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La principessa romanzo

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L’avventuriere americano si chiamava Gustavo Weill-Myot. Era di grande ingegno, di molta versatilità, d’una eleganza irreprensibile, era piacevole e bell’uomo.



La principessa lo conobbe subito: lo invitò, lo attirò a sè: egli se ne invaghì: fece a causa di essa qualche follia; ma per un capriccio inesplicabile in lei, trattandosi d’uomo sì appariscente, e che tanto piaceva alle altre femmine, ella non volle mai corrispondergli. Espansiva, festosa, gaissima con lui, nella conversazione ordinaria, egli la trovava di ghiaccio, impenetrabile, allorchè volea entrare in più intimo argomento.



L’americano meravigliava Napoli con la bellezza de’ suoi cavalli, de’ suoi equipaggi, con la prodigalità delle sue munificenze. Avea pensato dar una festa a tutta l’aristocrazia napoletana nello splendido palazzo, che abitava in Bisignano.



Avea avuto promessa che tutti vi sarebbero accorsi: era certo di accogliere nelle sue sale il fiore della bella società di Napoli.



Molti gentiluomini, molte signore l’aveano anzi pregato di scegliere una tale occasione per far vedere lo sfarzo, la ricchezza, squisitamente artistica, de’ suoi appartamenti.



Ma egli era scapolo: come invitare tante signore?



Gli aveano suggerito: desse un ballo di beneficenza: un comitato di signore avrebbe fatto gl’inviti. Ciò non appagava la sua vanità.



Gli ripugnava che la gente potesse entrare nelle sue stanze, pagando quindici, venti, trenta lire: che la sua casa doventasse come una locanda, un café-chantant: o quasi uno di que’ locali, che si prestano, o si affittano ad ogni occorrenza di feste, di ricreazioni.



Ciò era buono per gli arricchiti di seconda mano, per gli avari fastosi, che, ad ogni costo, voglion vedere un gran signore, una gran signora varcar la soglia delle loro porte.



Le sue ambizioni eran più alte: egli non era uomo da contentarsi di piccoli espedienti.



Se il ballo di beneficenza, dato nelle sue sale, avesse potuto fruttare, poniamo, diecimila lire, egli era pronto a darne anche trentamila per quello scopo che gli fosse designato. Ma non voleva che altri venissero a far l’elemosina in casa sua.



Fu trovato un altro mezzo. Enrica avrebbe diramato gl’inviti.



E, pochi giorni appresso, tutti i conoscenti di Enrica e del Weill-Myot ricevettero un cartoncino litografato. La principessa Gorreso di Caprenne e il signor Weill-Myot invitavano, ecc., ecc., a far loro l’onore di passar la serata.... (e qui la data) nel palazzo Weill-Myot.



Ci fu un po’ di rumore, vi furono ciarle, pettegolezzi per questa specie d’invito: ma la sera del ballo può dirsi non mancasse uno de’ cinquecento invitati.



Enrica, in abito bianco semplicissimo, senza un gioiello, facea gli onori della festa.



Le magnificenze della festa furono indescrivibili. Una ventina di sale, tutte aperte agl’invitati: da una sala turca essi passavano a una sala pompeiana, da una sala egiziana a una sala nel più puro stile del XV secolo, fiorentino: e per tutto quadri, statue, oro; forse troppo oro. Tutto un appartamento era alla foggia russa, con i suoi iconi, la abbondanza di fiori da serra: un altro rappresentava una casa romana, sotto l’Impero; statuette, idoli, gioielli, utensili domestici, tutto era autentico: un tesoro.



La sala da ballo, alle pareti e nel soffitto, era tutta ricoperta di camelie, tramezzate dalle loro foglie: un’idea vaghissima e dell’effetto più delicato.



Le lautezze del buffet nulla lasciarono da desiderare a’ più esigenti.



Nella vastissima sala, si vedevano grandi piante, come banani, ananassi, palme, cariche dei loro bei frutti: portate e accomodate lì col più grande dispendio.



A un gruppo di signore, riparate sotto una specie di chiosco, tutto formato di rarissimi fiori scarlatti, nel fondo d’una splendida galleria, in mezzo al qual gruppo sedea la principessa, fu servito un fagiano su un piatto d’oro, cesellato, di cui due servitori appena poteano sostenere il peso.



Il bel mondo napoletano avea un po’ mormorato della stranezza di Enrica nel farsi patrona di questa festa; nell’entrare ella sì giovane, sì bella, e in assenza del marito, qual signora assoluta in casa d’uno scapolo; ma Enrica sapea farsi tutto perdonare con la sua sottile ipocrisia.



E, allorchè, due giorni dopo il ballo, si seppe che il signor Weill-Myot avea elargito trentamila lire: e il modo ingegnoso ond’erano state largite, venendo in aiuto a vere, profonde sventure, cessarono tutte le mormorazioni: ed anzi Enrica fa lodata.



II

Non si creda che tutto fosse disinteresse, o vi fosse soltanto stranezza, nella condotta di Enrica verso il banchiere.



Dacchè Enrica avea sposato il principe di Caprenne, egli, dopo la morte del duca di Mondrone, padre di lei, le avea lasciato la libera amministrazione di tutti i suoi beni.



Al principe il duca avea fatto un lascito tutto speciale, e come un ricordo personale gli avea legato la stupenda tenuta di Battifolli, computata a lire seicentomila.



L’avvocato del duca, Francesco Costella, che abbiamo già conosciuto, affermava che il duca avea lasciato al genero circa la quarta parte del suo patrimonio, ch’era quasi tutto in terre, avendo già scorto le tendenze di Enrica al dissipare, e non volendola contristare col toglierle una maggior parte de’ beni.



Enrica, non cupida, pianto il padre, che amava sinceramente, fu lieta del lascito ch’egli avea fatto al marito, stimandolo un nuovo legame fra loro: un eccitamento al principe di essere benevolo verso di lei.



Ma il principe indulgente, un po’ indolente, gaio, era pur capace di grande severità, serbava intatti i suoi sentimenti d’uomo d’onore.



Da quattro anni, cioè dacchè il principe, diventato ambasciatore, stava lontano da Napoli, Enrica avea più che raddoppiato le spese della sua casa. Essa spendeva oltre le sue rendite: la gente, mal sicura, o non pratica, di cui si serviva per amministrare, era già costretta a mettere in opera ripieghi.



Il principe, sulle prime, avea chiesto qualche congedo: ma, da due anni, non era più tornato a Napoli.



Enrica si faceva vedere spesso alla Corte: il Re le parlava molto familiarmente: un ufficiale delle guardie reali, appartenente all’aristocrazia napoletana, pranzando un giorno in campagna, nella villa di sua sorella, maritata al conte di L...., eccitato un po’ dal vino, dal buon pranzo, avea confidato alla contessa d’aver veduto uscire una mattina di buon ora la principessa di Caprenne dagli appartamenti del Re, vestita come una semplice modista, e il Re stesso le avea aperto la porta di una scaletta segreta.



L’ufficiale si pentì presto di ciò ch’avea detto, tanto più che la donna da lui vista fosse la principessa non era ben sicuro: tornò alla sorella, la supplicò non ne parlasse ad alcuno: essa gli giurò di tenere il silenzio, ma disse il fatto soltanto a una sua cognata, che lo riferì soltanto a sua suocera: la duchessa d’I., che non potè stare senz’informarne alcune delle sue vecchie conoscenze.



La notizia corse dai salotti nelle anticamere, dalle anticamere nelle botteghe: in breve, volò sul labbro di tutti.



Si dipingeva il principe per un marito compiacente: un uomo nullo, ma ambizioso, assetato di onori: che abbandonava la propria moglie perchè ella potesse dar prova di devozione al Sovrano: ed egli avvantaggiarsene.



Così, per leggerezza della moglie, una taccia d’infamia si apponeva al nome del principe.



Egli avea i suoi difensori, ma più, com’abbiamo già detto, i suoi denigratori: gli emuli, gl’invidiosi: coloro, che son sempre avidi, magari per ozio, di sfruttare, propalare una calunnia.



Enrica diveniva così sempre più oggetto di curiosità. Per tutto ove andava, raddoppiava l’attenzione verso di lei: i suoi ricevimenti erano sempre più frequentati.



Ella sfoggiava un lusso, da anni, si diceva, non veduto in Napoli: gareggiava con la Sovrana. Avea attorno un nugolo di parassiti. La sua casa pareva una seconda Corte.



Senza attitudine ad amministrare, senza discernimento a scegliere chi dovea per lei curar i suoi affari, assottigliava il suo patrimonio in modo vistoso. Tra le rapine e le spese favolose, si trovava già, ripetiamo, molto imbarazzata.



A chi ricorrere?



Ella avea un giorno visitato la Banca del Weill-Myot: costui le avea fatto una mostra studiata e abbagliante delle sue ricchezze, della sua potenza commerciale.



Le avea fatto vedere in una cassaforte due milioni in oro, un milione in titoli.



Ciò indicava davvero la sua forza, il suo credito.



– Domani, – le avea detto, – questi denari non saranno più qui; fra otto giorni avranno fruttato una somma, da empir d’oro tutta questa cassetta....



E tirava a sè febbrilmente una gran cassetta, di ferro, profonda. Essa si richiuse con un cigolìo stridente.



Il Weill-Myot avea guidato la principessa ne’ suoi uffici ove fervea tanto lavoro: le avea spiegato minutamente qualcuna delle sue grandi combinazioni.



La principessa era uscita da quella visita inebriata: infatuata di quel desiderio dell’oro, che diventa, a poco a poco, irresistibile.



Enrica pensò, nella rovina da cui si sentiva incalzata, ricorrere al Weill-Myot.



Ella non lo amava: non avrebbe ceduto a’ suoi capricci: per questo avrebbe osato domandargli qualche cosa.



Gli parlò un giorno molto destramente de’ suoi imbarazzi.



L’allusione era velata, discreta, fatta con molto garbo e molta finezza, in mezzo a’ segni della più grande opulenza, poichè il banchiere era in visita dalla principessa e, girando gli occhi attorno a sè, vedea per tutto oggetti di molto prezzo e acquistati solo per mera fantasia: cinquantamila lire un quadro del Grenze: diciottomila una statuetta di bronzo, di cui era proibita la riproduzione.



Il banchiere capì subito l’allusione, benchè molto velata; e capì il profitto che potea trarne, in ispecie dopo ch’ebbe incoraggiato la principessa a parlargli aperto. Egli – le diceva – era suo servitore: felice di poter obbedir a un cenno di lei; metteva tutta la sua immensa fortuna a’ suoi piedi: ella ne disponesse come voleva.

 



La principessa, che non nutriva per quell’uomo se non una sincera amicizia, senz’alcuna mischianza di passione, si fece a parlargli liberamente come a un uomo d’affari.



Egli ascoltava attentissimo; intendeva tutto; vedeva dov’era il bene ed il male: cercava e trovava fra una parola e l’altra i provvedimenti: in pochi minuti comprendeva, scopriva ciò che la principessa non avea, e non avrebbe mai potuto capire.



E, intanto, egli tendeva le sue reti.



Avrebbe persuaso la principessa a entrare in speculazioni: le avrebbe fornito egli stesso tutto il denaro che le occorreva; le avrebbe fatto firmare obbligazioni: un bel giorno, per uscir dal viluppo in cui egli l’avrebbe destramente intricata (pur dandosi aria d’esserle d’aiuto), ella sarebbe stata costretta a gettarsi nelle sue braccia.



Così nulla sarebbe mancato al suo successo nel mondo, – si diceva l’uomo, senz’altra nobiltà che quella del denaro, – se avesse potuto avere per amante una principessa e giovane e bellissima.



La sera stessa uno de’segretari della Banca Weill-Myot si presentava alla principessa, e le rimetteva, contro regolare ricevuta, una somma enorme.



Nella sua spensieratezza, ella si vide liberata per lungo tempo da ogni molestia e in condizione da proseguire la sua solita allegrezza.



Intanto, da quella sera, a insaputa del principe, cui avrebbe potuto rivolgersi, ella diveniva debitrice della Banca Weill-Myot.



III

Dobbiamo tornare a occuparci di uno de’ nostri personaggi: il marchese Piero di Trapani; non abbiamo più parlato di lui, dacchè egli ebbe finito il suo colloquio con Marco, fra le rovine del casolare presso il parco di Mondrone, dopo il ratto della bambina.



Marco era entrato al servizio del marchese di Trapani: sempre tutto abbigliato di nero, in cravatta bianca, calzoni corti, era irriconoscibile per chi lo vedeva nel palazzo. Solenne, severo, impartiva ordini a tutti gli altri servitori e anche al padrone, su cui aveva un’assoluta autorità: poichè egli possedeva sempre la lettera del dottor Krag.



Quest’uomo misterioso e sinistro era il vero marchese di Trapani.



Non parlava mai con gli altri servitori, se non per dar loro comandi: mangiava solo: nelle ore di riposo lo vedevano seduto nel giardino, nei vestiboli, o nelle anticamere, sempre dove era facile qualcuno passasse, con un libro di preghiere in mano.



Andava con molta assiduità alla chiesa: usava larghezza nel far elemosine: i giorni di vigilia l’ex-galeotto si facea servir un pranzo, tutto magro, e ne rimandava in cucina più della metà; non bevea vino, per non rompere, egli dicea, l’astinenza: tanto era scrupoloso. I preti della parrocchia lo salutavano con un certo riguardo: si tenevano quasi di parlare con un uomo sì grave e di tanta virtù.



Il vecchio uomo riappariva soltanto ne’ colloqui che Marco avea col padrone.



Quando il marchese Piero meno se l’aspettava, lo vedeva comparir nella sua camera, nel suo salotto, pian piano, come se, in apparenza, temesse disturbarlo; e subito faceva domanda di grosse somme.



Costui operava verso il marchese Piero come Cristina verso la principessa.



Le due ricchissime parenti della defunta marchesa non si mostravan disposte a morire: passavano al marchese cospicui assegni, in riguardo della figliuola: assegni, che non erano sufficienti a quell’uomo vizioso: e che avea già sperperato tesori. Le eredità si faceano troppo aspettare.



Come la principessa, il marchese s’impazientiva dei continui ricatti; volea irritarsi contro sì forti estorsioni.



L’altro ripicchiava:



– Non rammentate ciò che mi diceste la sera in cui rapivo la fanciulla, e la ponevo nel letto, accanto al cadavere di vostra moglie?… Non mi avete voi… detto ch’io vi salvavo l’onore, la vita?… E oggi, da che traete i lauti assegni, che vi danno modo di menar sì buona vita? se non dall’atto che io ebbi l’intelligenza, l’audacia, la premura di compiere in vostro favore?… Sono io, e non altri che io, l’autore di tutta questa prosperità che vi circonda.... E oggi, se voi pensate a innalzarvi, a chi lo dovete? Alla fanciulla, che io vi ho procurato.... Voi.... parliamoci franchi.... poichè le reticenze sono tra noi inutili.... e ci leggiamo l’un l’altro nell’animo, e siamo sì degni di comprenderci, voi vi preparate a speculare sulla grande bellezza della figliuola.... Alla Corte, lo so, si parla già molto di lei: si racconta sommesso ch’ella possa succedere all’attuale favorita.... bellissima sempre, ma un po’ matura.... Il Re ha inviato alla vostra figliuola un vezzo di perle per l’onomastico di lei. E il fatto è un po’ insolito.... Tutta Napoli conosce l’avarizia del Re.... Voi non m’avete detto nulla: avreste voluto che un tal fatto rimanesse un mistero per me....



Tali cose aggiungeva un giorno a’ soliti rabbuffi ond’era avvezzo a torturare il marchese. E in quel giorno, appunto, proseguiva:



– Siete stato ispirato male.... Vi ricordate che io sono vostro associato: rammentate la nostra ditta: Marchese Piero di Trapani e Marco Alboni.... Voi non potete, non dovete stipulare nessun affare senza di me.... Non solo io debbo partecipare agli utili, ma voglio esser informato dei rischi.... E qui vi sono....



– Che rischi? – domandò il marchese, che poi, in fondo, riconoscea Marco un’autorità nel saper condurre a bene una bricconata.



– Che rischi?… Vero o no che sia, si dice in tutta Napoli che la ben accetta al Re è la principessa di Caprenne.... E quella donna deve aver un’arte somma per incatenare a sè chi l’ama: deve aver segreti, tutti suoi, per piacere.... Io non voglio dire che ella sia la favorita: non bisogna basar un affare sull’incertezza.... Ma, senza dubbio, ella ha nell’animo del Re predominanza.... Che si presenti una rivale, più giovane, e bella, la principessa, che è focosissima, si porrà subito contro di lei e contro di voi.... La principessa è capace d’ogni vendetta: anche di percuoter la giovane in pubblico, se fosse eccitata all’estremo.... il Re, disgustato, si ritirerebbe allora da un’avventura, che potrebbe arrecargli troppe molestie....



La porta della stanza fu aperta, senza che alcuno avesse bussato, e comparve una giovane di alta statura, di una incantevole grazia, una figura veramente ideale.



– Diana! – disse il marchese, alzandosi e andandole incontro.



E le dette un freddo bacio sulla fronte.



L’altra corrispose con un bacio anche più freddo.



Diana era in abito da passeggio.



– Babbo, – gli disse, senza l’affetto che i buoni figliuoli sanno metter di solito in tale parola, – vado a far visita alla principessa di Caprenne.... È oggi il suo giorno.



Diana era accompagnata da una signora di oltre quarant’anni, parente del marchese, sprovveduta d’ogni mezzo e d’ogni scrupolo: allegra. S’imbellettava, si azzimava con la massima cura: avea sempre studio di allettare: era pretenziosa.



Tal donna avea dato il marchese per compagna e maestra alla giovane, che chiamava sua figliuola.



– Va’, va’ dalla principessa, – rispose il marchese alla ragazza, – va’, e, fra non molto, io stesso verrò a riprenderti.... Saluta intanto la principessa....



Enrica in quel giorno riceveva: una sessantina di signore, e altrettanti gentiluomini, e forse più, l’aveano per varie ore costretta a quella tensione, a cui una padrona di casa deve sottoporsi per saper interrogare tutti, rispondere a tutti, ascoltar tutti, per andare dall’uno all’altro: per dir a tutti la cosa più grata, o più pungente, secondo l’intenzione. Molte donne non resistono a questa fatica, più grave che non si pensi. E, alla fine di certe giornate, si sentono spossate come un capitano la sera dopo una grande battaglia.



All’obbligo di parlare, di muoversi, di indovinare, di confutare le malizie delle amiche, di impedire che esse vi strappino dal labbro più di quello che vi piace far sapere su certi vostri atti, è da aggiungere il dovere di star stecchite, impettite, a disagio, in un abbigliamento di cerimonia.



Ma la principessa avea una salute di ferro: e resisteva felicemente a ben altre fatiche.



Diana arrivò al palazzo Gorreso, che era già tardi: verso le sei della sera. Le visitatrici, i visitatori aveano lasciato in pace la principessa.



Il cicaleccio era cessato in que’ salotti, ove aveano echeggiato, poco prima, le voci più armoniose, più melodiose, nel conversare, che avesse Napoli.



Diana fu lasciata sola alla porta del palazzo dalla signora che l’accompagnava e che le allegò di dover fare molte piccole commissioni: sarebbe tornata a prenderla fra un’ora. Un giovinottino di vent’anni, del quale ella faceva l’educazione, l’aspettava in un luogo convenuto. Essa era tutta palpitante, impaziente d’arrivare. Anche senza il belletto, l’impazienza avrebbe colorito di rosso le sue guancie paffutelle.



Diana entrò nel salotto della principessa: la trovò sola con un giovane elegantissimo: Adolfo Venosa, di famiglia molto agiata e che avea impreso per amor della scienza lunghi, difficoltosi viaggi in regioni inesplorate, facendo, in sì fresca età, noto il suo nome a tutti gli scienziati.



Nella società napoletana il Venosa era ben veduto e apprezzato per il suo ingegno, il suo amore della coltura, per la serietà, la modestia, la vigoria del carattere.



D’impeti generosi, era quasi un fanciullo nelle cose del mondo, poichè toccava i vent’anni e gli aveva trascorsi, dalla prima età, nello studio e nelle imprese arrischiate.



Avea conosciuto Diana mentr’ella era nel convento di Santa Chiara, ove era pure la sorella di lui.



Quando Diana uscì dal convento, e Adolfo la rivide, i due giovani parlarono insieme d’amore: Adolfo, con tale gentilezza d’animo, Diana, con un sentimento sì squisito e sì casto, che tutt’e due si trovarono affini a segno, da non dubitar più, come si dice in tali congiunture, che Dio li avesse destinati l’una all’altro.



Diana avea capito che il marchese di Trapani non vedea di buon occhio questo amore; nella onestà, nel carattere franco, leale di Adolfo, egli scorgea tante accuse a sè stesso: sentiva per lui una repulsione: mentre Diana e Adolfo si sentiano attirati l’un verso l’altra, appunto in forza della loro virtù, il marchese si sentiva ripugnante, alieno da Adolfo, inclinato ad allontanarsene: tutt’e due erano, ciascuno, all’opposto polo nel mondo morale.



Adolfo si era accorto della antipatia che ispirava al marchese, nè a Diana era sfuggita la ripugnanza di colui, che ella chiamava padre, verso il giovane che essa amava con tutte le forze dell’anima sua.



Però tenevano nascosto più che poteano il loro amore, ma già molti e molte se ne occupavano.



Quando entrò nel salotto della principessa e vide Adolfo in intimo colloquio con essa: le poltrone su cui eran seduti quasi si toccavano: Diana impallidì.



La principessa era di quelle donne che ispirano sempre alle altre una forte gelosia. Le donne, che sanno sì ben giudicare quali sieno i più irresistibili mezzi di seduzione, li riconoscono subito in chi li possiede.



Al rumore che fece Diana entrando, poichè il servitore L’avea accompagnata fin nell’attiguo salotto, aprendo l’uscio, e ciò avrebbe dovuto assicurarla sull’indole del colloquio fra Adolfo e la principessa, Enrica si voltò; e veduta Diana, dette in una risata argentina.



S’alzò di scatto per correrle incontro. Voleva dirle, come sempre, alcune di quelle parole con cui solea vezzeggiarla: angiolo mio; mia bellezza, figliuolina cara.... arrivava sino a chiamarla così, inconsapevole; ma si ritrasse subito al veder Diana sì pallida e sì vacillante.



Anche Adolfo si era subito alzato.



Diana, ritta in mezzo alla stanza, li guardava: un po’ come si guardan due esseri di cui si ha paura, mentre pur si amano e se ne vogliono scrutare i veri intendimenti: un po’ come un giudice, che esamina due, reputati colpevoli.



La principessa non sapea spiegarsi il terrore che si andava dipingendo sul volto di Diana: vedeva che ella era in preda a una grande sofferenza.



– Ma che hai?… che hai?… – le domandò correndole incontro, e cuoprendola di baci.



Diana avea scorto su un tavolino una lettera, il cui indirizzo alla principessa era scritto da Adolfo.



Essi erano, dunque, in corrispondenza fra loro?



Nella sua passione, quasi infantile, poichè Diana varcava di poco i sedici anni, essa, appoggiando la testa al seno della principessa, dette in uno scoppio di pianto.



Cercava, a studio, sfuggire gli sguardi del giovane.



La principessa si sentì veramente commossa.

 



Ella nutriva per quella fanciulla un affetto insolito, che non avea mai provato per alcuno: un affetto di una nuova specie.



Era tanto lieta, quando potea stringerla al suo seno: quando la guardava, la udiva parlare, si sentiva come scender nell’animo un influsso buono, che la consolava.



Da qualche tempo, conduceva spesso con sè Diana nella sua carrozza, al teatro, l’invitava talora a passare da lei intere giornate: giornate che alla principessa trascorrevano in una placidezza, in una contentezza indicibile.



Anche Diana voleva bene alla principessa: la credeva perfetta: le sembrava che tutti la dovessero amare, tanto era bella, affabile, seducente: un uomo solo non avrebbe ella voluto che la amasse.



Il marchese di Trapani, assiduo fra i parassiti che circondavano la principessa, avea voluto, o agevolato quella intimità.



Enrica avea presentato la figlia del marchese alla Corte, ove era stata benissimo accolta. I sovrani la trattavano familiarmente.



E la principessa le dava spesso consigli sul modo di diportarsi: ma tutto andava perduto: Diana era candidissima, non ostante che vivesse fra gente sì trista, era di quelle nature a cui sembra che il male morale, tanto son di buona tempra, non possa appiccarsi.



La principessa avea fatto seder la ragazza su un sofà, e chinandosi su di lei, carezzandole la fronte, tutta premurosa, e tutta ansiosa, ripeteva:



– Che hai, angioletto mio? Vuoi venire nella mia camera?… Ti coricherò: ti assisterò io.



A quelle parole Diana parve rasserenarsi.



Un’altra volta essa, trovandosi un po’ sofferente, era stata coricata per qualche ora nella camera della principessa. Ed è inesplicabile la felicità che ne avea risentito.



Ella nutriva per la principessa una simpatia vivissima: verso di lei la spingeva un’attrazione invincibile; rinchiusa nella camera di essa, si era data a toccare tutti gli oggetti, di cui la gentildonna si serviva; i pettini di tartaruga, le scatole d’argento, le fialette, a borchie d’oro, ov’erano le polveri, i profumi: avea fin baciato un accappatoio, che la principessa indossava allora, sovente, la mattina.



Un affetto misterioso, che non avea nulla di volgare, eccitava Diana ad amare la bella, elegante gentildonna.



– È così, – avea detto un giorno, – ch’io mi sono spesso figurata mia madre, che non ho mai conosciuto....



Il Venosa, mentre la principessa soccorreva Diana, era rimasto inoperoso. Che cosa egli poteva fare? Ritirarsi. E aspettava il momento opportuno.



Gli dispiaceva molto del malessere di Diana e non sapea spiegarsene il motivo. Al cospetto della principessa credea di cattivo gusto mostrare la intimità che univa l’animo suo a quello della giovane.



Non potea staccar gli occhi dal gruppo che avea dinanzi: le due bellissime donne, una sofferente, la testa appoggiata, gli stupendi capelli biondi sparsi sul cuscino d’un sofà in raso nero; l’altra curvata, tutta amorosa, su colei che soffriva.



Qual artista avrebbe potuto rendere un tal quadro, con tanta venustà di linee, con tanta vivacità di seduzione?



Per la prima volta, il Venosa, guardando le due teste di Enrica e di Diana, l’una sì presso all’altra, fu colpito dalla grande somiglianza di tratti eh’era in esse.



– Si direbbero due sorelle! – pensava fra sè: poichè la principessa si manteneva sì giovane, per la naturale freschezza, per l’arte che certe donne belle hanno di conservar que’ tesori che le rendon sì care.



A poco a poco, Diana si rinfrancò.



Era in lei nato un disegno: non volea che i due, lì presenti, e che ella tanto amava, subodorassero il motivo del suo conturbamento: era meglio si porgesse loro con volto sereno: così avrebbe il destro di sorvegliarli tranquillamente.



– Non so, – rispose a una domanda della principessa, – mi ha colto a un tratto questo malessere: nè riesco a spiegarmene neppur io la cagione.... ma ora sto bene.



E si gettò al collo della principessa per darle i due baci, che le dava, e ne riceveva, di solito, ogni volta che s’incontravano.



Era la prima simulazione, che essa commetteva, la prima volta che fingeva, dacchè era nata. Ma nelle donne anche più candide è sempre latente, sempre facile a prorompere il potere di simulare.



È la grandissima forza del sesso, che non accadrebbe di chiamar debole, secondo alcuni, eziandio se pur non avesse altra arma a nuocere, che questa terribile del mentire, ond’è formidabile.



Dopo ch’ebber fatto altri commenti sull’accaduto, intavolarono una briosa conversazione.



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