La caccia di Zero

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“Voglio che aspetti quarantacinque minuti. Poi manda la soffiata del motel a Strickland e alla polizia locale,” disse a Watson. “Se lui è lì, voglio più rinforzi possibile.”

Quando la CIA e la polizia fossero arrivati, o le sue figlie sarebbero state al sicuro, o Reid Lawson sarebbe morto.

CAPITOLO OTTO

Maya stringeva forte a sé la sorella. La catena delle manette tintinnava tra i loro polsi; Sara aveva le mani alzate al petto e la stava abbracciando a sua volta. Le due ragazze erano sedute insieme sui sedili posteriori dell’auto.

L’assassino era alla guida della macchina e si era avviato lungo Port Jersey. Il porto era molto grande, Maya credeva che proseguisse per diverse centinaia di metri. Ai loro lati si alzavano pile di container. Formavano un percorso stretto. Tra le loro mura metalliche e i finestrini della macchina c’era solo qualche decina di centimetri.

Viaggiavano con i fari spenti ed era pericolosamente buio, ma la cosa non sembrava turbare Rais. Di tanto in tanto, attraverso una fessura tra i container, Maya riusciva a vedere delle luci in lontananza, vicine all’acqua. Sentiva persino il ronzio di macchinari. C’era gente al lavoro, tutt’intorno a loro. E tuttavia non ne era rassicurata. Fino a quel momento Rais aveva dimostrato una grande attitudine alla pianificazione, e dubitava che avrebbe lasciato vedere le sue prigioniere da sguardi indiscreti.

Stava a lei evitare che le mandasse fuori dal paese.

L’orologio al centro del cruscotto dell’auto segnava le quattro del mattino. Era passata meno di un’ora da quando aveva lasciato il biglietto nel serbatoio del gabinetto nel motel. Poco dopo Rais si era alzato all’improvviso e aveva annunciato che era il momento di mettersi in viaggio. Senza spiegare nulla le aveva guidate fuori dalla camera, ma non erano andati verso la station wagon bianca su cui erano arrivati. Invece le aveva condotte a un modello d’auto più vecchio, a qualche metro dalla loro stanza. Con estrema facilità aveva scassinato la porta e le aveva fatte salire sui sedili posteriori. Poi aveva strappato la piastrina sul blocchetto d’accensione e in pochi secondi aveva collegato i cavi per avviare la macchina.

Con il favore delle tenebre erano arrivati al porto, e ora si stavano avvicinando all’estremità settentrionale della terra ferma, dove finiva il cemento e iniziava la Newark Bay. Rais rallentò e parcheggiò la macchina.

Maya sbirciò al di là del parabrezza. Erano di fronte a una nave, un’imbarcazione piuttosto piccola per gli standard commerciali. Non doveva essere lunga più di venti metri da un’estremità all’altra, ed era carica di container metallici cubici grandi un metro e mezzo per un metro e mezzo. In quella zona del pontile, oltre alla luna e alle stelle, l’unica luce veniva da due fioche lampadine giallastre sulla nave, una a poppa e l’altra a prua.

Rais spense il motore e rimase seduto in silenzio per un lungo momento. Poi face lampeggiare i fari, una volta sola. Due uomini uscirono dalla cabina della nave. Lo scrutarono e scesero lungo la stretta rampa allungata tra l’imbarcazione e il pontile.

L’assassino si voltò sul sedile per fissare Maya negli occhi. Disse una sola parola, pronunciandola lentamente. “Ferma.” Poi uscì e richiuse la porta, fermandosi dopo pochi passi ad aspettare l’arrivo dei due uomini.

La ragazza serrò la mascella e cercò di rallentare i rapidi battiti del suo cuore. Se fossero salite su quella nave e avessero lasciato la terra ferma, sarebbe stato molto più difficile ritrovarle. Non riusciva a sentire cosa si dicevano gli uomini, udiva solo mormorii profondi mentre Rais parlava con loro.

“Sara,” sussurrò. “Ti ricordi cosa ho detto?”

“Non posso.” La voce della sorella si spezzò. “Non…”

“Devi.” Erano ancora ammanettate insieme, ma la rampa per salire sulla nave era stretta, ampia solo mezzo metro. Con ogni probabilità avrebbero dovuto liberarle. E una volta che l’avessero fatto… “Non appena mi muovo, scappa. Devi trovare altre persone. Nasconditi se necessario. Devi…”

Non riuscì a finire la frase. La porta posteriore si aprì di scatto e Rais le scrutò. “Uscite.”

Maya si sentiva le ginocchia deboli mentre scivolava giù dal sedile, seguita da Sara. Si costrinse a guardare i due uomini che erano scesi dalla barca. Avevano entrambi la pelle chiara e gli occhi e i capelli scuri. Uno dei due portava una barbetta sottile e i capelli corti, e sulle braccia incrociate sul petto aveva una giacca di pelle nera. L’altro indossava un cappotto marrone. I suoi capelli erano più lunghi, gli arrivavano alle orecchie. La grossa pancia gli sporgeva oltre la cintura e sulle sue labbra aleggiava un ghigno.

Il secondo uomo, quello più in carne, prese a muoversi attorno alle due ragazze, camminando lentamente. Disse qualcosa in una lingua straniera, la stessa che Rais aveva parlato a telefono nella stanza del motel.

Poi pronunciò una singola parola in inglese.

“Carine.” Scoppiò a ridere. Il suo compagno vestito di pelle sogghignò. Rais rimase impassibile.

Con quell’unica parola, una nuova consapevolezza della situazione si fece strada nella mente di Maya, paralizzandola come dita di ghiaccio attorno alla gola. Stava succedendo qualcosa di molto peggio di un semplice rapimento. Non voleva neanche pensarci, né tantomeno soffermarsi a riflettere sui dettagli. Non poteva essere vero. Non quello. Non a loro.

Spostò lo sguardo sul mento di Rais. Non sopportava di guardare nei suoi occhi verdi.

“Tu.” Parò con voce bassa e tremante, facendo fatica a pronunciare quelle parole. “Sei un mostro.”

L’uomo sospirò gentile. “Forse. È solo una questione di prospettiva. Io ho bisogno di un passaggio dall’altra parte dell’oceano e voi siete la mia merce di scambio. Il mio biglietto, se preferite.”

Maya aveva la bocca secca. Non pianse e non tremò. Sentì solo un gran freddo.

Rais le stava vendendo.

“Ah-ehm.” Qualcuno si schiarì la gola. Cinque paia d’occhi si voltarono di scatto mentre un nuovo personaggio si avvicinava alla luce fioca della nave.

La ragazza ci sperò. Era un uomo di mezza età, sulla cinquantina, con un paio di pantaloni cachi e una camicia bianca ben stirata. Sembrava un funzionario di qualche tipo. Sotto un braccio teneva un rigido casco di protezione bianco.

Rais estrasse la Glock e la puntò sullo sconosciuto in un batter d’occhio. Ma non sparò. Lo sentirebbero anche altre persone, capì Maya.

“Ehi!” L’uomo lasciò cadere il casco e alzò entrambe le mani in aria.

“Aspetta.” Lo straniero con la giacca di pelle nera si intromise, frapponendosi tra la pistola e il nuovo arrivato. “Ehi, va bene,” disse in un inglese pesantemente accentato. “Va bene.”

Maya rimase a bocca aperta per la confusione. Bene?

Mentre Rais abbassava con cautela l’arma, lo straniero si infilò una mano dentro la giacca di pelle e ne estrasse una busta sgualcita, piegata in tre parti e chiusa con il nastro adesivo. All’interno c’era qualcosa di grosso e rettangolare, come un mattone.

La tese all’uomo dall’aspetto ufficiale, che stava riprendendo il casco da terra.

Mio Dio. Sapeva cosa c’era nella busta. Quell’uomo stava accettando denaro per tenere lontani gli operai del porto e lasciare libera quella zona del molo.

Rabbia e impotenza l’avvolsero in egual misura. Avrebbe voluto urlargli contro—la prego, aspetti, ci aiuti—ma per un istante incontrò il suo sguardo, e capì che sarebbe stato inutile.

Non c’era rimorso in quegli occhi. Nessuna gentilezza. Nessuna empatia. Le parole le rimasero chiuse in gola.

Velocemente come era apparso, l’uomo svanì di nuovo tra le ombre. “È un piacere fare affari con voi,” mormorò mentre si allontanava.

Non sta succedendo davvero. Si sentiva intorpidita. In tutta la sua vita non aveva mai incontrato nessuno che sarebbe rimasto immobile a guardare mentre dei bambini erano in pericolo, né che avrebbe accettato soldi per non fare niente.

L’uomo in carne ordinò qualcosa nella sua lingua straniera e indicò vagamente le mani delle ragazze. Rais disse qualcosa in risposta. Sembrò un secco rifiuto, ma l’altro uomo insistette.

L’assassino apparve irritato mentre si infilava le dita nelle tasche per estrarre una piccola chiave argentata. Afferrò la catena delle loro manette, costringendo entrambe ad alzare i polsi per aria. “Ora ve le tolgo,” disse loro. “Poi salirete sulla nave. Se volete arrivare vive sulla terraferma, rimarrete in silenzio e farete quello che vi verrà detto.” Spinse la chiave nella cerchietto metallico al polso di Maya e l’aprì. “E non pensate nemmeno a saltare in acqua. Nessuno di noi verrà a riprendervi. Vi guarderemo morire di freddo o annegare. Ci vorranno solo un paio di minuti.” Aprì anche il lato di Sara, che istintivamente si strofinò il polso dolente e arrossato.

Ora. Fallo ora. Devi fare subito qualcosa. Il cervello di Maya gridava, ma la ragazza non riusciva a muoversi.

Lo straniero con la giacca nera avanzò per stringerle bruscamente un braccio. L’improvviso contatto fisico spezzò la sua paralisi, spingendola ad agire. Non dovette nemmeno pensarci.

Alzò il piede con tutte le forze che riuscì a radunare, e lo sbatté sull’inguine di Rais.

Non appena lo fece, un ricordo le lampeggiò nella mente. Durò solo un istante, anche se le sembrò molto più lungo, come se il mondo intero avesse rallentato solo per lei.

Un giorno, poco tempo dopo che i terroristi di Amun avevano cercato rapirla nel New Jersey, suo padre l’aveva presa da parte. Non aveva potuto dirle la verità e si era attenuto alla storia di copertura—erano state catturate da membri di una gang come parte di un rituale di iniziazione—ma le aveva ugualmente detto: Non sarò sempre nei paraggi. Non ci sarà sempre qualcuno vicino ad aiutarti.

 

Maya aveva giocato a calcio per anni. Aveva un calcio potente e preciso. Rais si piegò su se stesso con un sibilo, portando istintivamente le mani all’inguine.

Se qualcuno ti attacca, in particolare un uomo, è perché è più grosso. Più forte. È più pesante di te. E per questo crede di poter fare qualsiasi cosa voglia. Che non hai scampo.

Strattonò il braccio verso il basso, in un gesto rapido e violento, e si liberò dall’uomo dalla giacca di pelle. Poi si gettò in avanti, contro di lui, e gli fece perdere l’equilibrio.

Devi giocare sporco. Fai tutto quello che devi. Colpiscilo all’inguine. Al naso. Agli occhi. Mordilo, agitati, urla. Lui non lotta lealmente e non devi farlo neanche tu.

Maya roteò su se stessa, muovendo le braccia sottili in un arco. Rais era ancora chino, il suo volto all’altezza giusta. Il pugno della ragazza gli atterrò su un lato del naso.

Il dolore le attraversò subito la mano, partendo dalle nocche per irradiarsi su per tutto l’avambraccio, fino al gomito. Gridò e la strinse al corpo. Nonostante ciò, l’assassino aveva subito un duro colpo, ed era quasi caduto giù dal pontile.

Qualcuno l’afferrò intorno alla vita e la tirò all’indietro. Si ritrovò con i piedi per aria, a colpire il nulla, e mulinò entrambe le braccia. Non si era neanche resa conto che stava gridando, quando una grossa mano le si chiuse sul naso e la bocca, impedendole di urlare e respirare.

Ma poi la vide: una figurina che diventava sempre più piccola. Sara era scappata, tornava nella direzione da dove erano venuti, e stava svanendo tra le ombre sotto le pile di container.

Ce l’ho fatta. È andata. È riuscita a scappare. Ora a Maya non importava più di cosa le sarebbe successo. Non smettere di scappare, Sara. Corri. Trova altra gente, trova aiuto.

Un’altra figura scattò all’inseguimento come una freccia: Rais. Corse dietro Sara, svanendo come lei tra le ombre. Era veloce, molto più della sua sorellina, e si era ripreso in fretta dai colpi subiti.

Non la troverà. Non al buio.

Non riusciva a respirare con la mano stretta sulla faccia. La graffiò e la strattonò fino spostare leggermente le dita, di pochissimo, quanto bastava per risucchiare aria dal naso. L’uomo in carne le teneva stretta, sollevata da terra con un braccio attorno alla vita. Ma lei non lottava più. Rimase immobile e attese.

Per diversi lunghissimi momenti nel pontile regnò il silenzio. Il ronzio dei macchinari all’altro capo del porto riecheggiava nella notte, cancellando ogni possibilità che le grida di Maya potessero essere udite. Lei e i due uomini aspettarono il ritorno di Rais. La ragazza sperò disperatamente che tornasse a mani vuote.

Un breve strillo spaccò il silenzio, e Maya si accasciò su se stessa.

Rais emerse dall’oscurità. Aveva Sara sotto un braccio, come un altro uomo avrebbe trasportato una tavola da surf, e le teneva una mano sulla bocca per zittirla. Il volto della ragazzina era rosso acceso e stava singhiozzando, ma il suo pianto era soffocato.

No. Maya aveva fallito. Il suo attacco era stato inutile, non era riuscita a liberare Sara.

Rais si fermò davanti a lei, fissandola con occhi verdi pieni di furia.

Perdeva un rivolo di sangue da una narice, dove l’aveva colpito.

“Te l’avevo detto,” sibilò. “Ti avevo detto cosa sarebbe successo se avessi provato a combinare qualcosa. Ora dovrai guardare.”

Maya si agitò di nuovo, cercando di gridare, ma l’uomo straniero la tenne stretta.

Rais pronunciò un secco comando nella loro lingua straniera all’individuo con la giacca di pelle, che si avvicinò in fretta per tenera ferma e muta la sorella minore.

Poi l’assassino sfoderò il grosso coltello, lo stesso che aveva usato per uccidere il signor Thompson e la donna nel bagno della stazione di servizio. Afferrò il braccio della ragazzina e lo tese di fronte a sé.

No! Ti prego non farle del male. Non farlo. Non farlo… Maya cercò di formare le parole, di urlarle, ma l’unica cosa che le uscì di bocca fu un pianto isterico e soffocato.

Sara cercò di strattonarsi piangendo, ma la morsa di Rais era troppo forte. Le separò le dita e infilò la lama tra l’anulare e il mignolo.

“Dovrai guardare,” disse di nuovo, fissando concentrato Maya, “mentre taglierò un dito a tua sorella.” Le premette il coltello sulla pelle.

No. No. Ti prego, Dio, non farlo…

L’uomo che la stava tenendo stretta, quello più in carne, borbottò qualcosa.

Rais si interruppe e lo guardò irritato.

I due ebbero un rapido scambio, di cui la ragazza non capì una sola parola. Tanto non avrebbe avuto importanza; non riusciva a distogliere lo sguardo dalla sorella minore, che strizzava gli occhi piangendo. Le lacrime le colavano lungo le guance e sulla mano che le teneva la bocca chiusa.

L’assassino ringhiò per la frustrazione. Alla fine lasciò la presa sulla mano di Sara. L’uomo in carne fece lo stesso con Maya. Allo stesso tempo lo straniero in giacca di pelle spintonò in avanti la ragazzina più giovane. Maya prese la sorella tra le braccia e la strinse a sé.

Poi Rais avanzò, parlando a bassa voce. “Questa volta siete state fortunate. I gentiluomini qui presenti mi hanno suggerito di non danneggiare la merce prima di rivenderla.”

Maya tremò da capo a piedi, ma non osò muoversi.

“Oltretutto,” aggiunse lui, “il posto dove vi porteremo sarà mille volte peggio di qualsiasi cosa potrei farvi io. Ora saliremo tutti su quella nave. Ricordati che gli sei utile solo da viva.”

L’uomo in carne fece loro strada sulla rampa, trascinandosi dietro Sara e poi Maya. Le due ragazze salirono incerte sulla nave. Ormai non aveva più senso lottare. La mano della sorella maggiore pulsava di dolore per il colpo che aveva sferrato a Rais. C’erano tre uomini e solo due di loro, e l’assassino era molto veloce. Aveva persino trovato Sara la buio. Non sarebbero mai riuscite a scappargli da sole.

Maya guardò l’acqua nera oltre il lato della nave. Per un istante pensò di buttarsi; morire congelata sarebbe stato preferibile al destino che l’attendeva. Ma non poteva farlo. Non poteva lasciare Sara. Non poteva perdere l’ultima briciola di speranza che le rimaneva.

Si diressero a prua della nave, dove l’uomo in giacca di pelle prese un mazzo di chiavi e aprì la serratura di una cassa metallica di un arancione rugginoso.

Aprì la porta e Maya sussultò per l’orrore.

Dentro il container, con gli occhi socchiusi per la fioca luce gialla, c’erano numerose ragazze, almeno quattro o cinque da quello che vedeva.

Poi la spintonarono da dietro per costringerla a entrare. Fecero lo stesso con Sara, che cadde in ginocchio per terra nella cassa. Non appena la porta si richiuse alle loro spalle, Maya si affrettò a chinarsi e a prenderla tra le braccia.

Sentirono scattare la serratura e sprofondano nell’oscurità.

CAPITOLO NOVE

Il sole tramontò in fretta nel cielo nuvoloso mentre il quadricottero sfrecciava verso nord per consegnare il suo carico—un determinato agente della CIA e padre—allo Starlight Motel nel New Jersey.

Sarebbe arrivato in cinque minuti. Un messaggio sullo schermo lo avvisò: Prepararsi al lancio. Lanciò uno sguardo fuori dall’abitacolo e vide, molto più in basso, che stava volando sopra un’ampia area industriale piena di magazzini squadrati e di stabilimenti di produzione, vuoti e bui, illuminata solo da lampioni arancioni.

Aprì il borsone nero che si era appoggiato in grembo. Dentro trovò due fondine con due pistole. Si sfilò la giacca dentro il minuscolo abitacolo per mettersi l’imbracatura da spalla che reggeva la Glock 22 di dotazione standard. Niente di simile alla Glock 19 altamente tecnologica dal grilletto biometrico di Bixby. Si rimise la giacca e si sollevò la gamba dei jeans per legarsi la fondina da caviglia che conteneva la sua arma di riserva preferita, la Ruger LC9. Era una pistola compatta dalla canna corta, una calibro nove millimetri, con un caricatore da nove colpi che spuntava di appena tre centimetri sotto il calcio.

Afferrò la barra attaccata alla corda da arrampicata, pronto a sbarcare dal drone non appena avesse raggiunto l’altezza e la velocità di sicurezza. Stava per sfilarsi le cuffie dalle orecchie quando sentì la voce di Watson.

“Zero.”

“Ci sono quasi. Mancano solo due minuti…”

“Abbiamo appena ricevuto un’altra foto, Kent,” lo interruppe l’altro agente. “L’ha mandata al cellulare di tua figlia.”

Il panico gli torse lo stomaco. “Una foto delle ragazze?”

“Sono sedute su un letto,” confermò lui. “Sembra sia di un motel.”

“Puoi rintracciare il numero che l’ha inviata?” chiese speranzoso Reid.

“Mi dispiace, l’ha già abbandonato.”

La sua speranza svanì. Rais era intelligente; fino a quel momento aveva mandato solo foto di posti dove era stato, non dove era ancora. Se l’agente Zero aveva qualche speranza di raggiungerlo, l’assassino voleva che fosse solo ai suoi termini. Per tutto il viaggio in quadricottero, Reid era stato nervosamente ottimista sulla pista del motel, ansioso al pensiero che avesse battuto Rais al suo stesso gioco.

Ma se aveva mandato una foto… c’erano buone possibilità che se ne fossero già andati di lì.

No. Non puoi pensarla così. Vuole che lo trovi. Ha scelto un motel nel bel mezzo del nulla proprio per questo motivo. Ti sta provocando. Sono lì. Devono esserlo.

“Stavano bene? Sembravano… sono ferite?”

“Sembravano a posto,” gli garantì Watson. “Turbate. Spaventate. Ma a posto.”

Il messaggio sullo schermo cambiò, lampeggiando in rosso: Sbarcare. Sbarcare.

A prescindere dalla foto o dai suoi dubbi, era arrivato. Doveva vedere con i suoi occhi. “Devo andare.”

“Fai in fretta,” gli disse l’altro agente. “Uno dei miei sta chiamando la CIA con una falsa pista e una descrizione che combacia con quella di Rais e delle tue figlie.”

“Grazie, John.” Si sfilò le cuffie, si accertò di avere una presa salda sulla barra della corda e si lanciò fuori dal quadricottero.

La discesa controllata di quindici metri fino a terra fu più veloce di quanto avesse previsto e gli tolse il fiato. Il brivido familiare, la scarica di adrenalina, gli attraversò le vene mentre il vento gli fischiava nelle orecchie. Piegò leggermente le ginocchia al momento dell’atterraggio e arrivò sull’asfalto piegato su di sé.

Non appena ebbe lasciato la barra, la corda ritornò dentro il quadricottero e il drone sparì nella notte con un ronzio, tornando da qualunque posto fosse venuto.

Reid si guardò attorno. Era nel parcheggio di un magazzino di fronte a uno squallido motel, illuminato fiocamente da qualche lampadina gialla. Un cartello dipinto a mano rivolto verso la strada diceva che era nel posto giusto.

Controllò a destra e a sinistra e poi attraversò di corsa la strada vuota. Era silenzioso lì, in maniera inquietante. C’erano tre auto nel parcheggio, sparpagliate davanti alle stanze rivolte verso di lui. Una era chiaramente il SUV bianco che era stato rubato nella rivendita di macchine usate nel Maryland.

Era di fronte alla stanza con il numero nove in bronzo appeso alla porta.

Le luci all’interno erano spente; non sembrava abitata in quel momento. Nonostante ciò, lasciò cadere la sua borsa appena fuori dalla porta e rimase attentamente in ascolto per tre secondi.

Non udì nulla, quindi estrasse la Glock dalla fondina alla spalla e sfondò la porta con un calcio.

Lo stipite esplose con facilità al contatto con il suo piede e Reid entrò, puntando la pistola nell’oscurità. Non si muoveva niente tra le ombre. Non si sentiva un suono, nessuno gridò per la sorpresa né si gettò a prendere un’arma.

Tastò il muro con la mano sinistra alla ricerca di un interruttore, e poi lo accese. Nella Stanza 9 c’era un tappeto arancione e una carta da parati gialla arricciata agli angoli. Era stata pulita di recente, per quanto qualcosa all’interno dello Starlight Motel potesse definirsi ‘pulito’. Il letto era stato rifatto in fretta e furia e l’aria puzzava di economico disinfettante spray.

Ma era vuota. Gli sprofondò il cuore sotto i piedi. Lì non c’era nessuno. Non c’era Sara, né Maya, né l’assassino che le aveva rapite.

 

Reid avanzò con attenzione, controllando la stanza. Vicino alla porta c’era una poltrona verde. La stoffa sulla seduta e sullo schienale era leggermente scolorita, formando l’impronta di una persona che doveva esservi stata seduta di recente. Vi si inginocchiò accanto, seguendo l’impronta con le punte guantate delle dita.

Qualcuno è rimasto seduto qui per ore. Un uomo alto un metro e ottanta per ottanta chili di peso.

Era lui. Era seduto qui, vicino all’unico ingresso, accanto alla finestra.

Reid rinfilò la pistola nella fondina e tirò indietro le coperte. Le lenzuola erano macchiate, non erano state cambiate. Le studiò con attenzione, sollevando ogni cuscino, facendo in modo da non smuovere potenziali prove.

Trovò due capelli biondi, lunghi fili senza le radici. Erano caduti naturalmente. Trovò anche un singolo filo moro. Erano qui insieme, su questo letto, mentre lui stava lì seduto e le guardava. Ma perché? Perché Rais le aveva portate lì? Perché si erano fermati? Era solo un’altra manovra nel suo gioco del gatto con il topo, o stava aspettando qualcosa?

Forse stava aspettando me. Ci ho messo troppo a seguire gli indizi. Se ne sono già andati.

Se Watson aveva già mandato la falsa segnalazione, la polizia sarebbe arrivata al motel tra pochi minuti, e Strickland doveva già essere su un elicottero. Ma Reid si rifiutava di andarsene senza una pista con cui avanzare, o sarebbe stato tutto inutile, solo l’ennesimo vicolo cieco.

Corse nell’ufficio del motel.

Lì il tappeto era verde e ruvido sotto i suoi stivali, e gli ricordava l’erba artificiale. Il posto puzzava di fumo di sigaretta. Dietro il bancone c’era una soglia buia, da cui Reid sentiva provenire un suono a volume basso, forse una radio o una televisione.

Suonò la campanella sul bancone, e uno squillo stonato risuonò nell’ufficio silenzioso.

“Mmh.” Un basso grugnito emerse dalla stanza nel retro, ma non ne uscì nessuno.

Reid suonò di nuovo la campanella, tre volte in rapida successione.

“Va bene, amico! Gesù.” Una voce maschile. “Arrivo.” Un giovane uomo uscì dal retro. Sembrava tra la ventina e la trentina. Per l’agente era difficile dirlo con precisione, vista la sua pelle rovinata e gli occhi arrossati, come se li fosse strofinati dopo una dormita. Portava una piccola anella argentato alla narice sinistra e i suoi capelli biondo sporco erano annodati in dreadlock spelacchiati.

Fissò Reid per un lungo momento, irritato dal semplice concetto che qualcuno fosse entrato nel suo ufficio. “Sì? Che c’è?”

“Sto cercando informazioni,” rispose lui con tono piatto. “Un uomo è stato qui di recente, caucasico, sulla trentina, insieme a due ragazze adolescenti. Una mora e una più giovane, bionda. È arrivato su un SUV bianco. Hanno soggiornato nella stanza nove…”

“Sei un poliziotto?” lo interruppe il commesso.

Reid si stava arrabbiando in fretta. “No, non lo sono.” Avrebbe voluto aggiungere che era il padre delle due ragazze, ma si fermò; non voleva che il commesso fosse in grado di identificarlo più di quanto non avrebbe già potuto fare.

“Ascolta, amico, io non so niente di ragazzine,” insistette quello. “Quello che la gente fa qui sono affari…”

“Voglio solo sapere quando è stato qui, e se ha visto le due ragazze. Voglio il nome che l’uomo le ha dato e devo sapere se ha pagato in contati o con carta di credito. Se ha usato una carta, mi servono le ultime quattro cifre del numero. E ho bisogno di sapere se le ha detto qualcosa o se ha sentito qualche dettaglio che mi aiuti a capire dove possono essere andati.”

Il commesso lo fissò per un lungo momento, e poi emise una risatina roca. “Amico mio, guardati attorno. Questo non è il tipo di posto che chiede nomi, carte di credito o cose del genere. Qui la gente affitta una camera per un’ora, se capisci quello che voglio dire.”

Reid dilatò le narici. Ne aveva avuto abbastanza di quell’idiota. “Deve esserci qualcosa, qualsiasi cosa, che può dirmi. Quando ha fatto il check in? Quando se n’è andato? Che cosa le ha detto?”

Il ragazzo gli lanciò un’occhiata astuta. “Quanto vale per te? Per cinquanta bigliettoni ti dirò tutto quello che vuoi.”

La furia dell’agente si accese in una vampata rovente. Si tese oltre il bancone, afferrò il giovane commesso per il bavero della maglietta e lo tirò a sé, sollevandolo quasi da terra. “Non sai da cosa mi stai trattenendo,” ringhiò in faccia al ragazzino, “né quello che farei per ottenerlo. Mi dirai quello che voglio sapere o mangerai con una cannuccia per il tuo prossimo futuro.”

Il ragazzo alzò le mani, sgranando gli occhi di fronte alla rabbia di Reid. “Va bene, amico! Va bene! C’è un, ehm, un registro sotto il bancone… fammelo prendere e controllo. Ti dirò quando sono stati qui, okay?”

Reid emise un sibilo e lo lasciò andare. Il giovane barcollò all’indietro, si raddrizzò la maglietta e poi tastò sotto il bancone alla ricerca di qualcosa.

“Nei posti come questo,” disse piano, “con il tipo di clientela che ci ritroviamo… a loro piace la loro privacy, se capisci cosa intendo. Non sono felici quando qualcuno ficca il naso nei loro affari.” Fece due lenti passi all’indietro, estraendo il braccio destro da sotto il bancone… e stringendo tra le dita il calcio marrone di fucile a canne mozze.

L’agente sospirò mesto e scosse la testa. “Stai per desiderare di non averlo mai fatto.” Il commesso gli stava facendo perdere tempo per proteggere la feccia come Rais—non che il ragazzo sapesse in cosa l’assassino fosse coinvolto nello specifico—e ogni genere di tipo sordido, come papponi e trafficanti.

“Torna al tuo quartiere, amico.” Gli puntò la canna del fucile al torace, ma tremava. Reid ebbe la sensazione che fosse abituato a usare l’arma per minacciare, ma che non avesse mai sparato prima.

Sapeva senza ombra di dubbio di essere più rapido del commesso; non avrebbe nemmeno esitato a sparargli, alla spalla o alla gamba, se significava ottenere quello che voleva. Ma non voleva fare fuoco. I rumore si sarebbe sentito nel raggio di un chilometro nella zona industriale vuota. Avrebbe spaventato gli ospiti del motel, e magari avrebbe anche spinto qualcuno a chiamare la polizia, e a lui non serviva quell’attenzione.

Invece adottò un approccio diverso. “Sei sicuro che quella cosa sia carica?”

Il commesso abbassò lo sguardo sul fucile per un impercettibile secondo. In quel preciso istante, mentre guardava da un altra parte, Reid piantò una mano sul bancone e lo superò con un balzo. Gli sferrò un calcio e gli fece volare via l’arma dalle mani. Non appena ebbe di nuovo i piedi a terra, si chinò in avanti e gli diede una gomitata sul naso. Il ragazzo emise un roco gemito quando gli esplose il sangue da entrambe le narici.

Poi per buona misura Reid lo prese per i dreadlocks luridi e gli sbatté la faccia sul bancone.

Il ragazzo collassò sul ruvido tappeto verde, mugugnando e perdendo sangue dal naso e dalle labbra spaccate. Piagnucolando cercò di sollevarsi sulle mani e sulle ginocchia. “Tu… oddio… mi hai spaccato il naso, cazzo!”

Reid afferrò il fucile a canne mozze. “Questo è l’ultimo dei tuoi problemi.” Gli premette le canne contro i dreadlock biondastri.

Il commesso si lasciò cadere subito sullo stomaco singhiozzando. “Non… non uccidermi… ti prego no… ti prego… non uccidermi…”

“Dammi il tuo telefono.”

“Io non… non ne ho uno…”

Reid si chinò e lo perquisì in fretta. Era stato sincero, non aveva un cellulare, ma aveva un portafoglio. Lo aprì e controllò la sua patente.

“George.” Sbuffò. Quel ragazzo non sembrava un George. “Hai un’auto qui, George?”

“Ho… ho una moto da cross, pa-parcheggiata qui dietro…”

“Mi basta. Ecco quello che succederà, George. Io mi prenderò la tua moto. Tu te ne andrai di qui. O correrai via, se preferisci. Andrai in ospedale per farti controllare il naso. Gli dirai che ti hanno colpito a tradimento in un bar. Non farai parola di questo posto, né di me.” Si sporse in avanti e abbassò la voce. “Perché ho uno scanner della polizia, George. E se sento un solo accenno, persino un accenno a un uomo che corrisponde alla mia descrizione, verrò a…” rilesse di nuovo la carta d’identità. “All’appartamento 121B su Cedar Road, e porterò con me il tuo fucile. Hai capito bene?”

Olete lõpetanud tasuta lõigu lugemise. Kas soovite edasi lugeda?