Tasuta

Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Kuhu peaksime rakenduse lingi saatma?
Ärge sulgege akent, kuni olete sisestanud mobiilseadmesse saadetud koodi
Proovi uuestiLink saadetud

Autoriõiguse omaniku taotlusel ei saa seda raamatut failina alla laadida.

Sellegipoolest saate seda raamatut lugeda meie mobiilirakendusest (isegi ilma internetiühenduseta) ja LitResi veebielehel.

Märgi loetuks
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

Come fu entrato sotto coverta, tosto riconobbe me e la Ginevra, e s'accorse ch'egli aveva dato in un trabocchetto. Franciotto, trattomi da parte, mi narrò ciò che aveva veduto avanti a Santa Cecilia e le parole udite, tantochè principiai a riflettere: mi si squarciò il velo, e capii come doveva essere andata la cosa. E stringendo maestro Jacopo, e minacciandolo, chè era il più pauroso uomo del mondo, lo feci cantare, e mi disse che per ordine del Valentino avea dato alla donna la sera della cena un vino medicato, per virtù del quale era rimasta assopita, ed ajutando esso l'inganno, l'avea dichiarata morta, onde, portata in chiesa, il duca avesse agio a venirsela a prender la notte.

Era un vero miracolo che una trama tanto bene ordita fosse andata a vuoto: e pensa quanto ne ringraziai Iddio.

Allora volto a maestro Jacopo, gli dissi: Ascoltatemi, maestro Jacopo. Io potrei farvi cascar morto con questa daga, ma vi voglio conceder la vita col patto che sia salva quella di costei: onde adoperate i vostri argomenti se volete tornar sano alle vostre brigate. Se poi direte ad anima viva come sia finito questo fatto, io v'ammazzerò come un cane ad ogni modo.

Il maestro spaventato mi promise tutto ciò che volli, e con gran premura si mise attorno alla donna; onde io consigliatomi con Franciotto feci scioglier la barca, e tutti insieme pel fiume ne venimmo alla Magliana, che di poco eran suonate le cinque ore.

Il buon maestro non disse mai nulla di questo.

Ginevra frattanto s'era risentita, ed avendo aperti gli occhi, li girava intorno attonita. Io, fatto oramai sicuro d'averla viva, e parendomi d'aver operato un miracolo, attendevo di tutto cuore a ringraziar Dio, posto ginocchioni al capezzale di lei, che avevamo allogata in una cameretta del vignajuolo.

Dopo un poco d'ora, tenendole io una mano, sulla quale appoggiavo la fronte e talvolta le labbra, la ritrasse e m'alzava i capelli che mi cadevan sugli occhi, guardandomi fisso. Alla fine mi diceva: Oh non sei tu Ettore mio?.. Ma come qui?.. Dove siamo?.. Non mi par la mia camera… sono in altro letto… Oh Dio, che cos'è stato?

In questa, Franciotto, che s'affacciava ogni tanto per vedere come andasse la cosa, comparve sull'uscio. Ginevra diede un grido, e gettandomisi addosso tutta tremante diceva: – Ajutami, Ettore; eccolo, eccolo! Vergine Santissima, ajutatemi! – Io mi sforzavo rassicurarla il meglio che potevo, ma tutto era niente, e mostrava aver tanto spavento del buon Franciotto che pareva gli occhi le volessero schizzar fuori dalla fronte. M'avvidi dello scambio e le dicevo: Ginevra, sta di buona voglia; non è il duca costui, ma un mio carissimo amico, e ti vuole quanto bene egli ha.

L'avresti veduta a queste parole deporre ogni timore, e volgersi piacevolmente a Franciotto quasi in atto di chieder perdono. Pensa come in cuor mio maledivo quello scellerato!

Ginevra allora cominciò a domandarmi che le spiegassi in qual modo si trovasse quivi, ed io la pregavo fosse contenta per allora aver fede in me, ed attendere solo alla salute, che voleva riposo; e tanto le dissi, che mi riuscì di quietarla; e, verso la mattina, fattole prender un cordiale, s'addormentò.

Ma non dormivo io. Ben conoscevo ch'era pazzia lo sperare volesse indursi a rimanere meco; e che a mio e forse a suo malgrado, pure avrebbe voluto tornarsene col marito, appena le sue forze gliel'avesser concesso. Onde spedii velocemente a Roma Franciotto ad informarsi in che termini si stesse colà, e come vi fosse intesa la cosa.

Tornò verso sera, recando la nuova che il Valentino s'era levato colle sue genti, ed avviato verso Romagna, ed avea menato con sè Grajano e la compagnia. Non si sapeva quale impresa fosse per fare dapprima.

Ne feci motto alla Ginevra, la quale, udito da me alla fine quanto le fosse occorso, ondeggiava in varj pensieri senza sapere a che risolversi. Con molte parole le mostrai che in modo nessuno le conveniva tornarsene a Roma, ove il Valentino avrebbe con facilità potuto trovarla, ed emendare il primo colpo fallito: che suo marito, avvolto nelle faccende della guerra, e tutto cosa del duca, difficilmente avrebbe potuto, anche volendo, servirle di difensore: e poi come, dove rintracciarlo? La pregavo, con affetto grandissimo, non volesse andar contro ad una quasi divina disposizione, che per istrade tanto fuor delle ordinarie ci aveva riuniti, togliendola da una condizione piena d'insidie e di pericoli: pensasse che levandoci di qui, potevamo per la supposta morte condurci senza sospetti in parte ove libera e tranquilla potrebbe almeno aspettare e vedere dove andasse a parare la sua fortuna e quella di suo marito; ed alzando la fede, le dissi queste formate parole:

– Ginevra! io giuro alla Vergine Santissima che sarai meco, non altrimenti che se fossi con tua madre. – Franciotto ancor esso ajutava; tantochè la buona Ginevra alla fine con molti sospiri, nè potendo affatto vincere un cotal rimorso che la rodeva mi disse: – Ettore, tu sarai mia guida, a te sta il mostrare che il Cielo, e non altri mi t'ha mandato.

Entrato in questa risoluzione feci al maestro un'altra orazioncina colla mano sulla daga, poi lo rimandai a Roma in compagnia di Franciotto, dal quale mi divisi con grandissimo dolore. Montati in barca colle nostre poche robe ci levammo di quivi e giù per fiume giunti ad Ostia ci drizzammo terra terra verso Gaeta. Il reame era tuttora in mano de' Francesi; ed essendo loro amico il Valentino, non mi pareva esserne sicuro finchè non mi trovavo mille miglia lontano da loro. Per la qual cosa, più che potevo, senza troppo affaticar la Ginevra, col continuo viaggiare sollecitavo ad allontanarmi da quelle coste; e come a Dio piacque ci trovammo una sera a salvamento in Messina; e ringraziai di tutto cuore Iddio di averci tratti da tanti pericoli.

Giunto Fieramosca a questo punto, vide che dal campo si movevano molti uomini a cavallo i quali venivan per loro, e soggiunse:

Troppe cose mi resterebbero a narrarti; costoro vengono, e mi manca il tempo. Ma per conchiudere: passammo circa due anni in codesta città. Ginevra si ritirò in un monastero, ed io, che m'ero dato per suo fratello, la visitavo più sovente che potevo.

Passato questo tempo s'era accesa la guerra fra Spagnuoli e Francesi. La vita ch'io menavo mi parve alla fine troppo indegna di un soldato e d'un Italiano.

Legato com'ero dal voto fatto in Santa Cecilia non potevo sperare al nostro amore virtuoso fine.

Tutt'Italia era in arme: i Francesi parevano i più forti; ed oltre l'amor di patria che mi spingeva a combattere il nimico più pericoloso, avevo una vecchia ruggine co' Francesi e colle loro insolenze. Scorgevo ancora, ti dico il vero, più sicurezza per la Ginevra all'ombra delle bandiere di Spagna, ove non poteva giungerla il Valentino.

Queste ragioni conosciute vere dall'animosa Ginevra, che non ostante il suo amore per me non poteva patire ch'io rimanessi addietro, mentre si combatteva per la fortuna d'Italia, ci risolvettero in tutto; e, scritto al signor Prospero Colonna che metteva genti insieme per Consalvo, mi posi sotto la sua bandiera.

In quel tempo si trovava colla compagnia a Manfredonia; onde noi, lasciata Messina, per mare ci drizzammo a quella volta. In quel viaggio ci accadde uno strano accidente.

Eravamo sorti a Taranto; e quivi riposatici, uscimmo dal porto una mattina per andar a Manfredonia. Era una nebbia folta del mese di maggio, e la nostra barca a due vele latine e dodici remi, volava sul mare piano come una tavola. A mezzo giorno ci si scopersero addosso quattro navi ad un trar d'archibugio, e ci chiamarono all'ubbidienza. Volevo fuggirle, ed avremmo potuto, che stavamo a sopravvento; ma considerato che coll'artiglierie potevano fare qualche mala opera, presi partito d'andare a loro.

Erano legni viniziani che venivano di Cipri, e conducevano a Vinegia Caterina Cornaro, regina di quell'isola. Saputo l'esser nostro, non ci detter noja, e dietro loro seguivamo il viaggio.

Era già fatta notte: la nebbia cresceva, ed io stimavo gran ventura aver trovato costoro che ci aiutavano a non ismarrir la strada in quell'oscurità.

Presso la mezzanotte, Ginevra dormiva, e solo due uomini stavano in piedi per regolar la vela e diriger la barca; ma anch'essi tratto tratto andavano dormicchiando. Io seduto a prora vegliavo, fisso in mille pensieri. Tutto era cheto. Mi parve udire sulla coverta della nave della regina, che ci precedeva di mezz'arcata, i passi d'alcuni uomini; gli udivo parlar sommesso, ma parole concitate e piene d'ira; tesi l'orecchio; una voce di donna si mescolava all'altre, e pareva chiedesse mercede: seguiva un pianto, e s'udiva a riprese, quasi costoro tentassero soffocarlo. Alla fine sentii un tonfo nel mare, come d'un corpo cadutovi. Io dubitando forte mi rizzai, e stringendo le ciglia, mi parve vedere non so che bianco agitarsi a fior d'acqua: mi buttai a mare ed in quattro sbracciate mi vi trovai accosto, afferrai un lembo di veste, e presolo coi denti tornai alla barca traendomi appresso un corpo. Gli uomini miei s'erano risentiti allo strepito; m'ajutarono risalire, e tirar su chi era meco. Trovammo una donzella in sola camicia, legate le mani con una villana corda, e non dava segno di vita. A forza d'ajuti tuttavia si riebbe alla fine. Facemmo di rimaner addietro ai Viniziani che seguirono il lor viaggio, nè si curarono di noi. Calammo la vela ed aspettammo fermi che aggiornasse. Uscito il sole si allargò il tempo, ed in poche ore fummo a Manfredonia, ov'io trovai il signor Prospero, e Ginevra cogli altri allogai all'osteria.

Tu ora vorrai sapere chi fosse codesta donzella campata dal mare, ma non posso soddisfarti, perchè nemmen io lo so. Non è mai riuscito nè a me nè alla Ginevra di strapparle una parola sui suoi casi, o sull'esser suo. Ell'è nata in Levante, è Saracina certamente, e più diritta e leale ed amorevole che donna del mondo; nel tempo stesso fiera ed ardita che non la sbigottiscono nè il sangue, nè l'armi, ed in faccia al pericolo è più uomo che donna. Da quel giorno in qua è rimasta sempre con Ginevra: ed io feci in modo che la badessa di Sant'Orsola le ricevesse entrambe nel suo monastero, ove per la vicinanza (ora che la guerra ci tiene chiusi in Barletta) posso venirle visitando più spesso.

 

CAPITOLO SESTO.

In questa giunsero i Francesi che dovevano condurli al campo: i due amici s'alzarono, e presi i cavalli s'avviarono con loro.

Attraversarono per mezzo lunghe file di tende e di trabacche, mirando l'assetto di quelle genti che correvano sulla loro via per sapere a che venissero; ed in mezzo ad una folla di soldati sboccarono su una piazza formata da molti padiglioni disposti in giro, nel centro dei quali, sotto una gran quercia, era teso quello del capitano. Vi s'era radunato il fiore dei caporali dell'esercito; scavalcarono, e furono messi dentro. Dopo cortesi ma brevi accoglienze, vennero portati due sgabelli, sui quali sederono volgendo le spalle alla porta.

La tenda parata d'un drappo azzurro sparso di gigli d'oro era in forma d'un quadrilungo, diviso in due quadrati uguali, da quattro colonne sottili di legno a strisce celesti e d'oro. In fondo era il letto coperto d'una pelle di pardo, sotto il quale dormivano sdrajati due gran levrieri. Poco distante una tavola ingombra confusamente d'un monte d'ampolle, di spazzole, di collane, di giojelli, e sopra la quale era appeso uno specchio poligono chiuso in una cornice d'argento lavorata a cesello, mostrava che il gentil duca non isdegnava la cura dell'attillarsi: ed un elegante moderno avrebbe bensì cercato invano su questa toilette l'indispensabile acqua di Colonia, ma poteva trovar però un compenso in due gran vasi di argento dorato sui quali era scritto Eau de Citrebon, ed Eau Dorée. Più fogge d'armature eran appiccate alle colonne a guisa di trofei, ed in traverso posate sovra arpioni, lance e zagaglie.

Sotto queste, nel mezzo, sedeva Luigi d'Armagnac duca di Nemours, vicerè di Napoli, eletto dal re Luigi XII a capitano della guerra. Era vestito d'una cappa azzurra foderata di zibellino, e le sue nobili fattezze splendevano di gioventù, d'ardire e di cortesia cavalleresca. D'Aubignì, Ivo d'Alegre, Bajardo, Mgr. de la Palisse, Chandenier erano a' suoi lati, ed intorno intorno altri baroni e cavalieri di minor conto gli facevan corona formando un circolo nel quale venivano a trovarsi rinchiusi Ettore e Brancaleone.

Quest'ultimo s'intendeva più di menar le mani che d'arringare, onde lasciò a Fieramosca il carico d'esporre l'ambasciata.

Rizzossi il giovane e volse agli astanti in giro uno sguardo rapido, nel quale balenava un ardire senza insolenza qual s'addiceva al luogo, agli ascoltanti, ed a ciò che era per esporre. Narrò l'insulto di La Motta, propose la sfida, e per adempiere alla formalità d'uso, spiegato il cartello, lesse ad alta voce la formola seguente:

Haut et puissant Seigneur Louis d'Armagnac ducde Nemours

Ayant apprins que Guy de La Mothe en présence de D. Ynigo Lopez de Ayala a dit que les gens d'armes Italiens étoient pauvres gens de guerre; sur quoi, avec vostre bon plaisir, nous respondons qu'il a meschamment menti, et mentira toutes fois et quant qu'il dira telle chose. Et pour ce, demandons qu'il vous plaise nous octroyer le champ à toute outrance pour nous et les nostres, contre lui et les siens, à nombre egal, dix contre dix.

Die VIII Aprilis MDIII.

Prospero Colonna
Fabritio Colonna.

Letto il cartello lo buttò in mezzo, ai piedi del duca, e Bajardo sguainata la spada lo raccolse colla punta. Ettore allora fatta un po' di cadenza al ragionamento stava per finire, quando gli corse l'occhio su uno scudo lucidissimo che gli stava appiccato in faccia, e faceva specchio a quelli che gli erano dietro le spalle. Vi scorse l'immagine di Grajano d'Asti: si turbò; e volgendosi, vide ritto a due passi il marito di Ginevra, che cogli altri lo stava ascoltando. Questa scoperta tanto repentina ed impreveduta tolse al fine del suo discorso quella forza, che avrebbe voluto imprimergli. Da quelli, cui non eran noti i suoi casi, fu a tale accidente attribuita una cagione troppo lontana dal vero, e che facea troppo torto all'onore di Fieramosca. Sorrise taluno de' guerrieri francesi, e vi fu chi bisbigliò non doversi molto temere chi pareva turbarsi al solo parlar di battaglia. Il giovane notò gli atti e le parole, e sentì una vampa di fuoco sulle guance; ma fermò l'animo pensando, alla prova vedranno s'io tremi.

La risposta del duca non fu scarsa nè di parole nè di baldanza, maggiore di tanto che anch'esso dall'aspetto dell'Italiano avea tolto argomento d'animo mal sicuro.

In pochi minuti finì il parlamento, ed i due messaggieri trovaron rinfresco per loro e pei cavalli in una tenda vicina.

Grajano aveva esso pure riconosciuto Fieramosca; e quando uscì dalla presenza del duca, gli tenne dietro. S'avvicinò a lui salutandolo col viso poco curante di coloro che negli uomini valutano i doni della fortuna più di quelli della virtù: l'avea conosciuto in povero stato, nè gli pareva che mostrasse essersi molto avvantaggiato dacchè non s'eran più veduti. – Oh! gli disse, ser Giovanni… no, ser Matteo… diavolo non mi ricordo… Basta, poco importa. E così, chi non muore si rivede!

– Appunto, – rispose Fieramosca, il quale malgrado la generosità del suo carattere non poteva superare un senso di rammarico vedendo, chi credeva nel mondo di là, vivo e giusto possessore di colei che amava più della vita. Ebbe un bel pensare, e sforzarsi per non lasciar quell'appunto così asciutto; tutto fu inutile, e tacque. Grajano non era tale da accorgersi di queste mezze tinte; visto che il discorso cadeva seguitò:

– E così, che cosa facciamo? Stiamo per Spagna, eh? —

Ad Ettore parve queste interrogazioni in plurale sapessero un po' troppo di saccenteria, e rispose:

– Che cosa facciamo? Voi, non so. Io sto per lancia col signor Prospero.

– Eh! badate al proverbio – disse ridendo il piemontese —Orsin, Colonna e Frangipani, riscuoton oggi e pagano domani.

Questo detto correva allora fra i soldati di ventura italiani, e nasceva dalla strettezza di denaro in cui si trovavan spesso i baroni della Campagna di Roma, i quali eran perciò più avidi dell'altrui, che puntuali a sborsar le paghe dei proprii soldati.

Fieramosca non era sullo scherzare in quel momento, onde non rispose nulla: tuttavia, per non parere scortese, lo domandò dell'esser suo, e perchè si fosse partito dal Valentino.

– Oh! – rispose Grajano – perchè colui ne vuol troppo, ed ha messa troppa carne a bollire; e se oggi o domani muore il papa, gli saranno tutti addosso, e gli faranno restituire capitale e frutti. Basta, di quel galantuomo è meglio dirne nè mal nè bene. Ora mi son accomodato qui, e son contentone che non cambierei col papa. —

Durante questo dialogo eran venuti alla tenda ove trovarono da far colezione. Com'ebbero finito, e fu sparecchiato, vennero richiamati dal duca per la risposta.

Fu questa, com'era dovere, piena di orgoglio e di jattanza. Esser pronti i Francesi a combattere; volersi fossero non dieci ma tredici; numero tenuto infausto e scelto a presagir malanni agl'Italiani.

Fu consegnata ai messaggieri una lettera chiusa per Consalvo, e separatamente una lista de' combattenti scelti per la parte francese.

Così accomiatati tornarono al padiglione aspettando che venissero i cavalli per partire. Comparvero intanto fiaschi di vino e bevettero in compagnia di molti cavalieri, fra' quali era Bajardo. Com'ebber bevuto, questi pregò Fieramosca gli facesse vedere la lista. Ettore se la cavò di seno e gliela diede: allora tutti curiosi si strinsero a Bajardo, ed egli lesse i nomi seguenti:

Charles de Tourges.

Marc de Frignes.

Giraut de Forses.

Martellin de Lambris.

Pierre de Liaye.

Jacques de la Fontaine.

Eliot de Baraut.

Jean de Landes.

Sacet de Jacet.

Guy de La Mothe.

Jacques de Guignes.

Naute de la Fraise.

Claude Grajan d'Asti.

– Claudio Grajano d'Asti! – esclamò Fieramosca guardandolo con maraviglia.

– Sì, Claudio Grajano d'Asti, – rispose questi. – Vi pare forse che non sia grande e grosso come gli altri?

– Ma ditemi, messer Claudio, sapete voi perchè si combatte questa sfida?

– Che? son sordo? Lo so sicuro.

– Saprete dunque che gl'Italiani sono tacciati di poltroni e traditori dai Francesi, e perciò si combatte. Ora ditemi, di che paese siete voi?

– Son d'Asti.

– Ed Asti non è in Piemonte? Ed il Piemonte è Italia o Francia? Ed essendo voi soldato italiano volete combattere coi Francesi contra l'onore degl'Italiani? —

Fieramosca scintillava dagli occhi dicendo queste parole. N'avrebbe usate di più gravi, ma si ricordava del voto che gl'impediva di por mano all'arme contra costui.

Grajano invece, che era lontano mille miglia dal pensare di Fieramosca, non poteva capire sulle prime ove andassero a parare tante interrogazioni. Capì a stento quand'ebbe finito, e gli parve la maggiore sciocchezza del mondo; onde senza quasi degnarsi di rispondere direttamente e da senno si volse agli altri; e disse ridendo:

– Oh, sentite, sentite questa! Si direbbe che è il primo giorno che prende la lancia in mano! Ho in tasca gl'Italiani, l'Italia e chi le vuoi bene; servo chi mi paga, io. Non sapete, bel giovine, che per noi soldati dov'è il pane è la patria?

– Io non mi chiamo bel giovane; mi chiamo Ettore Fieramosca – rispose questi, che non si potè più frenare – e non so nulla di queste poltronerie che voi dite. E se non fosse… – Qui gli corse quasi involontariamente la mano sull'elsa, ma tosto la ritrasse, e seguitò a parlare con quel volto contratto che fa chi è costretto ad inghiottire un boccone amaro:

– Una cosa sola, perdio, non posso patire. Che questi nobili gentiluomini e voi messer Bajardo, che siete il primo uomo del mondo della nostra professione, ed il più leale e dabbene, abbiate a sentire un Italiano dir tali vituperi contra la patria. Ma, e chi non sa che in ogni paese vi son traditori?

– Il traditore sei tu! – gridò come un tuono il Piemontese. Ambedue miser mano alle spade, ma non le sfoderarono affatto, che molti di qua e di là, messisi in mezzo, li trattennero, ricordando che i messaggieri non poteano nè offendere nè venir offesi. Le grida e 'l tumulto fu grandissimo, ma la voce di Bajardo, che si facea sentir sull'altre, fe ritornar tutti in quiete e nell'ordine, e Grajano venne strappato per forza di là.

Fieramosca com'ebbe ricacciata nel fodero la spada, e percosso colla palma della mano sul pomo per fermarla meglio, si volse a Bajardo scusandosi dell'accaduto.

Questi li posò le due mani sulle spalle guardandolo fisso, onde il giovane mezzo arrossito abbassò gli occhi: stato così un poco, lo baciò sulla fronte, e gli disse: Benoiste soit la femme qui vous porta.

Un'ora dopo il ponte della porta di Barletta s'abbassava per lasciar entrar Ettore e Brancaleone che ritornavano.