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Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta

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Zoraide intanto tutta sollecita si dava da fare per soccorrere il suo liberatore con parole ed atti pieni di tenera amorevolezza, e slacciatogli l'elmo s'affannava a sfilargli il giaco di maglia: quando vi fu riuscita, nell'asciugargli la fronte e 'l collo dal sudor freddo che ne grondava, si accorse della ferita che avea toccata poco sotto il collarino della camicia.

– Ohimè! sei ferito! – gridò; e tosto con un panno tergendo il poco sangue che era uscito, e che, nascondendo la ferita, la facea parer maggiore, si racquetava vedendola così leggera e diceva:

– Oh non è nulla! è una scalfittura; – ma riguardando poi più attentamente col lume, vedeva intorno alla ferita formarsi come una rosa d'un rosso pavonazzo, ed osservando il viso di Fieramosca vi scorgeva negli occhi e sulle labbra nascere un certo livido, le mani e l'orecchie color di bossolo, fredde ed irrigidite. Per esser nata e vissuta in levante, avendo pratica di trattar ferite d'ogni specie, tosto le nasceva il sospetto che il pugnale fosse avvelenato. Pregava il giovane a porsi sul letto; e reggendolo, non senza fatica, riusciva a farvelo salire; tastandogli il polso lo sentiva batter lento lento e come imprigionato.

Ma le pene del corpo eran nulla per Fieramosca a petto delle idee angosciose che a mano a mano gli s'andavano moltiplicando, presentandosi alla sua mente sotto forme sempre nuove. I casi accaduti in quella sera, ed il pericolo di Ginevra non gli avean lasciato fin allora pensare ad altro che ad essa; ma come al condannato l'ultima notte della sua vita, se può aver qualche ora di sonno, nello svegliarsi gli piomba tutt'a un tratto sul cuore l'idea della morte imminente, nello stesso modo appena potè Fieramosca risentirsi dallo sbalordimento in cui era, gli sovvenne della sfida, del giuramento prestato di non esporsi a rischi di riportar ferite: pensò della vergogna che era per incontrare mancandovi, del dolore di non poter alzar la spada coi suoi compagni; dello scherno che farebbero i Francesi di lui, del perduto onore italiano; e queste immagini tutte insieme lo saettarono di tanta forza nella parte più sensibile del cuore, che tutti i muscoli del suo corpo si contrassero con un moto convulsivo, e gli uscì dal petto un sospiro così amaro, che Zoraide balzò in piedi sbigottita, domandandogliene la cagione. Ettore esclamava:

– Io son vituperato per sempre! La sfida, Zoraide, la sfida! (si batteva col pugno la fronte); mancano pochi giorni, e mi sento ridotto di qualità, che non potrei tornar gagliardo neppure in un mese. Oh Dio! per che gran peccato mi tocca questa sciagura? —

La giovane a queste parole non sapeva che rispondere, ma probabilmente più che alla battaglia pensava al presente pericolo di colui che tanto le stava nel cuore; pericolo che la sua esperienza le mostrava ogni tratto divenir più grave. A quel momento d'orgasmo avea con un subito passaggio tenuto dietro una specie di letargo: era caduto supino, la testa rovesciata sul guanciale, più pallido che mai; il batter delle vene del collo si mostrava convulse, e, guardando Zoraide la ferita, trovò il rosso attorno cresciuto quasi d'un dito.

Ed Ettore pur seguitava a dolersi, e diceva: – Ecco il campione dell'onore italiano! ecco il glorioso fine della battaglia, delle braverie e dei vanti che n'abbiamo menati! eppure in faccia a Dio, dov'è il mio delitto? potevo fare altrimenti che non ho fatto? —

Ma queste ragioni eran ben lungi dal recargli sollievo, e pensava:

– E a chi racconterò questa storia? a chi dirò le mie ragioni? ed anche dicendole non parrà vero ai nemici poter fingere di non crederle, e dire: Ettore immaginò queste ciance perchè avea paura di noi. —

Mentre con queste immaginazioni s'agitava la mente, il veleno pur troppo innestatogli dal pugnale di Don Michele faceva progressi serpendogli per le vene che si diramano sulla superficie del cranio, e a gradi a gradi si sentiva intorbidare la vista ed il lume dell'intelletto, con uno stiramento alle tempie pel quale gli pareva veder tutti gli oggetti prima traballare, poi dar volte sempre più rapide, sparse di punti lucidi che l'abbagliavano. Zoraide gli stava ritta accanto guardandolo tutta sgomentata e tremante, ed Ettore le teneva in viso gli occhi aperti e fissi. E con quella vacillazione di sensi, al debol chiarore del lumicino che andava morendo, vedeva progressivamente scomporsi le fattezze della giovane e i suoi lineamenti mutarsi in quelli di La Motta: questa larva stirando gli angoli della bocca formava un riso amaro e spaventevole; andava ingrossando e dilatando le labbra, e n'usciva la forma di Grajano d'Asti, che da piccolo a poco a poco cresceva, e spalancate anch'esso le fauci in egual modo, produceva la pallida sembianza del Valentino: così queste forme nascendo l'une dall'altre presentarono come una fantasmagoria di quei personaggi che dovevano a quell'ora star più spiccatamente dipinti nella mente dell'infermo. Fra l'altre venne anche l'immagine di Ginevra alla quale, chiamandola a nome con parole caldissime d'amore, diceva: Lasciarmi morir così! io che t'amai tanto! levami di questo pozzo… toglimi queste tarantole che mi strisciano sul viso… Ed altre tali vane parole. Al fine delle quali, tutte le figure che credeva scorgere, si vennero confondendo insieme, formarono dapprima una tinta unita, rossa e tremola come un lampeggiar prolungato, che poi oscurandosi e perdendosi gradatamente si estinse del tutto, quando le facoltà morali e corporee del giovane furono interamente sospese.

CAPITOLO DECIMOSESTO.

Per condurre di pari il racconto de' molti accidenti che accaddero separatamente in quella sera ai varj attori di questa storia, ci è convenuto lasciar il lettore sospeso sul conto di ciascuno; e quantunque sia questo il costume di molti narratori, non crediamo che riesca gradito quando il libro che si ha fra le mani è da tanto d'inspirar il desiderio di conoscere il fine. Non ci scuseremo presso il lettore d'aver seguìto un tal metodo, che del resto era indispensabile nel caso nostro: questa scusa sarebbe un atto di vanità che potrebbe far ridere alle nostre spalle; e la modestia, che in alcuni è una virtù, in molti è un tornaconto.

Comunque stia la cosa, dobbiamo abbandonar per poco anche Fieramosca; tornar alla rocca e trovar il Valenza che vi lasciammo nelle camerette basse guardanti la marina.

Il primo de' due fini pei quali s'era condotto all'esercito spagnuolo, malgrado la sua astuzia, gli era andato fallito; nè avea potuto infondere a Consalvo bastante fiducia per indurlo a far lega con esso lui, od almeno a spalleggiarlo. Lo Spagnuolo, serbandogli fede quanto al tenerlo celato, avea declinate le sue domande, accogliendolo poi del resto con quell'onore che, se non si doveva alle sue qualità, si credeva dovuto al suo grado. Nei sette o otto giorni che scorsero fra l'attaccarsi e lo sciogliersi di questa pratica, stette così quasi sempre chiuso nelle sue camere per non dar indizio di sè; e se qualche rara volta uscì a prender aria, fu di notte e colla maschera al viso, come in quel secolo s'usava fra gli uomini d'alto stato, e spesso per ajutare col segreto le poco lodevoli operazioni. Ma, come dicemmo, alle mire politiche s'univano macchinazioni contro quella che era stata ardita abbastanza per mostrargli sprezzo; e queste macchinazioni, mediante la destrezza di Don Michele, e secondo le sue promesse, dovevano in quella sera avere il loro effetto. Parrà forse difficile ad alcuno il concepire come quest'insigne ribaldo, rotto ad ogni sfrenatezza, potesse tanto stimare il possesso di una femmina, e seguirne con tanto studio la traccia. Ed in fatto sarebbe errore l'ammettere che l'amore, anche nel senso più abbietto, guidasse i desiderj del Valentino. Ma Ginevra aveva resistito, resistito mostrando sprezzo ed orrore per lui; viveva, a creder suo, felice con un altro; gli pareva rimanere al di sotto e schernito: e chi nell'universo doveva potersi vantare d'aver fatto stare Cesare Borgia?

Di quante donne aveva incontrate che avesser pregio di bellezza, tutte aveva lasciato o colpevoli od infelici; e ve n'era pur fra queste delle virtuose e dabbene, e di tali che strette per sangue ad uomini potenti dovevan tenersi sicure. Si poteva ora sopportare che una femminella poco nota e meno curata si facesse beffe a tal segno di lui che faceva tremare Italia da un capo all'altro?

A quest'ora però il Valentino si trovava presso a poter far le sue vendette, e diceva fra sè: il disagio d'essere stato in questa segreta me l'avrai da pagar caro! E per verità il soggiornare in camerucce simili ad una prigione, avvezzo com'era al vivere splendido della corte romana, doveva parergli duro, se a quell'uomo fosser mai parse dure cento privazioni per ottenere un suo fine. I modi tuttavia d'impiegare il tempo non gli erano mancati interamente. Oltre le ore che aveva dovuto passar con Consalvo, e quelle spese ad ordir con Don Michele la traccia di loro impresa, gli pervenivano pure di giorno in giorno dalla Romagna messi che spediti di colà da' suoi più fidati gli portavan lettere, carte, avvisi sugli affari correnti; giugnevano e ripartivano la notte, verificando in ogni cosa l'asserzione di Niccolò Machiavelli che, scrivendo al Comune di Firenze poco prima di quest'epoca, diceva: Di quante corti sono al mondo, quella ove più si serba il segreto è la corte del duca. E benchè non aggiungesse chiaramente il perchè, lasciava intendere che alle lingue imprudenti veniva imposto il silenzio dell'avello.

Questa corrispondenza si manteneva per mezzo di legni leggieri che, navigando terra terra dalla Romagna, s'appiattavano fra certi scogli a piè del Gargano; di là con una barchetta a notte chiusa giungeva il messo alla rocca, e dalle loro ciurme composte d'uomini scelti aveva Don Michele tolto i compagni che alla sua impresa gli bisognavano. In questa sera, mentre il castello era pieno di romori e di suoni, stava il Valentino seduto avanti ad una tavola al lume d'una lucerna, ripassando, per ingannar l'ore, molte carte che i corrieri dei giorni innanzi gli avevan recate. Era vestito d'una cappa riunita d'avanti da una fila di piccoli bottoni, col busto e le maniche di raso nero piuttosto strette, e sovr'esse molte strisce di velluto bianco volanti, e solo riunite al braccio in quattro luoghi da' cerchi del medesimo panno: presso il collarino della cappa tre o quattro bottoni aperti lasciavan vedere un giaco di finissima maglia d'acciajo che portava sempre di sotto: abito che fu dal duca usato sovente; e chi ha visitato in Roma la galleria Borghese si ricorderà d'avervi veduto il ritratto suo per mano di Raffaello, vestito in tal guisa. Malgrado la forza della sua complessione, era travagliato di tempo in tempo da un umore acre della specie degli erpeti, che ora gli serpeggiava latente pel sangue, ora si scopriva alla cute e sulla faccia specialmente, ed allora la livida pallidezza del suo volto si cangiava in un rosso spugnoso pieno di bolle, dalle quali stillava umore, e la schifosa deformità del suo viso era tale da metter ribrezzo anche nelle persone che di continuo gli stavano vicine; nè un'anima simile alla sua poteva vestirsi d'una forma che più ne facesse il ritratto. Per la vita sedentaria menata in quei giorni tanto contra il suo solito, e per virtù della primavera s'erano sprigionati quegli umori infetti con grandissima forza, deturpandogli più che mai i lineamenti, ed inducendo in tutto il suo essere una inesplicabile ed irrequieta rabbia, conseguenza ordinaria di tali malanni.

 

Verso le due ore, quando nelle sale al disopra stava cominciando il ballo, la porta della camera del duca fu spinta leggermente ed aperta da un uomo vestito di calzoni rosso-oscuri stretti alla carne, d'una cappa che gli giungeva a mezza coscia, con un cappuccio nero sugli occhi, spada, pugnale, ed un involto sotto braccio. Il Valentino alzò il viso; e colui entrando, e facendo riverenza, deponeva sulla tavola l'involto, senza che da nessuno dei due venisse profferita parola: messa il duca una mano sull'involto diceva al messo:

– Stanotte mi leverò di qui: va nell'ultima di queste camere, chiudiviti; e per cosa che ascolti, non venir se non ti chiamo. —

L'uomo uscì per la porta in faccia a quella dalla quale era entrato, e Cesare Borgia trattosi d'accanto un pugnaletto che radeva, tagliò i cordoni di seta vermiglia che coi sigilli apostolici legavano una lettera in carta pecora che gli scriveva papa Alessandro. Nell'aprirla uscì dell'interno rotolando sulla tavola un globetto d'oro; alla vista del quale il duca balzò in piedi con sospetto; e guardando più attentamente i sigilli e lo scritto, si veniva rassicurando e si riponeva a sedere.

Nè si voglia attribuire questo suo sbigottimento a timor panico: erano tanti i modi in quel secolo d'apprestar veleni, e persine di mandarli chiusi in lettere in forma che all'aprirle facessero immediatamente il loro effetto, che era perdonabile il duca se la vista d'un oggetto che non aspettava l'aveva colpito: e se v'era al mondo uomo che dovesse alla prima pensar al peggio, era esso sicuramente.

La lettera era scritta in una cifra della quale nessuno aveva la chiave fuorchè egli ed il papa; per la pratica fatta la lesse correntemente, e la sua sostanza era questa:

Il pontefice essere stato tentato dall'oratore del Cristianissimo onde fermasse con questo i patti d'una lega contra il re cattolico per ispogliarlo del reame: offrendo nell'istesso tempo d'unir le sue forze a quelle della Chiesa per l'impresa di Siena e degli Stati del Co. Giordano. Non aver però il papa creduto bene di scendere a questi accordi prima di sapere a che termini fosse la pratica attaccata dal Valentino con Consalvo.

Avere dalla madre e dall'amica del cardinale Orsino avuta una somma in denaro ed una perla di mirabil bellezza, trafugate entrambe dal palazzo di monte Giordano, quando era andato a sacco per ordine del papa dopo la morte del duca di Gravina, Vitellozzo e Liverotto da Fermo.

Volere che il duca tenesse le genti in pronto, onde alla morte del cardinale sopraddetto potesse andare a campo a Bracciano, ove gli Orsini e i loro consorti s'erano rannodati.

Per supplire poi alle spese che domandava l'esecuzione di tali disegni, avere stabilito il pontefice di dar il cappello a Gio. Castellar arcivescovo di Trani, a Franc. Remolino oratore del re d'Aragona, a Francesco Soderini di Volterra, a monsignor di Corneto segretario de' Brevi, e ad altri ricchi prelati, aspettando che il figlio tornasse a Roma per decidere quanto venisse bene di fare, onde impadronirsi de' loro tesori.

In ultimo diceva essere stato ammonito che in quell'anno studiasse guardarsi da un grave pericolo, e consigliato portasse indosso, a sua salvaguardia, un globetto d'oro con entrovi un oggetto di somma venerazione, simile a quello che si mandava al duca al medesimo effetto. 11

Quantunque i fatti accennati in questa lettera orribile, sieno pur troppo veri, e che il tradimento ordito contra il cardinale di Corneto specialmente, tornando in capo al papa, come ognun sa, sia stato cagione della sua morte, siamo stati in dubbio se dovessimo svelare tanto vituperio ai nostri lettori. Ma se Iddio, per fini impenetrabili, ha permesso che alcuno dei primi custodi delle cose più sante ne abusasse sì bruttamente, forse nocerebbe voler nasconder le sue iniquità, e ne riporteremmo taccia di parziali, e di cercar il trionfo della parte e non della verità, cui per reggersi non fa mestieri l'ajuto della doppiezza. I falli di papa Borgia, e di altri ministri della Chiesa saranno pesati sulle bilance incorruttibili dell'ira di Dio, e non è dato all'uomo antivederne i giudizi: ma dalle ceneri di quei pontefici, non meno che dalle tombe de' martiri, sorge una verità che ci mostra, non sull'oro, non sulle spade, nè sulle arti cortigianesche, ma sulle virtù evangeliche alzarsi e star gloriosa la croce di Cristo.

Al duca di Romagna, come si può immaginare nel leggere la lettera di suo padre, vennero in mente riflessioni molto diverse da queste. Volgendo alternativamente lo sguardo allo scritto ed alla palla d'oro che si faceva girar fra le dita, componeva il volto ad un sorriso nel quale appariva disprezzo per un verso (poichè non credeva nè in Dio nè in Santi), per l'altro una credulità timida e sospettosa, poichè avea fede nell'astrologia: tanto è vero che l'intelletto ha bisogno di veder un principio al di là del mondo corporeo. Se anche non avesse disposto di partir la stessa notte per Romagna, le cose contenute in quella lettera ve l'avrebbero indotto. Una trama che doveva saziar la sua ambizione e tanto impinguare i suoi forzieri era ben altra cosa che un vano impegno di femmine. Pensò che non poteva molto tardare a tornar Don Michele co' suoi; messosi perciò in seno la palla d'oro coll'atto non curante di chi dice, «sarà quel che sarà», si diede a metter insieme le carte ed altre cose che dovea portar seco.

In pochi minuti tutto fu all'ordine. Ritornò a sedere come prima; e per non saper che fare, si cavò di seno quella palla, cominciò a guardarla e riguardarla, e farsela cadere da una mano nell'altra pensando a ciò che conteneva, e a chi gliel'avea mandata; e poi via via da un'idea in un'altra, alla Religione di cui questi era capo, agli articoli di fede ch'esso pure avea creduti un tempo, al suo splendido stato, frutto della soggezione dei popoli all'autorità pontificia; e dopo avere schernita in cuore la credulità di tanti, e pensato «Io, a buon conto, me la godo alla barba di tutti», udiva una voce che uscendo cheta cheta di sotto quest'edificio di superbia, di violenza e d'irreligione, diceva «E se fosse vero?»

Il duca non volendo prestarle fede, nè potendo farla tacere, s'alzò con istizza, passeggiò per la camera, e fece alla meglio che potè per distarsi. Tutto inutile. Quel se fosse vero l'incalzava, infestandolo e togliendogli, se ardissi dirlo, il sapore degli onori, del potere, di tutti i beni che possedeva. Si buttò sul letto, cacciando il volto con rabbia fra i guanciali; e, dandosi del pazzo, riuscì poco a poco a calmarsi. Gli si fecer gravi le palpebre, le chiuse, s'addormentò.

Ma nel sonno il corso delle sue idee rimanendo nella medesima direzione, gli parve esser in Roma sulla strada che da castello va a San Pietro. Il cielo, la terra erano sconvolti; tutto diverso, tutto pieno di tenebre e d'urli. Egli si spingeva per correr in San Pietro, e non poteva, ed ansava affannato: gli parve d'esser tenuto, guardò intorno: erano tutti coloro che aveva traditi, assassinati, avvelenati, e l'avean pe' capelli e per le carni, con un gridar lungo e disperato.

Dopo, senza saper come, era in San Pietro, in un caos inenarrabile, bujo, pieno di pianti, fra lo scuotersi delle mura, l'aprirsi delle tombe, il vagar delle larve; ed egli, sempre straziato dalle sue vittime che gridavan «Giustizia di Dio!» pensava: questa è dunque il Giudizio che non volevo credere!

E tirava alla disperata per andar innanzi, e cercar rifugio pressa al papa che vedeva in fondo sul suo trono fra una luce pallida e fioca. Ma l'impedivano di qua il fratello, duca di Candia, colle ferite aperte, che invece di sangue gemevano una linfa corrotta, e colla forma turpe e gonfia d'un cadavere imputridito sott'acqua, di là il duca di Biselli, e Astorre Manfredi, e donne, e fanciulli, che tutti piangendo stendevano le braccia al papa gridando, giustizia e vendetta! Il papa era chiuso in un gran piviale nero col triregno in capo. Il viso grasso, vizzo, cascante d'Alessandro VI era giallo come quello di un cadavere; e mentre la sua figura si venne alzando lenta lenta, come rizzandosi in piedi, le grida e i pianti furono coperti da uno scroscio di risa infernali uscito dalla bocca di un demonio accovacciato colle ginocchia al mento con queste parole: «Cristo, la fede, i papi… tutte imposture» e questa ultima parola suonò sotto la volta della chiesa come un lungo ululato.

Il duca n'avea ancor pieni gli orecchi, e già era cogli occhi aperti, seduto sul letto, e svegliato del tutto.

Rimase un momento sbigottito, ma questo sogno rese però in lui più ferma la scellerata opinione che poteva commetter qualunque delitto senza timor del castigo in un'altra vita.

Mentre si rinfrancava con questo pensiero (eran sonate le tre ore da pochi minuti), il ronzìo del parlare di tante persone, i suoni, le grida d'allegrezza che scendevano dal piano superiore della rocca giugnevan deboli per la grossezza delle volte in quel piano terreno, allorchè quello stesso grido, che avea interrotto il colloquio di Donna Elvira e Fanfulla, fu udito dal duca molto più vicino, e quasi venisse di dietro all'uscio suo, il quale metteva s'un poco di rena secca che si trovava tra il mare e i fondamenti del castello. Uscì a vedere chi l'aveva mandato, e non vide che un battello vuoto la cui prora solcando la sabbia s'era fermata a riva: guardò su alla loggia ed alle finestre, e non vide alcuno: stava per rientrare nella sua camera, pure fece alcuni passi avvicinandosi al battello, ed allungando il collo sopra gli orli vi trovò nel fondo distesa una donna che col capo all'ingiù fra le due mani tratto tratto si lamentava. Dopo un primo movimento di sorpresa, subito si risolse; ed entrato nel battello, postole un braccio sotto le ascelle, e coll'altro alzandola alle ginocchia la levò di peso, e tramortita come era, la portò dentro e la depose sul letto. Ma qual fu la sua maraviglia quando, accostatole il lume per vederla in viso, conobbe Ginevra! Gli era troppo rimasto impresso quel volto per poter negar fede ai suoi occhi; ma come indovinare per quale strano accidente gli venisse ora in mano così sola, ed a quel che pareva avendo ingannate le insidie di Don Michele?

Di qui innanzi, diceva fra sè stesso, voglio credere almeno vi sia il diavolo. Altri che un diavolo amico non potea servirmi tanto a piacer mio. E posato il lume s'una piccola tavola accanto al capezzale, seduto sulla sponda del letto, studiava i moti del viso di Ginevra per cogliere il momento in cui si fosse risentita; il piacere di potersi goder finalmente una vendetta lunga, dolorosa gli accendeva gli occhi d'una fiamma scorrente a guisa di scintilla elettrica fra ciglio e ciglio, e le macchie che gli deturpavan il volto, parea ribollissero tingendosi d'un colore quasi sanguigno. Certo la faccia d'un uomo, mettendo insieme la deformità fisica con quella che induce nei lineamenti l'espressione del delitto, non s'era mostrata mai sotto un aspetto più orrendo. Da un lato Ginevra pallida, immobile, col dolore scolpito in viso, con una mossa tutta abbandonata e languente; dall'altro il Valentino, quale l'abbiamo descritto, formavano un quadro troppo doloroso. Stettero ambedue in questa situazione immobili lungo tempo: potè dirsi felice Ginevra finchè i suoi sensi smarriti, le palpebre abbassate le tolsero la conoscenza del luogo ove si trovava, e la vista di quello che oramai era assoluto padrone di lei; ma durò poco questa fortuna, e da qualche moto leggiero s'avvide Cesare Borgia che la sua vittima stava per aprir gli occhi. In quel luogo, ed a quest'ora era certissimo che nessuno poteva impedirlo: il gridare sotto quelle volte, mentre la festa era nel maggior calore, non sarebbe stato udito. Trovandosi dunque sicurissimo, propose in cuor suo, poichè gli avanzava il tempo, di goder senza fretta d'una fortuna tanto seconda.

 

Finalmente un sospiro profondo uscì dal petto della giovane, e fece alzare i veli che lo coprivano. Aprì un momento gli occhi, e tosto li richiuse. Gli aprì la seconda, la terza volta, poi cominciò a fissarli nel volto che si vedeva star sopra immobile e sconosciuto: ma lo vedeva materialmente soltanto, senza che la mente ricevesse nessuna idea da quella vista: pure i suoi occhi non potendo reggere all'immagine di quel viso sfigurato, si volsero altrove, lentamente, con un moto così languido, che avrebbero messo compassione in ogni altro. Nel tornarle a poco a poco il senso, la prima memoria che la percosse fu quella di Fieramosca sulla loggia ai piedi di Donna Elvira.

– Oh Ettore! – disse articolando appena le sillabe: – Dunque era vero, e son tradita da te!.. – e portando sugli occhi e sulla fronte le palme delle mani, stette così alcuni momenti. Al Valentino, udito quel nome, si contrassero leggermente le labbra con un sorriso rabbioso.

Ginevra si ricordò allora soltanto che doveva esser nel suo battello, ed alzandosi sul gomito per tentar di rizzarsi, sentì il morbido del letto: aprì gli occhi spaventata, vide il duca, e gettò un grido che la mano di lui le troncò nelle fauci, afferrandola alla gola, e respingendola a giacere.

– Non gridare Ginevra, – le disse il Valentino – sprecheresti il fiato; ho caro assai che mi sia venuta a trovare, e ti ristorerò del disagio di un viaggio a quest'ora… Tu però non cercavi di me. Non è egli vero? Che vuoi? tutte le palle non riescon tonde. —

La povera Ginevra ascoltava queste parole con un tremito che le toglieva la forza; da molto tempo non avendo veduto il duca non lo riconosceva, e soltanto provava orrore alla sua vista trovando pure in sè una confusa reminiscenza di quella fisonomia. Conoscendo di non poter far difesa, disse soltanto: – Signore!.. chi siete?.. abbiate pietà di me… che cosa volete?.. lasciatemi… – Ed il duca:

– Ti ricordi, Ginevra, in Roma, in qual modo ti governasti, son già molt'anni, con un tale che t'amava allora quanto gli occhi suoi, e t'avrebbe fatto tali doni e tali carezze da farti maravigliare? Ti ricordi che usasti seco modi che sarebbero stati sconci ad un ragazzo di stalla? Ti ricordi che ti ridesti del suo amore, che tenesti a vile le sue proferte, che ti vestisti seco d'una superbia che sarebbe stata troppa ad una regina? Ebbene, sai chi era quel tale? Quel tale son io. E sai chi son io? Cesare Borgia. —

Questo nome cadde come una massa di piombo sul cuor di Ginevra a soffocarvi ogni speranza: stava perciò senza rispondere, guardando il duca tutta tremante, come avrebbe guardato un tigre che la tenesse fra gli artigli, e che non le sarebbe neppur venuto in capo di voler intenerire colle parole.

– Ora che sai chi io mi sia – seguì a dire il duca – pensa se dovresti aspettar da me compassione; pure potrei piegarmi a non far su di te la vendetta che dovrei e potrei. Ma ad un patto, Ginevra, che facci senno: e ti so dire che n'hai mestieri. —

Queste meno aspre parole non potettero non ridestare nel petto della donna una favilla di speranza, e colle mani giunte, procurando di non mostrare nel guardarlo il ribrezzo che ne sentiva, si pose a pregarlo come si prega la Croce, che non volesse opprimere una femminella già troppo misera ed infelice.

– Io vi prego, signore, per le piaghe di Gesù, per quel giorno in cui ancora voi, benchè tanto potente in terra, vi troverete anima ignuda al cospetto del Giudice eterno… Se aveste mai donna che vi fosse cara, dite, se si trovasse in mano altrui, e domandasse invano misericordia, se vostra madre, se vostra sorella fosser poste al passo in che mi trovo io, e pregassero, e pregassero invano, gridereste vendetta al Cielo, non è egli vero, contra chi avesse loro fatto oltraggio? —

Queste parole, che univano l'idea della virtù e dell'onestà coi nomi della Vannozza e di Lucrezia Borgia, mossero alquanto a riso il Valentino, che ne sapea qualche cosa. Ma fu un riso sinistro, che a Ginevra accrebbe la paura; pure seguitò la sua preghiera mutandosele a poco a poco pel pianto la voce mentre parlava, onde poi a stento fra la piena de' singhiozzi furon udite l'ultime parole: – Io sono una meschina femminuccia: qual bene, qual gloria può trovare un potente signore qual siete voi a vendicarsi di me?.. Chi sa che non venga un momento in cui la memoria d'avermi usata mercede non vi sia balsamo al cuore? – Voler dir l'ansia, l'angoscia, la disperazione dell'infelicissima Ginevra nel vedersi a questo terribil passo, voler descrivere le sue lagrime, le preghiere, ed in ultimo le furibonde grida, e le dementi imprecazioni, sarebbe impossibile, ed offriremmo ai nostri lettori un quadro troppo straziante. Diremo soltanto che la sua sorte era fissata ed irrevocabile.

Don Michele intanto che tornava co' suoi compagni malcontento e colle mani vuote, tremando dello sdegno del suo signore, giunse a piè del castello, e vedendo fermi alla porta del duca i due battelli di Ginevra e del messo, si mise in sospetto: sceso a terra s'accostò all'uscio, e sentendo rumore di dentro, dubitò di qualche sinistro accidente: spinse la porta, la trovò chiusa, e non si sarebbe rassicurato se la voce di Cesare Borgia, che gli gridò «aspetta», non gli avesse mostrato ch'ei non correva alcun pericolo. Mise l'orecchio al fesso dell'uscio non potendo immaginare qual fosse la cagione per la quale non gli veniva aperto.

Dopo alcuni minuti duranti i quali regnò il più alto silenzio, e si sentiva soltanto su in alto rimbombar l'aria di suoni e di grida lontane, e il gorgoglìo dell'onda alla riva che faceva leggermente percuotere i battelli l'un contra l'altro, Don Michele, che origliava tutto attento, udì ad un tratto la voce del duca che disse con un scroscio di risa:

– Or va, prega Dio e i Santi… – e il rumore de' suoi passi che s'accostava alla porta, onde egli se ne ritrasse al punto che il duca, voltata la chiave, uscì fuori.

Don Michele volle cominciare a scusarsi, ma venne interrotto. – Mi dirai ciò un'altra volta; di questo fatto per ora ne so più di te assai. – Queste parole avrebbero potuto far credere a Don Michele che il suo padrone fosse sdegnato seco, se non avesse conosciuto nel suono della voce e nel viso, che v'era un nodo nel quale egli non aveva che fare.

Il Valentino volto agli uomini venuti con Don Michele disse: – Presto, voi tutti in barca, ed aspettatemi sotto Sant'Orsola: – ed a questi – e tu vien con me. – Coloro dieder de' remi e furon presto fuor di vista. Don Michele e 'l duca entrarono nelle sue stanze, e tosto uscirono portando Ginevra che riposero nel battello ov'era stata trovata. Don Michele scorse sulle sue vesti dal lato sinistro alcune tracce di sangue.

Ciò fatto venne chiamato dalla camera in fondo il messo; entraron nella sua barca tutti tre senza profferir parola, e, raggiunta che ebbero quella avviatasi innanzi, vi si trasferirono.

11I fatti indicati in questa lettera si trovano particolarmente narrati nella vita del duca Valentino di Tommaso Tommasi.