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La principessa romanzo

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– Povera principessa! – esclamò il marchese, entrato nel salotto ove Diana e il Venosa eran rimasti soli appena un secondo.

– Sì, povera Enrica! ella deve aver ricevuto un bel colpo da questo fatto.... L’ho capito al tono della sua voce, – rispose Diana.

I servitori entravano coi lumi.

La principessa, nella sua concitazione, aveva veduto illuminata la sala da pranzo e vi era entrata, facendo segno all’intendente, che la seguiva, di richiuder la porta. Un’altra porta, di rimpetto, era chiusa.

Enrica si accasciò su una sedia e disse all’intendente:

– Continuate!

– Poco ho da aggiungere a V. E. Il nominato Ciccillo Jannacone, da qualche tempo, era pazzo. Avea, da molto, lasciato il suo lavoro, e girava sempre intorno al parco: si recava spesso, sopra tutto di notte, alla casetta ove avea passato tanti anni: e vi è stato visto più volte, seduto sugli scalini della porta.... Un contadino l’ha veduto arrampicarsi al muro e baciar più volte il davanzale della finestra della camera, già abitata dal suo figliuolo. In breve, Ciccillo Jannacone tre settimane or sono entrò nel parco e vi è rimasto, nutrendosi non si sa come.... Non si sa ove passasse le notti.... si vedea talvolta sgattaiolare fra gli alberi, nella foresta, come un animale inseguito, si perdeva d’occhio....

Era lacero, scarmigliato, e avea varie ferite.... I cani del castello l’aveano un giorno addentato. Stamani, io, per il primo, ho esaminato il corpo del vecchio per accertarmi s’egli era morto; assicuro V. E. che quel corpo era sì straziato dai denti degli animali, dalle punture degl’insetti nocivi, forse dai rovi che il vecchio nella sua demenza non sapeva scansare, dalle stesse intemperie, ch’io ho detto, se non si fosse impiccato, avremmo trovato uno di questi giorni Ciccillo morto lungo la strada della foresta.... E debbo aggiungere un particolare a V. E. Sembra che il povero Ciccillo non avesse idea di uccidersi.... Il casiere del castello dice che stanotte ha udito dare varii colpi sull’uscio, ma ha creduto fosse il vento che smuoveva i battenti. Certo il fragore, lo scrosciare dell’uragano ne attuavano i colpi.... Si crede fosse l’infelice Ciccillo, il quale, non potendo più sostenere la crudezza della tempesta, fosse venuto a chieder asilo, soccorso.... Chi sa.... può darsi.... Tutti piangono la morte del vecchio: tutti maledicono al figliuolo assassino, causa di tanta desolazione.

L’intendente, come ligio alla casa del duca, e fino allora anima dannata, cieco schiavo della duchessa, non era fra quelli che credevano all’innocenza di Roberto.

Egli singhiozzava.

La principessa era rimasta imperterrita.

Uscì alfine dalla sua gola come un ruggito: un che di terribile e di indistinto: crollò la testa, e i suoi belli e lunghi capelli si arruffarono un istante: non altrimenti un leone tien irta la criniera nel procinto di avventarsi ad alcuno.

– Siete licenziato dal mio servizio! – mormorò, per tutta risposta. – Dite qual rimunerazione volete, qual compenso vi spetta, ma desidero lasciate fra due giorni e, se si può, domani, il vostro posto.

L’intendente era trasecolato.

– E che, – continuò la principessa, alzandosi, – dovrò io tollerare quello che il principe, mio marito, non tollererebbe, se fosse qui?… Si abusa troppo di me, della mia bontà, lo so, – e fingea accento commosso. – Il parco di Mondrone è doventato un nido di scandali: scandali, che sono per noi spiacevolissimi! Vi avvenne un assassinio, anni or sono, – qui la voce della principessa tremava, e non per istudio. – Sarebbe accaduto, se una delle nostre guardie si fosse trovata lì? Non debbono esse vigilare nella foresta? E ora si lascia che, per settimane, un uomo erri, fuor di sè, nel parco: si lascia che i miei cani l’addentino, non si pensa.... non dico a scacciarlo.... ma a nutrirlo, a soccorrerlo, a persuaderlo di far meglio.... no.... no.... si aspetta che quest’uomo.... già pazzo.... commetta la più grande delle follie. E voi sapevate chi era quest’uomo. Il padre di uno che avea contaminato il nostro parco con un altro delitto!

La principessa era tutta impetuosa di collera, sublime: commediante perfetta, sapea valersi della passione, della forza che naturalmente erano in lei.

L’intendente allibiva: non sapea trovar parola da rispondere.

Egli aveva già contribuito a rovinare la principessa, con una mala amministrazione e con rapine: ma non gli pareva d’avere ancor fatto abbastanza.

Devoto alla principessa sino ad arrischiare per lei la vita, non le era stato mai devoto sino all’onestà. Bizzarrie che si danno: facile è trovar uomini che si affezionino altrui soltanto in proporzione dell’utile che ne ritraggono, e ciò non è poco, o da dispregiare: assai più sovente trovate chi vi spoglia e vi odia, vi vitupera, pel bene onde gli siete origine.

L’intendente facea atto d’inginocchiarsi dinanzi alla principessa, per supplicarla: ella, con un gesto rabbioso, gl’impedì di fornire quel movimento e gli accennò che uscisse.

Mentre l’intendente si ritirava, la principessa suonava il campanello, e accorse il maggiordomo.

– Ho licenziato l’intendente, – gli disse; – entro due giorni egli non deve esser più al castello. Gli sieno date tutte le indennità che chiede.... Accomodate voi tutto col mio procuratore.... Farete attaccare una carrozza e andrete a portar un mio biglietto al conte Guicciardi.

– Ma il pranzo, Eccellenza?

La principessa guardò la tavola apparecchiata per diciotto persone; e, fra tre quarti d’ora, gl’invitati doveano arrivare.

Ella avea tutto dimenticato, e non si era ancora abbigliata.

Quale contrasto fra la tavola, tutta splendente di fiori, di argenterie; i ricchi menus accomodati sul dorso di graziosissimi nani d’argento, dalla schiena ricurva: le piramidi di frutti canditi: la varietà dei bicchieri posti dinanzi a ogni convitato, e la tristissima sorte di Ciccillo Jannacone, freddo cadavere, penzolante alle intemperie nel bel parco di Mondrone!

La principessa avea posato sulla tovaglia, tutta tessuta di corone e d’iniziali, il plico, quasi lurido, lasciato da Ciccillo.

– Va bene, – aggiunse, rispondendo al maggiordomo, – mandate un altro.... Intanto, io vado a scrivere il biglietto che deve essere recapitato al conte....

Ella volea sapere qualche cosa sul suicidio del povero contadino; volea sapere che ne pensasse il giudice inquirente.

Si era rivolta, non senza un perchè, al conte Guicciardi.

Sapeva che, nel giudizio contro Roberto, egli le era stato un po’ avverso: volea conciliarselo: e col cercar sempre mezzo di vederlo, mostrare che ella non aveva alcuna ragione per temere di lui.

Non lasciava nulla d’intentato nel lottare a pro della sua salvezza.

In tutto il palazzo, dalle cucine, sotto il pianterreno, ove eran raccolti i servitori sino all’ultimo piano ove erano le cameriere, occupate a riordinare la guardaroba, si parlava del suicidio di Ciccillo Jannacone: e si rammentava il delitto commesso dal figliuolo di lui.

E su tali argomenti si parlava anche nel salotto, ove il marchese Piero, Diana e il Venosa aspettavano la principessa, nè si accorgeano del tempo che passava.

Diana stava attentissima: non perdeva una sillaba.

Il marchese Piero insisteva nel dire che la famiglia degli Jannacone avea voluto tribolare in ogni modo i duchi di Mondrone e la loro gente.

– Tutti noi, – continuava il marchese, – rammentiamo lo spavento che ebbero il duca ed Enrica, allora non maritata, e tutte le persone al loro servizio, quando il figlio di colui che la notte scorsa s’è impiccato, uccise il vostro cugino: il conte di Squirace!

Il Venosa sospirò.

– Mi duole – ripigliò il marchese – aver forse commesso un’indiscrezione, nel tornare su tali memorie.

– Oh, potete immaginare – replicò il Venosa – ch’appena quell’uomo pronunziò il casato Jannacone, già subito il mio pensiero corse al delitto, commesso nel parco sedici anni or sono, e al delinquente.... Volete vi dica tutto l’animo mio?… e anche a voi, Diana.... – seguitò il Venosa, con la sua voce simpatica, e strinse, nella sua eccitazione, la mano della fanciulla, – mio padre non credette mai che Roberto Jannacone avesse ucciso mio cugino.... Era sicuro che egli, incauto, avesse incontrato a caso la morte: e fosse caduto da sè nel precipizio, se pure non ve l’avesser gittato altri che quel Roberto.... E non per dire: voleva bene al suo nipote, al conte di Squirace, come ad un figliuolo.... Ne sapeva i difetti, ma li scusava, – secondo ripeteva, – perchè erano conseguenza più della sua educazione che d’un’indole cattiva.... La sua morte, così repentina, così tragica, lo colpì tanto ch’ebbe una lunga malattia.... Egli volle parlare col supposto assassino....

– Supposto? – interruppe il marchese.

– Vi dirò....

– Ma io non so nulla del fatto, – esclamò Diana. – Datemi qualche ragguaglio.

Il Venosa le raccontò con molta commozione l’assassinio del conte di Squirace nel modo si credeva, generalmente, fosse avvenuto e ch’egli stesso, cresciuto in età, avea udito raccontare più volte nella sua famiglia.

– Mio cugino, figuratevi, – aggiungeva Adolfo, – era un bel giovane, elegante, uno di quei giovani che non si curano d’altro, se non di far una vita allegra… almeno essi la chiaman così… era conosciuto da tutta Napoli....

– E l’assassino? – chiese Diana, ben lungi dall’immaginare in quale stretta, sin allora ignota relazione, ella fosse con lui.

– L’assassino, anch’egli un bellissimo giovane, e di più… un valoroso. Avea compiuto atti eroici; avea salvato la vita, e le ricchezze a molti; uscito da una condizione oscura, si era inalzato, si era fatto amare per la sua virtù....

Diana piangeva.

– O come mai, – ella disse, – questo giovane sì bravo, sì buono, potè assassinare vostro cugino?

– Ecco il gran punto… cara Diana, – esclamò il Venosa, e la voce gli tremava. – Mio padre, ripeto, nutriva l’assoluta convinzione che costui non avesse assassinato il conte.

 

– È strano che Giacinto Venosa… vostro padre… ch’io ho ben conosciuto, potesse pensare che un uomo, senz’alcuna colpa, sia per anni e anni sottoposto alle più atroci sofferenze, chiuso in una prigione.

– Fu questo un segreto martirio della sua vita… ed è per ciò appunto che or ora io ho sospirato.... Chiamatomi a sè, durante la sua lunga malattia, un giorno ch’egli avea potuto alzarsi e la poltrona su cui si adagiava era stata spinta nel giardino, fra quelle piante, che gli piaceva tanto di rivedere, mi disse: – Ti ho già parlato più volte di quel giovinetto che deve esser ormai un uomo maturo… forse un vecchio per i patimenti del carcere.... Egli non è un assassino: è una vittima.... Sono sicuro che il conte di Squirace non avea mai avuto alcun rapporto con lui.... Sento impossibile una causa di rancore fra loro. Quando la nostra famiglia volle costituirsi parte civile, io mi opposi, come potevo, senza urtare certi legittimi sentimenti, poichè non avea nulla, se non la mia opinione, da metter a contrasto con certi gravi indizi.... L’animo mi diceva che un avvocato accusatore sarebbe stato una nuova e valida forza a intorbidare quella causa, a impedire, contro un infelice che si scoprisse il vero!

E prendendomi per mano, – continuava il Venosa, – il mio vecchio padre mi affermò ch’egli avea lavorato molto, pensato molto, dacchè il giovane era in prigione, allo scopo di porne in luce l’innocenza.... Che era già su una traccia… che non volea confidarmi nulla, poichè si trattava di meri sospetti; e, sentendosi vicino alla sua fine, non voleva lasciar la vita, accusando e forse calunniando taluno. Ma, – mi disse, – tu, figliuolo mio, promettimi che ti adopererai allo stesso scopo, in cui mi sono io adoperato indarno; al trionfo di un innocente....

– Ma che contegno tenne il giovane accusato durante il processo? – domandò Diana trepidante e che, nel suo carattere, si commovea, come sempre, per ogni motivo generoso.

– Un contegno nobilissimo, – rispose l’amante di Diana, – a quanto diceva mio padre: evitò di scolparsi: cercò ogni modo di aggravare la sua posizione: pareva dicesse: sbrigatevi a condannarmi, ho fretta di uscire dalla tortura delle vostre domande per timore che mi sfugga una parola compromettente.... Compromettente per chi? Questo, diceva mio padre, era il segreto del suo riserbo; e mio padre aggiungeva che tutto il mistero di tal affare dovea essere in mano d’una donna.

– Ma la testimonianza della principessa? – osservò il marchese.

– Oh… – rispose il Venosa, agitando in aria un braccio, – mio padre si meravigliò sempre, e lo disse nei crocchi, che i giudici annettessero tanta importanza a una tale deposizione… si tratta, egli diceva, di una fanciulla, paurosa, che ha veduto un uomo cadere nel precipizio… I ragguagli, da lei dati, sono molto incompiuti.... Nella età, nella condizione di salute in cui era, può darsi ella abbia asserito di aver veduto ciò che non ha mai veduto, ciò che forse le è apparso, come un’illusione destata dall’eccitamento de’ suoi nervi.... Mio padre avea studiato legge, e profondamente, nella sua gioventù: che questo Jannacone fosse innocente, era una sua idea fissa.

Poco prima di morire mi disse di nuovo:

– Quel giovinetto era soldato, e valoroso.... Egli ha taciuto, si è immolato per una donna.... Tu devi cercare questa donna, che è forse fra le tue conoscenze: impadronirti del suo segreto: costringerla a far rendere la libertà, l’onore a un innocente. Ah fossi stato io giovane come te: sarei riuscito: e già sento che ero vicino a riuscirvi.... Però non posso dirti altro....

Tale fu l’ultimo colloquio che ebbi con mio padre su questo argomento.

Cercare la donna – ecco il punto ove dovea volger le mire – la donna che avea spinto quel giovane innocente nel carcere per tutta la vita.

– Non avrei creduto mai che Giacinto potesse nutrir tali fantasie! – esclamò il marchese, in tono di compassione.

– Io, – rispose Adolfo, – che ebbi per mio padre l’affetto più sviscerato, e ne venero la memoria, non potei partecipar mai sinceramente a queste sue convinzioni.... Mi mancò sin ora l’animo, e forse il tempo, per i miei studii, di farmi nella società l’avvocato dell’assassino di mio cugino....

– Del supposto assassino, come diceva vostro padre, – interruppe Diana.

– Ecco Diana… testolina esaltata, – esclamò il marchese, – ella ormai simpatizza col prigioniero....

– Sicuro, – rispose Diana. – Chi soffre ha sempre la mia simpatia… E quell’infelice non avea una moglie, una figlia?…

– No, egli non avea se non il padre: uomo rispettabilissimo, cattolico fervente, il cui suicidio, appunto per le idee religiose da lui professate con tanto zelo, deve aver molto turbato i suoi amici e compagni.... Mio padre dicea sempre di lui: è una grand’anima....

Diana rifletteva a questo vecchio cristiano, spinto dalla follìa, cagionata dal dolore, al suicidio: rifletteva a quel giovane valoroso, stimato, condannato a un tratto come assassino, per un fatto inesplicabile.

Le sue simpatie crescevano per questa famiglia di sventurati: uno de’ quali sceso con violenza nel sepolcro: l’altro chiuso vivo in una tomba d’altra specie.

– C’è qualche cosa d’incomprensibile, – disse, – di straziante nella sorte che perseguita questa famiglia. Il padre è lasciato solo, senza cure, senza conforti, a errare nei boschi, non trova pace altro che nel suicidio; ed è un uomo che tutti dicono virtuoso, esemplare: il figlio è condannato, senza che si difenda… e da uomini ragguardevoli, com’era vostro padre, è creduto innocente.... L’opinione di vostro padre ha per me maggior peso della vostra, – disse Diana, bellissima nella sua indignazione, volgendosi al Venosa. – S’io avessi conosciuto quel vecchio, che s’è tolta la vita in modo sì strano, lo avrei aiutato a vivere, soccorso, consolato; accetto io l’incarico, che a voi affidava vostro padre.... Una donna vi darà l’esempio che certe debolezze sono intempestive.... Bisogna, mio caro amico, saper lottare per chi soffre: bisogna saper inchinarsi verso gl’infelici: bisogna, sopra tutto, saper vincere con energia certi pregiudizi, certi egoismi, che ci rendon cattivi....

Il marchese sorrideva di quell’entusiasmo: egli non era uomo che potesse comprenderlo.

Diana, in un istante, credeva esser guarita dalle sue gelosie verso la principessa e il Venosa: paragonava grandi dolori, de’ quali avea udito parlare, con certi suoi risentimenti; e questi ultimi le parevano inezie.

Dopo un breve silenzio, ella disse a Adolfo:

– Non voglio esser sola nel far un’opera buona: voi mi aiuterete a compiere ciò che vostro padre desiderava: a provare, se è possibile, l’innocenza di Roberto Jannacone.... Mi sembra quasi appartenere alla sua famiglia, aver un dovere di amarlo, di proteggerlo, dopo ciò che ho udito di lui....

– Diana! Diana! – interruppe il marchese, – tu non conosci misura: ti esalti per il più strano motivo.... Il nostro modo di sentire è sempre così diverso!

La fanciulla, senza badare a quella interruzione, e come seguendo sempre un suo pensiero, continuò:

– E troveremo la donna, se c’è, che ha cagionato la rovina di questi disgraziati....

In quel punto entrò la principessa.

Il Venosa si alzò per andarle incontro, e metter fine alla importuna conversazione.

Egli aveva per la principessa una devozione senza pari, e tutto avrebbe fatto pur di risparmiarle un disturbo.

Ma Diana, che non conosceva malizie, avvicinandosi alla principessa: – Qui si parlava, – le disse, – del caso di quel pover uomo che s’è impiccato la notte scorsa, e della prigionia del suo figliuolo.... Non te l’avrai per male? Io mi voglio accingere a provare, se è possibile, l’innocenza di quel prigioniero; a metter in chiaro che tutti i guai avvenuti, e di cui tu pur soffri stasera, si debbono all’influsso di una creatura malvagia, che scopriremo.... Vuoi anche tu aiutarmi a scoprirla?

– Ben volentieri! – rispose la principessa; col suo più maligno sorriso.

– C’è chi crede, – insistè Diana con la crudeltà della inesperienza, – che tu stessa nelle tue testimonianze ti sia lasciata ispirare da allucinazioni, e tu abbia detto quello che la paura ti faceva vedere anzi che quello che tu avevi veduto; se pure eri in condizione di poter ben vedere i ragguagli d’una tale scena.

La principessa avea un grande dominio sopra di sè; pure riuscì a stento a simulare l’acuto dolore che le procuravano le parole di Diana.

Per la prima volta, qualcuno, al suo cospetto, osava metter in dubbio, discutere la sua deposizione nel famoso processo.

– Ah… tu sei una bambina, – le disse amorevolmente la principessa, – e spieghi molto zelo in cose, che spesso non lo meritano… probabilmente, tu non fai se non ripetere ciò che ti fu detto da qualche malvagio, e credi sia vero nella tua semplicità....

Il marchese redarguì Diana aspramente: si dolse di non aver alcun impero sull’animo della figliuola. Non voleva, per nulla al mondo, la principessa sospettasse ch’egli l’avesse sobillata,

Il Venosa rimase male; non ebbe il coraggio di fiatare. La principessa non volea ferir lui, ma il colpo lo investiva.

Enrica raccontò che avea licenziato l’intendente: e prese una sfuriata, parlando della negligenza della sua gente cui si doveva la morte del vecchio; gente barbara, essa diceva, idiota, senza costume.

– Avevo conosciuto, da bambina, quel povero vecchio!

E le lacrime, le sue solite lacrime, la soccorsero. Vi aggiunse un po’ di tremito; il preludio d’una convulsione.

Diana le cinse la vita con un braccio per soccorrerla; le loro labbra s’incontrarono: e si baciarono.

Poco dopo, la principessa era sola nella sua camera e finiva di abbigliarsi per il pranzo. Ravviava le pieghe del suo abito color di rosa, dinanzi allo specchio. Ma, a un tratto, uscì dalla camera quasi di corsa. Le pareva di veder, a ogni istante, dinanzi a sè il gramo corpo di Ciccillo, pendente dall’inferriata, e la faccia pallida di Roberto, esprimente la disperazione.

Arrivarono gl’invitati; nessuno di loro sapeva nulla del tristissimo fatto avvenuto a Mondrone. La principessa li accolse tutti con la solita affabilità.

Finito il pranzo, addusse in iscusa che era indisposta e si ritirò subito nelle sue stanze.

Il conte Guicciardi, il giovane magistrato, a cui aveva scritto, le veniva a far visita, in ora assai tarda.

Egli la studiava!

L’allegra parente del marchese di Trapani, che, di solito, accompagnava Diana, giunse a prenderla a casa della principessa nel punto in cui la fanciulla ne usciva, insieme col Venosa e col marchese Piero.

– Arrivate sempre tardi! – le disse il marchese.

– Oh se sapeste, – rispose, – quante cose ho fatto in questo tempo. – E ne avea fatte davvero.

Il marchese sorrideva: si compiaceva di quella corruzione, poichè immaginava qualche galante scappatella della cugina.

– La vostra pettinatura, – le disse, – è molto disfatta!

E, a un’indicazione del marchese; gli protendeva il suo collo grasso e bianco, e che era stato in altri tempi bellissimo, affinchè egli vi accomodasse alcuni riccioli.

Dall’altro lato della strada era il giovinottino di vent’anni. La donna matura l’avea condotto con sè nella carrozza del marchese, dopo il loro convegno, ed egli la guardava, beandosi.

Avea alla cravatta uno spillo, che essa gli avea poco prima donato, in segno della sua alta soddisfazione pel profitto nelle lezioni che da lei gli erano date.

Fra tali pericoli cresceva immacolato il candidissimo fiore della innocenza di Diana: il Venosa stesso però non si spaventava; conoscendone l’illibato, forte carattere, della corruttela ond’era attorniata e dalla quale sperava toglierla presto.

Ma il marchese non voleva, come sa il lettore, tale unione: e Diana stessa avea provato verso il Venosa le punture della gelosia, della diffidenza.

L’acerbo sentimento, per un poco attutito, dovea presto risvegliarsi.

La principessa, col suo furore di vanità, era destinata a contristare anche il cuore di Diana: a disputare ad essa come avea fatto ad altre il suo unico amore.

Chi le avrebbe detto ch’ogni legge di natura vi si opponeva?

In casa del marchese quella sera, durante il pranzo, fu parlato del fatto di Ciccillo Jannacone.

La signora Teodora, così si chiamava la parente del marchese, si commosse tutta.

Furon ricordate, con ogni ragguaglio, le due tragedie avvenute nel parco di Mondrone.

– Povero conte di Squirace! – esclamava la signora Teodora, – era un discreto giovinetto.... Ma l’altro: quello che fu condannato come assassino, che bell’uomo: un uomo come oggi se ne vedono pochi!… E che spalle!… Per me era innocente!

 

Il marchese crollava la testa.

– Oh, allora lo dicevano molti, – soggiunse la signora Teodora.: – Anche mio zio, che era un avvocato di molto grido....

Diana facea sempre qualche domanda intorno a Roberto Jannacone.

La sera ne riparlò con la signora Teodora, accompagnandola nella sua camera.

– Per me, – le diceva costei, – quel giovane non era colpevole.... Ho sempre desiderato che scappasse dalla sua prigione. Venisse qui, lo accoglierei a braccia aperte. Povero giovinetto! Eh che bel giovinetto! A tempo della condanna, pensai molto a lui, a tutti i ragguagli di quel processo.... Ora me n’ero, da anni e anni, dimenticata.... Però, un innocente, dover stare tanto tempo in prigione, dovervi morire… poichè il suo processo, fu detto, non ammettea revisione.... Ma che condizione terribile! Sentirsi senz’alcuna colpa, e dirsi: nessuno mi giustificherà mai, non potrò uscir mai di qui.... Speriamo che riesca a fuggire!

– Oh, vorrei poterlo aiutare io nella sua fuga! – esclamò Diana. – Povero prigioniero! non lo scorderò mai, d’ora in avanti, nelle mie preghiere!

Ella sentiva verso di lui una simpatia inesplicabile.

Già le pareva, per quella corrispondenza misteriosa che è tra certi cuori amanti, eziandio senza si conoscano, ch’egli aspettasse da lei il suo massimo conforto, e le tributasse un culto, nel quale il rispetto arrivava all’adorazione.

In quella notte ella pensò molto a Roberto, e i discorsi da lei uditi, poche ore prima, pinsero i suoi sogni di strane immagini.

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