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Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta

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CAPITOLO OTTAVO.

Il monastero dell'isola posto fra il monte Gargano e Barletta era dedicato a Santa Orsola. Le sue mura oggi non presentano allo sguardo che un monte di rovine coperte di spini e d'edera; ma all'epoca della nostra istoria erano in buon essere, e formavano un edifizio d'aspetto severo, innalzato dai tardi rimorsi d'una principessa della casa d'Anjou, che venne ivi a finir santamente una vita scorsa fra le sfrenatezze dei piaceri e dell'ambizione. Non si potrebbe desiderare solitudine più tranquilla o più amena di questa.

Sopra uno scoglio, alto forse venti braccia sul livello del mare, è un piano di terra fruttifera, che gira da cinquecento passi andanti. Nell'angolo più vicino alla terra ferma sorge la chiesa. Vi s'entra per un bel portico, retto da gentili colonne di granito bigio. L'interno a tre navate, con archi a sesto acuto, posati su fasci di colonne sottili ornate d'intagli, riceve la luce da lunghe finestre gotiche chiuse con invetriate a colori, piene di storie de' miracoli della Santa. La tribuna dietro l'altar maggiore è tonda, ornata di musaici in campo d'oro. Vi si vede un Dio Padre nella gloria, ed ai suoi piedi Santa Orsola, con le undicimila vergini portate dagli angioli.

La chiesa, lontana dall'abitato, rimaneva quasi sempre vuota. Le sole monache si radunavano in coro ad ore fissate del giorno e della notte per salmeggiare. Era verso sera, e mentre si cantava il vespro dietro l'altar maggiore con quella sua cantilena lunga e monotona, una donna pregava inginocchiata accanto ad un avello di marmo bianco ingiallito dagli anni, e coperto da un baldacchino parimente di marmo pieno di fogliami e d'animali all'uso gotico, ove riposavan l'ossa della fondatrice del monastero.

Questa donna, coperta sino a terra da un velo del color di que' marmi, pallida, immobile ad orare, sarebbe sembrata una statua posta ivi dall'artefice in orazione, se due lunghe trecce di capelli castagni non si fosser mostrate fuori del velo, e se le palpebre, che tratto tratto s'alzavano, non avessero lasciato trasparire due occhi azzurri ne' quali si scorgeva il fervore di una caldissima preghiera.

La povera Ginevra (era essa) avea ragione di pregare, poichè si trovava in quei termini ove al cuor d'una donna non bastano le proprie forze per vincer sè stesso. Si pentiva, ma troppo tardi, del partito preso di seguir Fieramosca, e d'unire in qualche modo la sua fortuna a quella dell'uomo che per prudenza e per dovere avrebbe dovuto fuggir più d'ogni altro. Si pentiva d'esser rimasta tanto tempo senza informarsi di suo marito se fosse vivo o morto. La ragione le diceva: quel che non si è fatto si può ancora fare; ma la voce del cuore rispondeva: è tardi; e questo è tardi sonava come una sentenza irrevocabile. I giorni duravano lunghi, angosciosi, amari, spogliati d'ogni speranza di poter uscire di quel travaglio, se non altrimenti, almeno col darsi vinta all'una delle due forze che la combattevano. La sua complessione s'accasciava sotto il peso di questo continuo contrasto.

L'ore della mattina, quelle vicine al mezzo giorno, le riuscivano meno difficili. Lavorava di ricamo, avea libri, e l'orto del monastero per passeggiare. Ma la sera! I pensieri più tetri, le cure più moleste parevano, a guisa di quegl'insetti che al calar del sole si moltiplicano e divengono più infesti, aspettar quell'ora per assalirla tutti in una volta. Ginevra allora si rifuggiva in chiesa. Non vi trovava allegrezza, non pace, ma almeno qualche momento di consolazione.

La sua preghiera era breve e non variava mai. Vergine Santissima, diceva, fate ch'io desideri non amarlo; e talvolta aggiungeva: fate ch'io mi risolva a cercar di Grajano, e desideri trovarlo: ma spesso le mancava il cuore di profferir questa seconda preghiera.

Dal ripeter di continuo quelle parole, ne avveniva talvolta che cogliesse sè medesima nel pensiero di Fieramosca, appunto nel momento in cui la sua lingua pregava onde poterlo dimenticare. Allora sospirava, piangeva, ma scorgeva anche troppo qual fosse in lei la volontà più potente. Quel giorno tuttavia, per uno di quegli alti e bassi che sono nella nostra natura, le sembrò di potersi finalmente risolvere al miglior partito. L'idea d'una malattia che la sua salute cadente le mostrava vicina; l'idea della morte fra i terrori di una coscienza non pura, sopravvenne in un momento di titubanza, diede il tratto alla bilancia, e le fece prender la risoluzione d'informarsi di Grajano, e scoperto dove fosse, tornar con lui, in qualunque modo, ad ogni costo. Se Fieramosca fosse stato presente, gli avrebbe dichiarata la sua risoluzione allora allora, senza dubitar un momento; ma, disse, alzandosi per uscir di chiesa: Questa sera verrà e saprà tutto.

Le monache, finito il coro, uscivano tacite alla sfilata per una porticella che dava nel cortile del chiostro, e tornavano nelle loro celle.

Ginevra s'avviò dopo di loro. Entrò in un loggiato pulito come uno specchio che circondava un piccol giardino. Nel mezzo v'era un pozzo sotto una tettoja retta da quattro pilastri di pietra. Di qui, traversato un lungo andito, riuscì in un cortile di dietro. Il lato in fondo era formato da una casetta, ove non era clausura, separata dalla rimanente fabbrica, e vi s'alloggiavano i forestieri. Ginevra v'abitava colla giovane salvata da Fieramosca, ed occupavano due o tre camere; che, secondo l'uso de' monasteri, non avean comunicazione fra di loro, ma soltanto per un andito comune. Ginevra, entrando nella camera ove solevan passare insieme la maggior parte del giorno, trovò Zoraide occupata ad un telajo, e lavorando cantava una canzone in lingua araba piena di tuoni minori, come tutti i canti de' popoli del mezzogiorno. Guardò un momento il ricamo, e diede un sospiro (era un mantello di raso azzurro trapuntato d'argento che facevano insieme, destinato a Fieramosca); poi si pose a sedere ad un balcone ombreggiato da pampini, che guardava verso Barletta. Il sole s'era allora nascosto dietro le colline di Puglia. Poche strisce di nuvole stavano su pel cielo tutte accese al lampo solare, simili ai pesci d'oro notanti in un mar di fuoco. La loro immagine correva in lunga lista riflessa dall'onde, solcate qua e là da qualche vela di pescatori, che un leggiero levante spingeva alla spiaggia. L'occhio della giovane era fisso al molo del porto che aveva in faccia, dal quale spesso vedeva staccarsi una barchetta e venir verso l'isola.

Oggi essa la desidera più del solito, le pare che debba portarle una decisione; e qualunque sia, nel suo stato, sarà sempre un guadagno. Ma quei momenti d'aspettazione le parevano pur lunghi ed amari! Vorrebbe Ettore già presente, vorrebbe che avesse già udite parole tanto ardue a pronunziarsi: s'egli tardasse o non venisse, domani sarà ella ancor forte abbastanza?

Un punto oscuro che appena mutava luogo non tardò a comparire sul mare vicino al lido. Dopo un quarto d'ora s'era accostato, ingrandito, e quantunque appena si potesse distinguere che era un battello condotto da un uomo, Ginevra lo riconobbe, e sentì darsi una stretta al cuore. Per una subita rivoluzione di tutte le sue idee, le parve ad un tratto impossibile dirgli ciò che un momento prima aveva, o credeva avere irrevocabilmente fissato. Avrebbe veduta con piacere quella barchetta tornar indietro, ma invece avanti, avanti: già era presso l'isola; già s'udivano i remi tuffarsi, ed uscir dell'acqua.

– Zoraide, eccolo – disse volgendosi alla sua compagna, che alzò il capo appena, fece col viso l'atto di chi risponde, e tosto riabbassò gli occhi sul suo lavoro. Ginevra scese, e s'avviò al luogo ove s'approdava all'isola, e per una scala tagliata a scarpelli nel masso, giunse al mare appunto quando Fieramosca deponeva i remi in fondo al battello, e la prora si fermava contro lo scoglio.

Ma se alla donna mancava il cuore di dichiarare le sue risoluzioni, Fieramosca che aveva dal canto suo cose altrettanto gravi da svelarle, non si sentiva maggior animo di lei.

Lontano per molto tempo dai luoghi ove guerreggiava Grajano, non ne aveva più udita novella da un pezzo. Alcuni soldati venuti di Romagna, o fossero male informati, o scambiassero il nome, gli avevano affermato che era stato ucciso. Il prestar fede a costoro faceva troppo al caso suo, perchè molto si studiasse a non credere, o si desse briga di acquistar certezza del fatto. Accade di rado che ove si tema di scoprire il proprio danno, si desideri di veder chiaro: così trascurando sapere il vero, era venuto indugiando sino a quel giorno, nel quale gli occhi suoi propri l'avevano finalmente tratto d'inganno. Tornò in Barletta sempre combattendo con sè stesso; e sempre in contrasto s'egli doveva dirlo, o non dirlo a Ginevra. Il primo partito lo divideva da lei per sempre, il secondo gli sembrava colpevole; e poi come fare a nascondere qualche cosa a quella che era avvezza a leggere tutti i suoi pensieri?

Così, sempre fra due, giunse all'isola: non aveva ancora risoluto nulla, quando trovò la Ginevra, e costretto dalla circostanza a decidere pel sì o pel no, s'attenne provvisoriamente al secondo partito, dicendo fra sè stesso, penseremo poi.

– Son venuto tardi stasera – disse egli, salendo la scala, – ma abbiamo avuto un gran da fare oggi, e vi sono gran novità.

– Novità! – rispose Ginevra – buone o cattive?

– Buone – e coll'ajuto di Dio fra qualche giorno saranno anche migliori. —

Giunsero sulla spianata avanti la chiesa: all'estremo ciglio ove lo scoglio cade a piombo nel mare v'era un muricciuolo per riparo, alcuni cipressi in circolo, in mezzo ai quali era piantata una croce di legno, e tutt'intorno molti rozzi sedili.

Adagiatisi ivi ambedue al raggio argenteo della luna, che già vinceva la luce purpurea del crepuscolo, Fieramosca prese a favellare.

– Ginevra mia, rallegrati; oggi è stato giorno di gloria per l'Italia e per noi, e se Dio non nega favore alla giustizia, sarà principio di gloria maggiore. Ma ora fa mestieri adoprar fortezza: oggi devi mostrarti tale da servir di esempio alle donne italiane.

 

– Parla – rispose la giovane guardandolo fisso, come per istudiare la sua fisonomia, e leggervi anticipatamente qual prova s'aspettasse da lei: – son donna, ma ho cuore.

– Lo so, Ginevra, e dubiterei che il sole si levasse domani, prima di dubitar di te… – e le narrò la sfida, esponendone minutamente l'origine, la gita al campo francese, il ritorno, il combattimento che si preparava: e quanto animose fossero le sue parole, quanto accese d'amor di patria e di gloria, quanto la presenza di Ginevra rendesse più vivo quel fuoco, lo sanno quei lettori che hanno sentito il cuore batter più rapido, parlando di operar generoso a pro della patria con donna capace di ugual sentimento.

A mano a mano che Ettore si veniva spiegando (crescendo sempre di forza nel dire, nella voce e ne' gesti) il respiro di Ginevra diveniva più frequente; il seno, come fa una vela investita dai soffi d'un vento che incalza, s'alzava e s'abbassava gonfio di affetti impetuosi, discordi, ma però tutti degni di lei; gli occhi, che parevan temperarsi a seconda delle parole del giovane, s'accendevano, gettavan faville.

Alla fine colla mano bianca e gentile afferrò l'elsa della spada di Fieramosca, ed alzando la faccia arditamente, diceva:

– Se avessi il tuo braccio! se potessi far fischiare questa, che reggo appena! non anderesti solo: no! e non mi toccherebbe forse di sentirmi dire, hanno vinto gl'Italiani, ma v'è rimasto… Oh, lo so, lo so. Vinto non ritornerai… – e qui presa dal pensiero del vicino pericolo non poteva frenare una pioggia di lagrime; alcune delle quali caddero sulla mano di Fieramosca:

– Per chi piangi? Ginevra, vorresti per cosa del mondo che non s'avesse a combattere questa sfida?

– Oh no, Ettore: mai, mai! Non mi far questo torto: – ed asciugando le lagrime, sollecita seguiva: – non piango… ecco, è finito… è stato così un momento… – Poscia con un sorriso, che le palpebre ancor umide rendevano più bello, diceva:

– Mi son voluta far troppo brava e parlar di spade e di battaglia, e poi ecco mi fo scorgere; me lo merito.

– Le donne del tuo taglio possono far fare miracoli alle spade senza toccarle; potreste voltar il mondo sottosopra… se sapeste fare. Non parlo per te, Ginevra, ma per le donne italiane, che pur troppo non ti somigliano. —

Quest'ultima frase fu udita da Zoraide sopraggiunta con un canestro pieno di frutta, di focacce, di mele e d'altre gentilezze: lo teneva infilato nel braccio sinistro, e nella mano destra portava una boccia di vin bianco. I panni che vestiva eran tagliati all'uso d'Occidente; si scorgeva però nella scelta de' colori tutti vivissimi, e nel modo bizzarro di disporli, il gusto de' paesi ancor barbari onde aveva l'origine. La sua testa, conservando ancora le fogge d'Oriente, era coperta di bende attorcigliate, i capi delle quali le cadevan sul petto. Avea quel sopracciglio alto, quello sguardo aquilino, quella tinta bruna, e, se ardissi dirlo, leggermente dorata, che serban le razze più vicine al Caucaso. Ne' suoi modi amorevoli spiccavano talvolta lampi d'una natura selvaggia, d'una schiettezza ardita, scevra di rispetti.

Si fermò guardando Ettore e Ginevra, e con parole italiane bensì, ma che sapevano di forestiero per la pronunzia, disse:

– Parlavi di donne, Ettore? Voglio sentir anch'io.

– Altro che donne! – rispose Ginevra; – si parlava di una danza nella quale noi altre faremmo trista figura. —

Queste parole coperte destarono vieppiù la curiosità di Zoraide, ed Ettore narrò anche a lei ciò che avea raccontato a Ginevra.

La giovane rimase sospesa, pensando per qualche momento; poi disse, scuotendo il capo:

– Io non vi capisco. Tanta collera, tanto romore perchè i Francesi dicono stimarvi poco! Ma non ve l'hanno detto anche più chiaro col fatto venendo nel vostro paese a divorar le vostre biade, a cacciarvi dal vostro tetto; non ve lo dicono gli Spagnuoli al par de' Francesi venendo anch'essi in Italia a far quel che fan loro. Il cervo non caccia il leone dalla sua tana, ma il leone caccia il cervo e lo divora.

– Zoraide, qui non siam fra barbari, ove la sola forza decide tutto. Troppo ci vorrebbe a dirti quali ragioni abbia la corona di Francia sul Reame. Devi sapere soltanto che è feudo di Santa Chiesa. E ciò significa ch'essa n'è padrona; ed essendo padrona, n'ha investito, son circa dugento anni, Carlo duca di Provenza, del quale è erede il Cristianissimo.

– Oh bella! ed alla Chiesa chi l'ha donato?

– L'ha donato un guerriero francese che si chiamava Roberto Guiscardo, il quale per forza d'arme se n'era fatto padrone.

– Ora poi capisco meno che mai. Il libro che m'ha dato Ginevra, e l'ho letto tutto, sai, e con attenzione, non è egli scritto da Issaben-Jusuf?

– Sì.

– Non dice forse che tutti gli uomini son fatti ad immagine di Dio, ricomprati col suo sangue? Capisco vi sia fra i cristiani alcuni che, abusando della forza, si faccian signori dell'avere e delle vite dei loro eguali; ma come quest'abuso possa cambiarsi in diritto che ricada sui figli dei figli, non lo capisco.

– Io non so – rispose Ettore sorridendo – se tu non capisca, o se capisca troppo. Quello che è certo, senza questo diritto che cosa diverrebbero i papi, gl'imperatori, i re; e senza loro come andrebbe il mondo? —

Zoraide si strinse nelle spalle, e non rispose altro. Con ciò che aveva nel paniere apparecchiò una merenda su uno di que' sedili, coperto prima da una tovaglia che mandava la fragranza del bucato.

– Oh sì – disse Ettore per divertir i pensieri che leggeva sulla fronte di Ginevra – attendiamo noi a star allegramente fin che si può, e il mondo vada come vuole. – Così mangiarono lietamente.

– Il proverbio – seguiva Fieramosca – dice non parlar di morti a tavola: dunque nemmeno di sfide; parliamo di cose allegre. Saremo in feste presto. Il signor Consalvo ha bandito una giostra, una caccia di tori, e commedie e balli e desinari: vuol esser una cuccagna.

– Che vuol dire? e i Francesi? – disse Ginevra.

– E i Francesi ci verranno anch'essi. È stata offerta una tregua, e non saranno tanto villani da rifiutarla. Si tratta di festeggiar l'arrivo di donna Rivira, figlia del gran Capitano: ed egli che l'ama quanto gli occhi suoi, vuoi che l'allegrezze sien grandi. —

Qui le domande delle due donne furon infinite, ed Ettore veniva alla meglio soddisfacendo ora all'una ora all'altra con queste risposte. Le interrogazioni le indovinerà il lettore.

– Bella? bellissima, da quel che si dice; una capellatura che pare oro filato.

– Arriverà fra pochi giorni.

– Era rimasta ammalata in Taranto, ed ora che è guarita ritorna col padre.

– Se le vuol bene! Pensate che ha fatto per lei ciò che non ha fatto mai per sè. In Taranto appunto, avrete sentito dire che una volta le bande spagnuole s'erano ammutinate, perchè non le pagava: e mi dice Inigo che Consalvo è vivo per miracolo, che tutti quei diavoli gli erano attorno colle picche. Un certo Yciar, capitano di fanti (Consalvo gridava che non aveva danari), gli disse ad alta voce, e con villane e sconce parole, che sua figlia (scusate) gliene farebbe trovare. Lui zitto: finì il tumulto e la sera tutto era quieto. La mattina dopo s'alzano, vanno in piazza, e sapete che cosa vedono? Il capitano Yciar penzoloni impiccato alla finestra dove abitava. Ed a quelli che gli avean appuntate l'aste al petto non fu torto un capello. Vedete se le vuol bene. —

Con tutte queste chiacchiere era venuto tardi.

– Qui bisogna andarsene – disse Fieramosca; s'alzò, ed accompagnato dalle due donne s'avviò passo passo alla sua barchetta. Ginevra scese con lui sino al basso dello scoglio, e Zoraide, ch'era rimasta di sopra, fu salutata da Ettore mentre entrava in battello; ma essa appena rispose e si tolse di là. Questi non ne facendo caso, disse a Ginevra:

– Non ha sentito. Me la saluterai. Dunque addio. Questi giorni, Dio sa se potremo appena vederci. Basta: in qualche modo faremo. – Diede de' remi all'acque, e s'allontanò dall'isola. Ginevra, risalita la scala, rimase in alto un pezzo guardando, sopra pensieri, le due linee divergenti che dalla prora della barchetta si prolungavano indietro per lungo tratto di mare. Quando non vide più nulla, entrò nella foresteria, e, chiusa la porta, la sbarrò per la notte con due chiavistelli.

CAPITOLO NONO.

Dal principio del mondo in qua gli uccelli sono sempre stati presi dagli uccellatori a un di presso cogli stessi zimbelli, e gli uomini sono sempre stati colti alle stesse reti.

Ma la più pericolosa di tutte è forse quella che mette in giuoco il nostro amor proprio. Lo sapea Don Michele, e conosciuto di qual piè zoppicasse il podestà, in pochi colpi, come abbiamo veduto, l'ebbe in sua mano. Quando uscì dell'anticamera di Consalvo per cercar del servitore del Comune, andava fantasticando, rivolgendo fra sè mille pensieri, e non capiva in sè dall'allegrezza d'aver trovato chi gli prometteva tante maraviglie. Talvolta, è vero, gli nasceva il sospetto fosse un ciurmatore; ma, avendo alta idea della propria avvedutezza, diceva come tutti quelli che passan la loro vita ad esser fatti fare: «A me non me la fanno.»

Si trovò all'osteria del Sole secondo l'appuntamento. Ma non ebbe per allora nulla a dire a Don Michele, poichè il servo, che a suo credere era tanto mirabile indagatore, aveva promesso molto, operato poco, e scoperto niente.

La sera a cena la moglie e la fante s'accorsero che qualche gran cosa gli bolliva nel cervello, e non gli lasciaron mangiar boccone che gli piacesse, a furia d'interrogazioni. Fu gran fatto che non ispiattellasse tutto: chè il serbare un segreto, massime se gli pareva potesse dargli riputazione, era per lui maggior fatica che il trattener la tosse a chi n'abbia il prurito. Già gli uscivan delle mezze parole. Eh, lo so io!.. se sapeste!.. se mi va bene un certo affare!.. Poi pensò un tratto, si sbigottì del pericolo, s'alzò da tavola, e, preso un lume con istizza, se n'andò a letto.

Quella notte gli parve un secolo. Alla fine venne il giorno, si vestì in fretta, e sceso in piazza si piantò da un barbiere ove Don Michele gli avea promesso di venirlo a trovare. Sedè sulla panca della bottega ove capitavano ogni mattina il notajo, il medico, lo speziale, e due o tre altri che eran le teste quadre di Barletta. Posta una gamba sull'altra, dimenava così un poco il piede che restava in aria; il braccio sinistro stava rasente il busto, e la sua mano al fianco opposto riceveva nel concavo della palma il gomito destro; colle dita si sonava il tamburo sul mento guardando ora di qua ora di là se comparisse l'amico; poi in aria, perchè non compariva. Lo speziale, il notajo e gli altri gli avevan detto più volte: Ben levato signor podestà; ma vedendo che faceano poco frutto, e che appena rispondeva, si tenean in rispetto, parlando fra loro sotto voce, e dicendo: Che diamine ci sarà di nuovo questa mattina! Don Litterio li lasciava dire e taceva, poichè aveva due visi al suo comando; uno umilmente giulivo per coloro che eran dappiù di lui; l'altro arricciato, e pieno d'angoli per quelli che eran da meno; e questo, come ognuno sa, è il bel dono concesso dal Cielo a tutti gli sciocconi.

Passata così una mezz'ora udì una voce alle spalle che diceva:

– Eccellenza!.. signor podestà, non per offendervi… se volete restar servito… son colte sulla rugiada. —

Si volse e vide l'ortolano di Santa Orsola, Gennaro Rafamillo, che gli offeriva una decima su un canestro di ciliege, che veniva ogni mattina a vender in piazza con altre frutta; e sapeva, per esperienza, che mediante questo tributo poteva poi vendere a voglia sua senza impacciarsi della bandiera del mercato.

– Ho altro in testa che le tue ciliege – rispose Don Litterio; tuttavia, dopo aver guardato il paniere, gonfiando le gote, e mandando fuori a poco a poco l'aria raccolta, prese con un certo nobile sprezzo tre o quattro foglie di vite, le dispose sulla panca a guisa di piatto, e vi fece su un bel mucchietto di ciliege che cominciò a mangiare.

– Son buone eh! dite la verità! Ne ho portato jer sera a madonna, e mi ha detto che non avea visto mai le più belle.

– E chi sarebbe questa tal madonna?

– Madonna Ginevra; quella che abita in foresteria; e dicono che sia una gran gentildonna di Napoli, ed ha non so se il marito, o il fratello qui al servigio del signor Prospero, e quasi ogni giorno la viene a visitare… —

L'ortolano era per parlare un pezzo, chè il laconismo non era la sua qualità dominante; ma Don Michele frattanto era sopraggiunto, e fermatosi dietro il podestà senza che se n'avvedesse:

 

– A noi, signor podestà – gli disse battendogli sulla spalla; – mi viene il sospetto che costui possa metterci sulla via; lasciate far a me… —

E senz'aspettar altro, si pose a fiscaleggiar Gennaro; e presto dalle sue risposte conobbe che era appunto la Ginevra che cercava. Il filo era trovato; ad un par suo il resto era nulla.

Per esser nel monastero, poter esaminar i luoghi, e disporre i mezzi necessari ad aver in mano la donna, vide che il podestà poteva essergli utilissimo. Conveniva inspirargli tal fiducia che gli uscisse del capo ogni sospetto sulla rettitudine de' suoi fini. Lo trasse da canto e gli disse:

– Bisognerà che la discorriamo un poco. Aspettatemi all'osteria del Sole; intanto vedrò se costui sapesse insegnarmi quel giovane che ogni poco visita la Ginevra. – Don Litterio s'avviò all'osteria, ed egli, condotto seco l'ortolano nel luogo ove si mutavan le guardie, ed era pieno d'ufficiali e soldati, gli domandò:

– È fra questi?

Gennaro guardò un poco, vide Fieramosca, e disse: – È quello. —

E Don Michele da un di que' soldati seppe finalmente che avea trovato chi cercava.

Cinque minuti dopo era col podestà all'osteria, a quell'ora deserta, e seduti uno in faccia all'altro ai due lati d'una tavola sulla quale stavano due bicchieri ed un boccale di greco.

Cominciò Don Michele con una fisonomia tutta modesta:

– La scoperta è fatta. Ma prima d'entrar in altro v'ho da dir due parole. Don Litterio, io ho girato il mondo, e fo professione di conoscer gli uomini dabbene a prima vista. Dal poco che abbiamo discorso insieme ritraggo che non è al mondo il miglior ingegno del vostro. —

Il podestà annunziava col viso una risposta al complimento.

– No, no, non serve… dico quel che penso. Voi non mi conoscete. Se pensassi il contrario, vi direi tondo, signor podestà, abbiate pazienza, ma siete un cervellino. Dunque s'io fossi un ciurmatore cercherei d'un altro. Ma siccome mi vanto d'esser uomo dabbene quanto chicchessia, e venga chi vuole, così non temo aver che fare con chi tien gli occhi aperti. Ora vi voglio dir tutto, e neppure avrete a prestar fede alle sole parole; vedrete fatti, ed allora potrete conoscere d'esservi impacciato con un galantuomo. —

Qui cavò fuori una sua filastrocca: che egli era stato gran peccatore, e per avere il perdono era andato al Santo Sepolcro; che un eremita del Libano l'aveva finalmente assolto, dandogli per penitenza che dovesse per sette anni girare il mondo, ed ove trovasse da far opere buone, e fossero di qualunque sorta, avesse ad adoperarvisi, a costo eziandio della vita, contentandosi di viver umile e povero; ch'egli così facendo poneva in beneficio degli uomini le forze e 'l sapere acquistato ne' suoi lunghi viaggi in Persia, in Siria ed in Egitto.

– Ora – proseguiva – intenderete perchè con tanta premura m'accinga a liberar questo vostro amico dal suo amore e da quei pericoli che potrebbero partorire l'eterna dannazione dell'anima sua. La donna dunque è senza dubbio quella madonna Ginevra di Santa Orsola. A voi sta farmi trovar con lei. Potreste temere non fossi un tristo: nè vi fidereste porre chi non conoscete in quella santa casa, ed avete mille ragioni. —

Don Litterio si scontorceva.

– No – vi replico – avete mille ragioni; nessuno porta scritto in fronte ch'egli è uom dabbene. E son pur tanti i tristi! Ma quando vi mostrassi che, coll'ajuto di Dio, mi basta la vista di estrarre i tesori dalle viscere della terra, frenar la furia d'una palla d'archibugio, ed eseguir altre cose difficilissime, le quali vedrete farsi da me, e che vostro sarà tutto l'utile senza che io ne tocchi grano, contentandomi di quel poco che basta a sostentar la mia povera vita, dovrete dire: Costui potrebbe farsi ricco e viver negli agi; invece è povero, e vive in travaglio: dunque ciò ch'egli narra è vero, nè può meritamente esser tenuto un tristo. Due parole e finisco: A molti è giovato l'essermi capitati innanzi; potrebbe giovar anche a voi. Pensateci, e risolvete presto. La penitenza che debbo compiere m'obbliga a scorrere il mondo senza fermarmi in nessun luogo più di una settimana. —

Quest'aringa, che il podestà ascoltò a bocca aperta senza fiatare, fece sì che fra sè si vergognasse d'aver potuto pensar male. Tuttavia, per darsi dell'uomo accorto, rispose che, ove avesse veduta qualcuna di quelle prove, gli avrebbe nel resto prestato il suo ajuto volentieri.

Così rimasti d'accordo, si lasciarono, intesi che al più presto Don Michele si sarebbe fatto rivedere, ed intanto avrebbe adoperato i suoi argomenti onde conoscere se in quei contorni giacesse sepolto un qualche tesoro.

Apparecchiato in tal modo il podestà, e vedendo che il suo inganno si metteva tanto bene, si dispose allora allora di caricar la trappola; cercò di Boscherino, e gli disse come in servigio del duca gli bisognava l'opera sua. Quegli, che al solo nome del Valentino tremava a verga, rispose, senza neppur sapere di che cosa si trattasse: Son pronto. Don Michele, senza aprirsegli per allora, gli disse soltanto: Aspettami fuor della porta che mette sul lido e conduce al ponte di Santa Orsola (la tregua fra i due eserciti accettata dal capitano francese permetteva agli assediati di scorrer al di fuori per la campagna). Boscherino fu esatto all'appuntamento, non meno della sua guida, che lo raggiunse portando sotto braccio un involto.

Chi volesse seguitar costoro, li vedrebbe andar lungo la spiaggia sino ad un miglio oltre il ponte che congiunge l'isola alla terra ferma, quivi voltando a sinistra, ficcarsi fra i macchioni d'una valletta deserta, ed entrare in una chiesetta antica, abbandonata, che molti anni avea servito di cimitero; ma questo viaggio, per non ripeterlo, aspetteremo a farlo a notte chiusa; e di questa economia speriamo che il lettore ce ne sappia buon grado.

Diremo soltanto che sulle ventidue ore comparì in piazza Don Michele solo, s'accostò al podestà che era in sulla bottega del barbiere, e gli disse all'orecchio:

– Il luogo è trovato. Stasera al tocco delle tre ore sarò all'uscio vostro. Non vi fate aspettare. —

Di fatto alle tre ore Don Michele era al posto. Il podestà uscì; richiuse con diligenza senza far romore; e zitti e cheti, per istrade e per chiassi oscuri (chè allora non v'eran lampioni), furon presto fuor di città.

Cammina, cammina; sentono le quattr'ore batter in castello, ma d'un suono cupo e portato come affiocato dal vento, chè già si trovavano aver passato Santa Orsola, e s'avanzavano spiaggia spiaggia verso la chiesetta diroccata. Era una landa deserta, sterile, sparsa di macchie nane, che sempre più si facevan salvatiche. Il sentiero che seguivano presto si perdette in un sabbione ove s'affondava sino a mezza gamba; di tratto in tratto trovavan letti di torrenti asciutti, pieni di ghiaja e di macigni rotolati dalle acque; ma i due viandanti superando queste difficoltà erano in disposizioni d'animo assai diverse.

Don Michele, avvezzo a camminar più la notte che il giorno, precedeva con passo sicuro. L'altro, che in vita sua non s'era forse trovato due volte fuor di città dopo l'avemaria, gli s'andava ingrossando il respiro, si guardava attorno, ed in cuore malediceva il momento in cui s'era partito di casa: e per verità fu la mala uscita per lui. D'una in un'altra immaginazione si veniva empiendo di mille paure, e non era minore dell'altre quella di trovarsi solo, lontano dall'abitato, di notte, con un uomo che alla fine non sapeva chi fosse.

Pure ogni tanto volea rinfrancarsi, e sotto voce canterellava tre o quattro sillabe (per la quinta non si trovava fiato); poi gli pareva aver udito strepito fra quei macchioni, ove al poco chiarore della luna annuvolata credeva veder da lungi ora appiattato un uomo, ed avvicinandosi era un tronco od un sasso; ora qualche strana forma o visione di trapassati, e piano piano diceva un requiem o un deprofundis; ed in queste buone disposizioni si trovarono in uno slargo del bosco nel mezzo del quale sorgeva la chiesetta.