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Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta

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Sulla porta v'erano certi scheletri dipinti, ritti ritti, con mitre, triregni e corone in capo, e tenevano in mano cartelloni svolazzanti, sui quali erano scritti versetti latini, come Beati mortui qui in Domino moriuntur; Miseremini mei, etc.; e quantunque a lume di luna con fatica si potessero leggere, le figure de' morti visibilissime producevano da sè un bastante effetto. Don Michele scoperse una lanterna e si dispose a varcar la porta. Il podestà s'era fermato alcuni passi indietro, e, conosciuto il disegno del compagno, gli uscì di bocca un qui? lamentevole, e pieno di tanto spavento, che fece apparire un sorriso sulle labbra livide e sottili di Don Michele.

– Vi conviene ora esser di forte animo, signor podestà, chè in tali luoghi colla paura si fa poco frutto, e ponno talvolta accader disgrazie. Chi è con voi opera in nome di Dio, e per mostrarvi che in quello solo costringe le anime de' trapassati, cominciamo dalla preghiera. —

Inginocchiossi, e principiò ad infilzar miserere e dies illa, ai quali Don Litterio rispondeva il meglio che sapeva, facendo voto, se ne usciva vivo, d'accender una candela ogni sabato a Santa Fosca e digiunar la vigilia de' morti. Finita la preghiera si mossero. Una porta mezzo fradicia che appena si reggeva sulle bandelle rugginose, cedette, e quasi venne a terra ad un calcio di Don Michele. Entrarono stracciandosi le calze ai rovi ond'era ingombra l'entrata.

Il pavimento era sparso d'ossa di morti. In un canto un cataletto, che cadeva in polvere pe' tarli, alcune pale che avean, Dio sa quando, servito a sotterrare, erano il solo mobile del luogo. Alcune centinaja di pipistrelli, all'entrare che fecero i due colla lanterna, volarono in iscompiglio, col loro stridulo guaire, battendo l'ale per le pareti, e cercando rifugio su per un campanile gotico che avea la base accanto all'altar maggiore.

Il luogo, la solitudine, l'ora tarda erano tali se non da metter timore, almeno da dispor l'animo di chicchessia ad immagini funebri; ed il povero Don Litterio che, quando il sole era alto sull'orizzonte, avea pensato a quel momento senza turbarsi, trovandosi ora all'atto, conosceva quanta differenza vi sia tra il dire e il fare.

Stava guardando quell'ossa che avea sotto i piedi, quelle mura verdi per l'umido, ed in varj luoghi ancora coperte di antiche pitture; e ritto nel mezzo, con una mano nell'altra, aspettava il fine di questa diavoleria.

Don Michele depose in terra un fardelletto che aveva portato. Ne trasse il libro degli scongiuri, si pose una stola nera impressa di segni cabalistici, e cominciò colla verga a disegnare un circolo con mille cerimonie: vi fece la porta, e disse al podestà che entrasse per quella col piede manco innanzi, e, datogli in mano il pentaculo, cominciò a mormorare parole latine, greche, ebraiche, ora chiamando a nome centinaja di demonj in virtù di Dio eterno, ora alzando, ora abbassando la voce, e facendo pause, durante le quali il rimbombo si prolungava sotto quella volta; qualche pipistrello passava sventolando presso il viso del podestà che rannicchiato e tremante pareva il freddo istesso: temeva ogni momento veder uscir da quelle sepolture gli originali degli scheletri dipinti sulla facciata, e badava a pregar Dio, e supplicarlo che per sua misericordia volesse render vani gli scongiuri del suo terribile compagno.

Mentre in ginocchio si raccomandava a questo modo, sentì battersi in sulla spalla; alzò gli occhi, e vide l'angolo sotto il campanile pieno d'una luce livida, ed una forma umana, coperta del lungo lenzuolo, che suol involgere i cadaveri, sorgere lenta lenta da una buca.

Lo spettro rimase immobile, e non diremo come rimanesse il podestà. Don Michele gli si chinò all'orecchio, e gli disse:

– Su, coraggio, ora è tempo mostrarvi di saldo animo: presto, via, domandate ciò che volete. – Tutto era inutile; il podestà non poteva nè muoversi, nè rispondere, nè rifiatare.

Perchè Don Michele parlò all'apparizione alcune parole in lingua ignota, alle quali per sola risposta quella alzò lentamente un braccio indicando una sepoltura che avea la pietra già smossa.

– Avete inteso? dice che cavando costì troveremo tanti fiorini che saremo contenti. —

Ma l'altro parea che non sentisse. Vedendo che non v'era da sperare di farlo movere, Don Michele si condusse alla sepoltura, e facilmente vi si calò. Poco stante, riuscì fuori con un vaso di ferro mezzo coperto di terra, e venuto dove il podestà era rimasto senza poter muovere un dito, versò innanzi a lui una buona quantità di monete d'oro, o almeno parean tali, che caddero in terra senza potere colla loro vista esser da tanto di rimetter il fiato in corpo a quello che s'era posto in tanto travaglio per ottenerle.

L'ultima moneta non era appena caduta sul mucchio dell'altre, quando, spalancarsi con fracasso la porta, saltar in chiesa quindici o venti ceffi di ribaldi armati di picche e partigiane, essere addosso ai due appuntando loro l'arme al petto ed alla gola fu tutt'una cosa.

Don Michele ebbe appena tempo di gettar la mano sull'elsa, ma sentendo quattro o cinque punte che gli scucivano la cappa e qualcuna un poco lo pungeva, gli convenne star fermo senza far un sol atto, chè altrimenti era morto.

Nel podestà era già prima tanto spavento, che questo nuovo accidente non poteva produrre in lui nessun effetto visibile. Rimase come si trovava con gli occhi stravolti, il capo ficcato nelle spalle, congiunte le mani con moto involontario stringendo insieme certe sue dita secche e scarne, con tanta forza, che le unghie gli entravano nella pelle, e disse con voce soffocata: – Non m'ammazzate, sono in peccato mortale! —7

La lanterna in quel trambusto s'era rovesciata, ed illuminava a sott'insù quella strana brigata, che, rimasta così un momento immobile per accertarsi che i due presi non si sarebber nè voluti nè potuti difendere, appariva composta della mala razza che in quei tempi erano detti venturieri. Ora li chiamiamo assassini, ed anche allora lo erano, ma si distinguevano con questo nome specialmente le bande composte la maggior parte di soldati che avean abbandonate le bandiere per unirsi sotto un capo, e rubar i paesi facendo quanti mali potevano.

Alcuni, armati d'un petto o corsaletto, chi con una cervelliera di ferro, quali colle spade, chi con pugnali, chi con coltello, molti con cappelli a punta, su quali svolazzavano penne e nastri, e quasi tutti o sul petto o sul capo aveano l'immagine di qualche Madonna. Molti invece di scarpe portavano sandali di pelle di capra, coi quali potevano meglio reggersi ed arrampicarsi per le montagne.

Dei visi non è da dire. Veduti al lume di quella lanterna colle barbe ed i baffi lunghissimi, incolti ed arruffati, parean demoni scatenati.

Un di costoro, gettata in terra la partigiana che teneva alla gola del podestà, strappò ad esso ed al suo compagno l'arme d'accanto, e scosse loro i panni per vedere se ne avessero altre nascoste.

Nel tempo di questa baruffa, lo spettro sbrigatosi dal lenzuolo, era diventato uomo di questo mondo, e, conoscendo che non era tempo da perdere, s'era arrampicato su pel campanile, e, seduto su una trave attenendosi alle pietre che sporgevano dal muro, stava aspettando il destro di scampare, e dallo scuro, non essendo veduto, poteva benissimo osservare ciò che accadeva in chiesa.

Intanto il capo de' malandrini, giovane che poteva aver circa diciassette anni, ma di terribile aspetto, robusto, con una cicatrice che gli fendeva la fronte quant'era larga, e gli faceva il sopracciglio più alto d'un dito, menò un calcio sotto le reni al podestà per risolverlo ad alzarsi, mandando quel muglio di chi non ha gli organi della parola. Non vi poteva esser un rimedio più pronto per guarirlo dallo sbalordimento; s'alzò senza aspettare la seconda dose, e tratto in un angolo con Don Michele, furon legati e guardati da alcuni di costoro, mentre gli altri prendevano e contavan l'oro al lume della lanterna. Ciò fatto, lo posero in una borsa di pelle che il capo aveva alla cintola, ed usciron tutti, messisi in mezzo i prigioni, ai quali, con quei cortesi modi che usa simil gente, dissero di camminare spediti se non volevano assaggiar le punte delle loro daghe.

Dopo aver fatto mezzo miglio su per l'erta, in luoghi ove non era traccia di sentiero, si fermarono, e bendaron gli occhi ad ambedue.

La paura avea fatto trovar la voce al podestà, che si raccomandava piangendo come un bambino; e gli assassini se ne divertivano e lo lasciavano fare.

Ma Don Michele, che a quella pausa pensò al peggio, disse fra denti: Perdio ci siamo! Volle provare d'entrar in trattative per uscir loro dalle mani; ma alla prima parola gli fu chiusa la bocca con un pugno che gli cacciò due denti in gola. Non potendo nè vedere, nè parlare, stava ad orecchie tese. Sentì i ladri che trattavan fra loro di dividere il denaro ed i prigioni: gli udì parlar di taglia, e speculare qual de' due paresse poterne pagare una maggiore. Fra varie voci che parlavano diversi dialetti, tutti però italiani, ne avvertì una che avea pronunzia forestiera e piuttosto tedesca; ma nel meglio delle sue osservazioni si sentì prendere da molte braccia, e caricar sulle spalle di due uomini che s'allontanarono dalla comitiva, senza che potesse indovinare che direzione prendevano.

Il viaggio durò più d'un'ora, frammezzato da pause, duranti le quali il portato era non molto gentilmente deposto in terra, ed i portatori si riposavano. A Don Michele intanto fra il terrore, naturale anche ad un uomo valoroso, di morire scannato come un cane da que' ribaldi, i legami che lo stringevano, e l'angoscia di star sulle spalle altrui posato sugli acuti canti d'un'armatura, cominciava ad increscer fieramente questo giuoco.

 

Alla fine pur si fermarono. S'udì lo strepito d'una grossa porta che s'apriva. Entrarono, la porta chiudendosi di nuovo risuonò alle spalle. Qui Don Michele fu sciolto, e, condotto pochi passi più avanti, ebbe sbendati gli occhi e si trovò in una camera ove per uno spiraglio entrava un po' di chiarore di luna. In una parete era una porta bassa e nana, tutta ferrata di chiavistelli; fu aperta, ed una voce disse a Don Michele «Va dentro.» S'abbassò egli per entrare, e mentre con un piede innanzi tentava se vi fossero scalini, una spinta nelle reni data col calcio d'una picca lo fe giungere più presto che non avrebbe voluto al fondo di una scaletta, ed in modo che gli sarebbe stato impossibile di trovar il conto degli scalini discesi. Un chiavistello che andò al suo luogo cigolando, avvertì Don Michele che per la porta non v'era speranza d'uscire.

Il luogo era oscurissimo. Cominciò col tastarsi la bocca che gli doleva forte pel pugno ricevuto; ne ritrasse le mani bagnate (capì che dovea esser sangue) e scoperse che d'allora in poi non dovea calcolar più su trentadue denti, ma soltanto su trenta.

– Se il diavolo t'avesse strozzato te e tuo padre, com'era obbligo suo, questi non sarebbero stati seminati alla macchia – disse rivolgendosi colla mente a chi l'avea messo a quest'impresa.

Pure fece ogni opera per farsi animo, ed aperte le braccia tentò di scoprire ove fosse. S'accorse che da una buca su in alto usciva un debol lume, e gli parve sentir al di fuori frangersi contra il muro l'onda marina. Tastando co' piedi trovò in un angolo il morbido d'un po' di paglia; vi si sdrajò, e stette aspettando ciò che la fortuna gli prometteva.

CAPITOLO DECIMO.

Il lettore avrà senza dubbio indovinato che lo spettro non era altri che il caposquadra Boscherino.

Gli rimane a sapere come la banda de' venturieri si fosse trovata pronta per turbare la frode ordita da Don Michele. Il fatto stava a questo modo.

Don Litterio aveva una fante bella e fresca, per cagion della quale si potea muover dubbi sulla illibatezza della sua fede conjugale. Questa giovane dando retta ai sospiri quinquagenari del padrone, non era però sorda a quelli d'un ragazzo di stalla che serviva in casa. Per la catena di questo amore, il segreto del podestà, che doveva quella notte andar a cavar un tesoro, venne scendendo fino allo stalliere.

Questi aveva amici alcuni uomini della banda di Pietraccio (tale era il nome di quel masnadiere), ed aggiustò le cose in modo che se il tesoro si trovava, venisse almeno in parte nella sua borsa, invece di scendere intero in quella del suo padrone.

Ora innanzi che noi torniamo a Don Michele è necessario che il lettore abbia notizia dei luoghi ove accaddero i fatti che siamo per narrare.

Sulla testa del ponte pel quale si giunge all'isoletta di Santa Orsola, era eretta una torre quadrata, massiccia, simile a un dipresso a quella che trova sul ponte Lamentano chi da Roma voglia andare in Sabina. Il passo era chiuso da una grossa porta, da una saracinesca che si lasciava cadere al bisogno, e da un ponte levatojo. Si saliva per una scala a chiocciola ai due piani superiori ov'erano alloggiati il comandante ed i soldati, e in cima v'era un terrazzo circondato da merli, fra i quali si vedevano uscire le bocche di due falconetti.

La badessa del monastero, rivestita dei diritti baronali, vi teneva alla guardia una compagnia di ottanta fanti fra picche ed archibusi, guidata da un tal Martino Schvarzenbach tedesco, soldato di ventura, il quale trovava più comodo lo starsi a grattar la pancia in quella torre ben pagato e meglio pasciuto, che l'andar tribolando la vita sua in campagna ed in guerra, ove avea conosciuto che il diletto di malmenare e svaligiare i popoli, era spesso turbato dalla palla d'un archibugio o dalla punta di una partigiana. Le sue tre passioni dominanti erano lo star lontano dalle busse, il rubare, ed il bere tanto vin di Puglia quanto ne poteva capire il suo stomaco, che su questo particolare aveva poco da invidiare a una botte.

Queste sue inclinazioni gli si leggevano in viso; le due prime, in un par d'occhi pieni ugualmente d'avidità e di codardia; l'ultima, in un vermiglio vivissimo, che lasciando pallido il resto del volto si concentrava tutto sulle gote e sul naso. Barba rada e del color di quella d'un becco, labbra pavonazze, ed un corpo che sarebbe stato atto a reggere alle fatiche della milizia se gli stravizzi non l'avessero a quarant'anni ridotto floscio e spossato come avrebbe potuto esserlo a settanta.

L'ufficio di costui si riduceva a chiuder la porta la sera. Gli eserciti che guerreggiavano ne' contorni, non aveano mire ostili contra il monastero, onde non era da guardarsi da loro. Le bande de' venturieri che scorrevano il paese non avrebbero osato assalire ottanta uomini chiusi in una buona torre con due falconetti. Ma v'era poi un altro motivo che lasciava dormir sonni tranquilli a Martino Schvarzenbach, quantunque circondato da costoro. Egli s'era condotto colla badessa per guardare il monastero, ma non si credeva per ciò egualmente obbligato ad esser il custode ed il difensore de' ducati, dei fiorini, e dell'avere degli abitanti di quel contado o di chi passava per esso. Come però alla scoperta non poteva andare a pescare nelle borse altrui, aveva (per servirci d'una voce moderna) preso un carato nella mercanzia esercitata da Pietraccio, e gli faceva spalla aiutandolo co' suoi quando l'impresa lo domandava; nascondeva danari, robe e persone eziandio ove fossero tali da poterne sperare una grossa taglia.

Queste operazioni si facevano con tali cautele che le persone offese a tutti avrebbero data la colpa fuorchè a Martino, che era soltanto riputato il primo bevitore del paese.

In mano di costui era incappato Don Michele, il quale aveva passata la notte fantasticando senza mai poter indovinare ove fosse. Alla prim'alba sentì tre colpi d'artiglieria, quali si usavano sparare ogni mattina dalla rocca di Barletta; s'ajutò alla meglio, e giunse ad arrampicarsi alla feritoja dalla quale entrava il lume, ma lo spiraglio era coperto in modo dall'edera che non si vedeva per quello altro che un picciol tratto di mare. Soprastato così un poco, venne a passare un battello pieno d'ortaglie, e conobbe quello che lo conduceva per l'ortolano di Santa Orsola: allora fu quasi certo di trovarsi nel fondo della torre che ne difendeva l'entrata.

Appena sceso dal luogo della sua scoperta, s'aprì la prigione e ne fu tratto da due robusti mascalzoni che lo fecero salire nella camera del capitano.

S'era questi alzato di poco, e stava di tutto scinto a sedere sulla sponda del suo lettuccio avanti ad una tavola coperta ancora in disordine degli avanzi d'una gozzoviglia. Un rastrello che girava tutt'intorno al muro era guarnito di picche, d'archibugi a forcina, di petti di ferro e d'altre armature. Guardò Don Michele, che entrava, con un occhio che pareva stentasse a sollevare la palpebra rugosa e cadente che lo copriva, e facendo col tacco d'uno degli stivaletti la battuta sul pavimento gli disse:

– Devi sapere, Messer tu, che non so come ti chiami, che chi passa la notte alla mia osteria paga cento fiorini d'oro da dieci lire della zecca di Firenze, o se gli par meglio, di quella di San Marco. Altrimenti una corda ed un sasso al collo ed un bagno in mare lo salvano dal pagar lo scotto. Che cos'ami meglio?

– Quel che sarà meglio per me non lo sarà per te – rispose Don Michele sostenuto. – Jer sera prendeste noi due, ma non eravamo soli nella chiesetta. V'era chi non avete veduto; ed ha visto voi, e ti conosce, ed a quest'ora in Barletta si sanno le vostre ribalderie, e presto il bagno in mare toccherà a te a farlo, e non a me, se pure non trovassi il modo d'impedire a tre o quattrocento Catalani o Stradiotti di buttar giù a calci la porta di questa torre, o potessi indurli ad impiccarti ad un merlo, invece di farti far pace coll'acqua, che, da quel che vedo, assaggeresti per la prima volta. —

Quest'idea gli venne suggerita dalla vista di un mezzo barile, che il Tedesco si tenea a capo al letto invece di santi e di croce.

La replica in tuono così alto fece rizzar la punta al conestabile che tirandosi la berretta sugli occhi, disse:

– Se pensi d'aver a fare con un ragazzo, e spaventarmi colle tue bravate, prima t'avverto che non ti credo, poi se anche venissero i tuoi Albanesi, o chi diavolo hai detto, ho il modo di non temere nè loro, nè il mare, nè il merlo… e non so chi mi tiene che non ti faccia attaccar per la canna ora proprio. Ma amo ancor meglio il suono de' tuoi fiorini, che il gracchiar de' corvi che verrebbero a beccarti gli occhi. Dunque a noi, veniamo al fatto: qui v'è da scrivere; fai che venga il danaro, poi va col tuo malanno dove ti pare. —

Don Michele senz'affrettarsi a rispondere, lo guardava col ghigno di chi non temendo nulla per sè, sta infra due, se debba prender la cosa in canzone o sul serio. La stizza del capitano stava per mostrarsi, e forse più che con parole, ma venne prima la risposta.

– Conestabile, i fiorini ti piacciono, il vino non ti dispiace; devi essere un buon compagno. Già il buon soldato vuol esser così, birbo, ghiottone, e poca divozione. Ora chi diavolo t'insegna a far il cattivo? Senti, voglio che siamo amici. È vero che m'avresti a pagar la nottata che m'hai fatto passare; e se non fosse… basta te la perdono, ed invece voglio farti guadagnare… – Qui si volse guardando i due che l'avean condotto, e che ancora lo tenevano per le braccia. – Dite, ragazzi, non avete da far niente, che mi state alle coste come i ladroni a nostro Signore. Va', bello mio – disse svincolandosi da uno, e dandogli per ischerzo della mano in sul viso; e liberatosi dall'altro nello stesso modo: – Va', va' anche tu, non serve; mi reggo da me. Andate a tener d'occhio intanto se compar nessuno sulla strada di Barletta. Quanto ci vuole a dir due parole qui a sua signoria! Già vedete che non ho arme accanto, e non fo conto d'inghiottirlo a digiuno; diavolo! ci vorrebbe uno stomaco peggio del vostro. —

I soldati che non meno di Martino si stupivano di tanta disinvoltura, guardarono in viso al loro padrone per veder che cosa pensasse. Egli accennò di sì col capo, ed uscirono. Ma trovandosi solo con Don Michele stimò prudente l'alzarsi in piedi, e tenersi a portata della sua spada.

– Conestabile! m'hai domandato cento fiorini per mio riscatto: non credevo di valer tanto poco, e per insegnarti a stimar i pari miei te ne darò dugento! (Il Tedesco spalancava gli occhi, e gli veniva l'acqua alla bocca): sì, dugento; e poi questo non sarebbe niente… Se m'avessi faccia di saper servire con accortezza e fede… ti vorrei far una sorte da farti maravigliare, eh! Ma è inutile; bisognerebbe essere svelto, saper parlare, tacere a tempo, insomma non aver quel viso di pastinaca, e quegli occhi spenti che pajon pappa coll'olio. —

Martino al veder tanta sicurezza credeva di sognare, e gli passavan per la mente mille idee d'aver forse in suo potere qualche principe o qualche gran personaggio travestito: ma non potendo fissarsi su di nessuna, e mal soffrendo di vedersi poco rispettato nella sua reggia, rispose:

– Ma in nome di Dio, o del diavolo che vi porti, chi siete? che cosa volete? Parlate, che sono stufo, e non sono il buffone di nessuno.

– Piano, piano, e colle buone, chè se la mi salta, non vi dico più altro, e peggio per voi. Sappiate dunque… —

Un soldato, che entrò, interruppe Don Michele dicendo:

– Conestabile! si vede un polverìo sulla strada verso Barletta; pajon cavaleggieri, almeno così dice Sandro, che ci vede più di tutti. —

Il Tedesco si scosse, guardò il suo prigione, che ridendo maliziosamente disse:

– Io ve l'aveva detto. Ma non abbiate paura. Giudizio! e la finirà bene. Va' – disse poi al soldato – e, se v'è nulla di nuovo, avviserai. Dunque, come dicevo, dovete sapere che qui nel monastero v'è una persona tenutavi da tali che non occorre mentovare, la quale amerebbe meglio andar pel mondo a godersela senza aver sempre fra' piedi moccoli e croci. Qui si tratta di lavorar pulito. Se una notte o l'altra venisse una barca con cinque o sei giovanotti a levarla, ed il Conestabile sentisse abbajar qualche cane, o qualche voce sottile gridar misericordia (già lo sai, le donne gridano due ore prima che si tocchino), non se ne sturbi, pensi che è stato un sogno, si rivolti dall'altra parte, e seguiti a russare: e questo poco servigio gli porterà, come venissero dal cielo, cinquecento zecchini nuovi della zecca di San Marco, o se vorrà di quella del giglio; e poi, forse una condotta migliore di quella che ha al presente con queste bacchettone. – Il povero Martino, che fra tanti vizi aveva pure una buona qualità, quella d'esser fedele a chi lo pagava, assalito da una tale offerta si vide in procinto di perderla. Ma la legge che non vi dev'essere al mondo cosa nè assolutamente buona, nè assolutamente cattiva, lo salvò dal totale naufragio, e rispose coll'intenzione di mostrarsi offeso; tuttavia le sue parole sonavano piuttosto rammarico che collera:

 

– Martino Schvarzenbach ha servito Milano, Venezia e l'imperatore il tempo delle sue condotte, e non ha mai tradito nessuno. La badessa di Santa Orsola l'ha pagato a tutto dicembre del 1503. Se vostra signoria è qualche… che so io… qualche signore… oppure fa gente per qualche principe italiano, e volete condurmi: bene, discorriamola; vi farò veder la compagnia: son cinquanta picche, e trenta scoppietti, tutti dai venti ai quarant'anni, e per gli arnesi vedrete se manca l'ardiglione d'una fibbia. Se restiamo d'accordo, al primo di gennajo del 1504 verremo, se vi pare, a dar l'assalto al monastero, e le porteremo via tutte fino alla cuoca. Ma prima di quel tempo, finchè mi resta una carica di polvere, ed una lama di pugnale, nessuno toccherà un capello nè alle monache nè all'ultima conversa.

– E voi, ser Martino, credete che non sappia qual è il dovere d'un par vostro? Credete che avrei faccia di proporvi una ribalderia come codesta? Non mi conoscete. La persona di cui si tratta, non è nè monaca nè conversa, ed ha tanto che fare col monastero, quanto ci ha che fare il mezzo barile che vi tenete al fiato: Dio vi benedica! e ben si vede che siete un uom dabbene, e sapete che quando si può andar a bell'agio, è matto chi corre; quando si può dormir al coperto con mezzo bicchier di buon greco, è pazzo chi dorme alla frasca, a stomaco freddo; e chi può guadagnarsi cinquecento fiorini senza una fatica, coll'onor del mondo, e colla grazia di Dio, deve pensare che queste fortune non cascano in bocca ogni giorno come i fichi fiori… Ora se volete far senno, sarem d'accordo; e risolvete, chè questi cavaleggieri non dovrebbero tardar molto. —

La virtù di Martino, come quella della maggior parte dei galantuomini, era capace di transazione, onde rispose:

– Quando non si trattasse di monache, sarebbe un altro discorso. —

Mentre Don Michele, pensando se dovesse allora svelar a Martino qual era la donna che intendeva rapire, soprastava alquanto prima di parlare, una mischia insorta all'uscio della camera fra due soldati ed una vecchia, interruppe il loro ragionamento.

– C'è il diavolo che ti strangoli, gobba maledetta; c'è chi ci dev'essere, ed il conestabile ha altro in tasca che dar retta a te. —

Così gridava uno di que' soldati, tentando di impedir l'ingresso ad una vecchia di picciola statura, scrignuta e con due occhi di madreperla orlati di scarlatto. Era più che mezza entrata, ma il soldato la teneva ancora afferrata dove il collo s'attacca al busto, tirando la pelle in modo che le torceva la bocca tre dita da quella parte. La vecchia dette nella mano che la teneva una graffiata con certe ugne d'acciajo, e fu di qualità da farsi tosto lasciar libera; e cadendo come una molle scoccata addosso a Don Michele, al quale s'attenne, scansò un pugno mandatole dietro, che se la coglieva, poveretta lei.

– Piglia su, figlio d'un canonico – diceva, volta al soldato, che, succhiando il sangue della graffiatura, guardava la vecchia come il mastino guarda il gatto che gli ha pettinato il grifo; – piglia su; e se ti ci provi un'altra volta, avrai peggio.

– E tu, brutta strega, riprovati a venir quando son di guardia… Sandro mio sia benedetto (e queste parole le diceva ripiegando il labbro inferiore indietro sui denti per imitar la voce della vecchia) lasciami entrare in monastero… appena un momento che faccia motto alla forestiera, che mi dia un po' di fila per Scannaprete che è ferito, un po' di polvere per Paciocco che ha la febbre… Un po' di canchero (rifece la voce naturale) che ti strozzasse te e chi ti manda! Torna, torna, e ci avrai gusto. Mi possano strappar la lingua dalle canne, come il Valenza, che Dio gli dia bene, la fece strappare al ribaldo del tuo padrone, se non ti mando coll'orazion che ti meriti, strega della notte di San Giovanni. —

La vecchia avrebbe avuto materia per rispondere e non infrangere una delle leggi fondamentali del codice femminile, quella d'esser sempre l'ultima a parlare; ma avea fretta di dir cose che importavano, onde volse le reni a Sandro con quell'atto di scherno che si può più immaginare che descrivere.

– Se non ci mettete le mani voi (parlava al conestabile) vuol esser un bel ballo: su alla macchia è stato l'inferno stanotte. Son tornati gli uomini, che mancava un'ora a giorno. Conducevano quel brutto cristiano che prendeste jer sera… Vergine! pareva un morto di tre giorni. Ma gli è durata poco la paura. Pietraccio l'ha sparato come un capretto da latte.

– Come? – disser Martino e Don Michele, parlando tutt'e due in una volta: – hanno ammazzato il podestà? perchè? dove? come?..

– Che volete che vi dica? Vergine mia benedetta! Pietraccio voleva fargli capire che pagasse non so quanti ducati di taglia: e già sapete senza lingua come s'ha da far intendere? Quello stava cogli occhi fissi, invetriti, più di là che di qua. Allora il padrone gli scrisse ciò che occorreva su un foglio, voleva che lo leggesse. Peggio. Pareva la statua di San Rocco alla cappelletto di Belfiore. Pietraccio allora tre o quattro ceffatoni sul viso, ma di quelli! Non ci fu verso. Alla fine la gli è saltata… e sapete quando la gli salta!.. Il coltello a soprammano qui alla bocca dello stomaco e giù, giù, l'ha scucito fin sotto la cintola (già pel coltello non c'è che dire, bisogna lasciarlo stare; fa vergogna agli uomini vecchi). Insomma che volete? è un ragazzaccio: Gliel'ho detto tante volte alla madre; – Ghita! il ragazzo s'avvezza troppo fastidioso colle mani… ma non gli si può metter giudizio. – Queste nuove ed il modo di raccontarle colpirono, quantunque per motivi diversi, i due ascoltatori, sicchè non trovaron parole per rispondere.

Seguitava la vecchia: – Insomma ora finisco e me ne vado, che ancora sono in piedi da jeri. C'eravamo messi per dormir un'ora; ecco Cocco d'Oro correndo: su, su presto, il bargello, la corte!.. Ci alziamo: che volete? Stavano già sotto Malagrotta e venivano per le poste: noi a gambe su per la montagna. Ora sono tutti chiusi nella grotta di Focognano senza un pane o un sorso d'acqua, e per la macchia saranno da 200 fra birri e soldati; e Dio faccia che qualcuno degli uomini non abbia la mancia prima delle feste. Dunque su, fate presto, cercate la via di rimediare… avranno trovato il podestà ammazzato… Vergine! che precipizio vuol essere! E – dice Ghita – di non vi scordare che lassù non c'è da rodere, e perciò subito che potete mandategliene.

Al fine di queste parole vide sulla tavola gli avanzi della cena, e, presili con prestezza e senza domandar licenza, si empiè il grembiule di tozzi, di pezzi di carne, di frutta, versò in una zucca che portava a tracolla il vino che restava: bevve quello che non vi potè capire, e forbendosi la bocca col dosso della mano, se n'andò, data una spinta a Sandro per levarselo d'innanzi, senza dire a quei due nè asino nè bestia.

Martino si trovava con troppi affari in una volta, e la sua testa non vi reggeva. Con una mano alla barba e l'altra dietro le reni, camminava per la camera scuotendo il capo e soffiando. La subita mossa delle genti da Barletta l'ammoniva a prestar fede a Don Michele, che l'aveva preveduta tanto sicuramente, e gli facea pensare che fosse realmente quell'uomo d'alto affare che diceva.

Prima di tutto decise d'aggiustarla con lui, onde non lo scoprisse quando capitasser quelli che andavano in traccia degli uccisori del podestà. Così, deposta ogni superbia, e mezzo raccomandandosi, gli disse che l'avesse per cosa sua, promettendogli che l'avrebbe ajutato nella sua impresa.

7Questa ragione onde aver la vita salva, ha, in oggi ancora, molto potere sui così detti briganti della Campagna di Roma. Chi scrive queste pagine conosce un uomo che in tal modo è campato dalla morte, forse altrimenti inevitabile.