiò il veicolo dentro il garage aperto. Non appena spense il motore, il portellone del negozio si chiuse dietro di loro.

Entrambi uscirono dalla macchina e Reid cercò di abituare i propri occhi all’oscurità. Poi le luci si accesero, brillanti lampadine fluorescenti che gli riempirono la vista di puntini luminosi.

Accanto al SUV, in un secondo spazio nel garage, c’era un’auto nera, un modello Trans Am degli anni ’80. Non era una macchina nuova ma la vernice era lucida e sembrava data da poco.

Insieme a loro c’era anche un uomo. Indossava una tuta di un colore blu scuro che nascondeva a malapena le macchie di grasso. I suoi lineamenti erano oscurati da un’arruffata barba castana e da un cappellino rosso da baseball con i bordi scoloriti dal sudore, che portava basso sulla fronte. Il meccanico si ripulì lentamente le mani su uno straccio lurido e macchiato d’olio, fissando Reid.

“Lui è Mitch,” disse Watson. “È un amico.” Gettò un mazzo di chiavi al collega e indicò la Trans Am. “È un modello vecchio, quindi è senza GPS. È affidabile. Sono anni che Mitch la sistema, quindi vedi di non distruggerla.”

“Grazie.” Aveva sperato in qualcosa di meno appariscente, ma avrebbe accettato tutto l’aiuto che gli avrebbero fornito. “Che posto è questo?”

“Questo? È un garage, Kent. Qui aggiustano le auto.”

Reid roteò gli occhi. “Sai che cosa voglio dire.”

“L’agenzia sta già cercando di tenerti d’occhio,” spiegò Watson. “Proveranno a rintracciarti in ogni modo possibile. A volte nel nostro mestiere sono utili degli… amici esterni, per così dire.” Indicò il corpulento meccanico. “Mitch è una risorsa della CIA. L’ho reclutato quando ero alla National Resources Division. È esperto nel, ehm, ‘recupero veicoli’. Se devi andare da qualche parte, ti basta chiamare lui.”

L’agente annuì. Non sapeva che il collega si fosse occupato di reclutare risorse prima di iniziare a lavorare sul campo. In realtà doveva ammettere che non sapeva neanche se John Watson era il suo vero nome.

“Andiamo, ho delle cose per te.” L’uomo aprì il bagagliaio e gli mostrò il contenuto di una sacca nera.

Reid fece un passo indietro per lo stupore: all’interno c’era ogni genere di dispositivo utile, inclusi registratori, GPS, uno scanner di frequenze e due pistole, una Glock 22 e la sua arma di scorta preferita, una Ruger LC9.

Scosse sbalordito la testa. “Come hai trovato questa roba?”

Watson scrollò le spalle. “Un amico comune mi ha dato una mano.”

Non dovette chiedergli di chi stesse parlando. Bixby. L’eccentrico ingegnere della CIA che passava la maggior parte delle sue ore in un laboratorio di ricerca e sviluppo sotterraneo sotto Langley.

“Tu e lui vi conoscete da molto, anche se non te lo ricordi,” gli spiegò l’altro uomo. “Ma ha detto che avrei dovuto ricordarti di qualche test?”

Reid annuì. Bixby era uno degli inventori del soppressore sperimentale di memoria che gli avevano istallato nella testa, e l’ingegnere gli aveva chiesto di fare qualche test su di lui.

Può aprirmi il cranio se significa riavere indietro le mie figlie. Un’altra ondata travolgente di emozione lo assalì, al pensiero di tutte quelle persone disposte a violare leggi e a rischiare la vita, anche se lui non riusciva a ricordarsi affatto di loro. Batté le palpebre per scacciare le lacrime che gli erano salite agli occhi.