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Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta

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Appena terminato quest'accordo si sentì lo scalpitar di molti cavalli che entravano pel ponte, ed una voce chiara e forte come una tromba, che chiamò più volte: Conestabile! Schvarzenbach! Scese questi, e trovò che Fieramosca e Fanfulla da Lodi lo aspettavano alla testa di molti cavalleggieri.

Il lettore si ricorderà forse d'aver veduto il secondo annoverato fra i campioni italiani.

Fra quanta gente d'arme contasse l'Italia non v'era l'anima più disperata di costui. Per ogni leggiera cagione, e senza cagione più spesso, metteva la vita a qualunque rischio. Senza pensieri, non attendeva che a darsi buon tempo, ed al bisogno menar le mani. Agile come un leopardo, tutto nervo, e d'un corpo snello e ben complesso, pareva che la natura, sapendo che in quello doveva abitare un'anima temeraria sino alla pazzia, avesse avuto cura di formarlo in modo che potesse essere atto a resistere alle prove più perigliose. Figlio d'un uomo di Girolamo Riario, s'era trovato fra l'armi fin dall'infanzia, ed era stato al soldo di tutti gli Stati d'Italia, perchè ora per risse, ora per disubbidienze, ora per propria incostanza sempre gli toccava andar in traccia di nuovi padroni. I Fiorentini erano stati gli ultimi, e s'era fuggito da loro per questo fatto.

Stando a campo alle mura di Pisa fu dato un assalto, nel quale, se Paolo Vitelli, capitano per la Repubblica, non avesse fatto sonare a raccolta e rattenuti, perfino colle ferite, i soldati fiorentini che erano pieni d'ardire nel seguire il primo vantaggio, Pisa al certo si prendeva quel giorno; e la condotta del Vitelli tacciata a Firenze di tradimento, fu poi, come ognun sa, la cagione della sua morte. Fanfulla, sempre alla testa de' primi, era giunto su per una scala ad abbracciar un merlo; rotando la spada s'era fatto largo; già stava sul muro, e tanto menava colpi, stoccate e botte da disperato, che per poco gli altri avrebbero avuto campo a seguirlo.

In questa si suona a raccolta, ed è lasciato solo. Non si poteva dar pace di doversi ritirare; pure scese fremendo, mugghiando per la rabbia fra una tempesta di dardi, sassi, archibugiate che non gli fecero un male al mondo, e sano e salvo tornò al campo correndo come un pazzo, e dicendo villania a quanti incontrava. Nel padiglione del capitano erano i commissarj fiorentini col Vitelli a consiglio: saltò Fanfulla invelenito in mezzo a loro, e chiamandoli traditori, cominciò con un bastone che avea raccolto a scaricar su tutti, senza guardar nè a chi nè come, nè dove, una grandine di legnate e calci e spinte e pugni; e tra che egli era robustissimo, tra che quelli non se l'aspettavano, li mise in tanto scompiglio, che si trovarono in terra malmenati e sottosopra, prima che potessero conoscere chi fosse l'autore di quelle busse.

Dopo una tale impresa, senza dir addio, come si può pensare, saltò a cavallo; ed era già lontano dal campo quando quei capi rimessisi in piedi pensarono a farlo pigliare.

Lasciati così i Fiorentini s'era condotto con Prospero Colonna, ed ora si trovava in Barletta col resto della compagnia.

L'avviso recatovi da Boscherino che il podestà era stato preso dai venturieri, dato in modo che non cadessero sospetti sopra di lui, avea messo in moto il bargello colla sbirraglia di Barletta, i quali s'erano drizzati verso la montagna. Fieramosca e Fanfulla con alcuni cavalli gli eran venuti seguitando, e, mandata innanzi la corte, s'eran fermati a guardar lo sbocco della valle ov'è posta la chiesetta.

Ricevettero dalle mani de' birri due prigioni che avean avuto con gran fatica, e li condussero alla torre ove comandava Martino Schvarzenbach.

Quando questi scese sotto il portone, i due sciagurati stavano in mezzo ai soldati aspettando venisse aperta la prigione. L'uno era il capo-banda Pietraccio, giovane feroce, di membra e d'aspetto come un selvaggio, con un ciuffo scompigliato di capelli rossicci che gli cadeva sugli occhi, e le braccia nude, lorde ancora del sangue del podestà, strette sul petto da una corda che entrava nelle carni; aveva lo sguardo basso e smarrito del lupo colto nel laccio. L'altra era una donna alta di statura, di belle forme; il travaglio però, l'uso dei delitti, la disperazione in che la metteva il suo stato presente, la facevan parere maggior d'anni che non era realmente. Una ferita toccata nel capo mentre si difendeva, le avea tolto di venir quivi altrimenti che sulle braccia di due soldati. La lasciarono giù sul lastrico, ed in quella scossa il rinnovato dolore della ferita le fece aprir gli occhi e mandar un gemito profondo, mentre il sangue sgorgandole dalla fronte le imbrattava il volto ed il petto. Il carcere ov'era stato Don Michele venne aperto, e vi fu gettata con Pietraccio, così legati com'erano.

Sbrigatisi da costoro, i soldati tornarono verso la macchia, se mai vi fosse da raccoglier altri prigioni. Fanfulla salì nella camera del Conestabile, ed Ettore profittò di quel ritaglio di tempo per andare alla foresteria.

Le due donne, che non l'aspettavano a quell'ora, rimasero nel vederlo, e dopo le prime accoglienze udirono le cagioni che l'avean condotto al monastero. Narrando la caccia data ai malandrini, disse loro che insieme col capo era stata presa una donna, la quale, fatta testa all'entrata d'una grotta ov'erano appiattati, avea feriti parecchi birri, finchè da una roncolata sul capo era stata buttata in terra.

Ginevra commossa dalla sventura di costoro, volle andare a soccorrerli. S'alzò, e preso ciò che stimava opportuno da un suo armadio ove teneva più qualità di polveri e d'unguenti, che eran, come abbiam veduto, stati talvolta adoperati anche in servigio degli stessi assassini, pregò Fieramosca andasse dal Conestabile per la chiave della prigione.

Si mosse questi, e per la scala a chiocciola salito alla camera di Martino, vi sentiva nell'avvicinarsi all'uscio uno stropicciar di piedi, del quale non riusciva a capir la causa. Spinta la porta che era socchiusa, vide Fanfulla nel mezzo con uno spadone a due mani che avea tolto da un rastrello, giocando con esso come fosse un bastoncino. Si schermiva, facea mulinelli, tirava stoccate, calava fendenti con tanta velocità che la spada si vedeva appena in aria come una nebbia; e se avesse avuto a difendersi contra un esercito non avrebbe fatto altrimenti. Ettore che era per entrare, si rattenne sul piè di dietro per non toccar qualche sfregio, e guardava sorridendo questa pazza giostra, che l'altro seguitava non accorgendosi di essere veduto. I colpi che ora tirava all'aria, pareva, per disgrazia del padrone di casa, che non fossero andati sempre a vuoto. Fosse sbaglio o malizia, uno di essi aveva terminato i lunghi servigi del mezzo barile che giaceva sotto il letto, diviso in due parti come una noce, ed il liquido che conteneva s'andava livellando nella parte più bassa del pavimento.

– Il vinsanto si svina tardi quest'anno – disse alla fine ridendo Fieramosca; e Fanfulla, voltatosi alla voce, lasciò cadersi ai piedi lo spadone, e si gettò rovescio sul letto con tante risa e tanto schiamazzo che pareva impazzato.

– Che diavolo hai fatto, pazzo da catena? Guardate! guardate! è mezz'ora che siam'arrivati, ed ha fatto più danni che un terzo di Catalani in una settimana… E Martino dov'è? —

Fanfulla finalmente si racchetò e disse:

– Era qui poco fa: e diceva che lo spadone a due mani non lo sanno adoperare altri che gli Svizzeri e i Tedeschi; ed io gli ho risposto ch'ei diceva il vero, e l'ho pregato m'insegnasse un poco, e provandomi il meglio ch'io sapevo m'è venata fatta una tacca al barilozzo (impiccato sia se l'ho fatto apposta) ed egli si è crucciato da maladetto senno. Guarda che uomo bestiale!.. non vuol compatir niente! e lo sapeva pure che noi poveri Italiani non sappiamo tener la spada in mano! Insomma abbiam avute di sconce parole, e s'è partito giurando e bravando. Com'avresti fatto? Senza curare di pigliarla con uno schermidore par suo, gli ho mandato un cancher alla lombarda, e gli ho detto: Se volete scender nel prato avanti la torre vi farò una tacca alla vostra zucca tedesca per mostrarvi che quella del barilozzo è stata per isbaglio.

– E lui che cos'ha risposto?

– Che me gli levassi d'attorno che l'avevo fradicio. —

E finir queste parole, e voltolarsi sul letto ridendo, e mandando per aria ciò che v'era, fu tutta una cosa. Il fatto stava appunto in questi termini; ed il capitano non curandosi d'aver che fare con questo diavolo, dall'altra parte trafitto all'anima per la perdita del suo vino, era salito bestemmiando in tedesco su d'un palcaccio al secondo piano ove s'era nascosto Don Michele. Da quella sua fortezza udendo la relazione di Fanfulla alzava la voce tratto tratto per dirgli villania, alla quale questi rispondeva con altrettanta in forma di parentesi pur seguitando il racconto.

Fieramosca che non aveva l'animo a questi scherzi, entrato di mezzo, non senza gran fatica li mise d'accordo. Martino scese, Fanfulla se ne andò ridendo, ed Ettore che anch'esso durava fatica a non ridere, vedendo il Tedesco che contemplava le due parti del suo barile coll'occhio d'un avaro che trovi lo scrigno aperto e vuoto, espose il desiderio di Ginevra d'entrare nella prigione, e con buone parole domandò gli venisse aperta.

Il Conestabile intanto avea rizzati i due pezzi del barilozzo, e con un panno che a modo di spugna andava inzuppando e poi spremendo con diligenza ne' recipienti, procurava salvar le reliquie della sua sconfitta. Intesa la voglia di Ginevra, diceva brontolando:

– Ecco! gli assassini trovano chi li soccorre, e un pover uomo che se ne sta pe' fatti suoi, e non fa male nemmeno al pane, trova i matti che gli mandano a sacco la casa.

– Ser Martino, mio caro, avete cento ragioni; ma vedete ch'io non ci ho che far niente.

– Sta a vedere che ci avrò che far io; sono andato io a pregarli che venissero a darsi buon tempo in casa mia! —

 

Fieramosca instava.

– Bene, bene, tornate fra mezz'ora, entrerete in prigione… Che ci possiate morir tutti – disse fra' denti; ma Fieramosca era già a mezza scala, e non lo potè sentire.

CAPITOLO DECIMOPRIMO.

La cattura di Pietraccio e della madre era un accidente che poteva aver gravi conseguenze per Martino, e turbare l'esecuzione dei progetti di Don Michele: se n'erano fatta parola scambievolmente, ed erano d'accordo che bisognava far fuggire l'assassino onde non venisse condotto a Barletta,[Pg 113] ove avrebbe potuto palesare la condotta tenuta dal capitano. Ma il modo non era facile trovarlo senza che n'avesse il carico chi lo dovea guardare.

Quando Fieramosca era venuto per ottener l'ingresso del carcere, turbato com'era per la quistione avuta con Fanfulla, non potè così alla prima giudicare se ciò potesse guastare od aggiustare le cose sue. Ebbe però bastante talento per prender tempo confidando nell'astuzia del suo nuovo amico, e risalì da lui sperando avrebbe trovato il modo di sbrigarlo da quel viluppo. Quando Don Michele udì la domanda di Fieramosca disse:

– Se l'avessimo pagato non ci avrebbe serviti meglio. Lasciate fare a me, Conestabile, e vedrete se so lavorar pulito. Ma… ricordatevi!

– Resta inteso, non occorr'altro. Però… le monache…

– Le monache – rispose Don Michele ridendo – non le toccheremo; state pur quieto. Ora datemi le chiavi della prigione ed aspettatemi qui. —

Prese le chiavi, scese al pian terreno ed aprì la porta pian piano: tese l'orecchio, ed udendo che la madre ed il figlio stavan parlando, si fermò sul primo scalino dei quattro o cinque che scendevano in quella buca, di dove allungando il collo poteva vedere ed udire que' due meschini.

La donna era stata deposta in terra col capo appoggiato ad una trave che giaceva in un angolo, ma per l'angoscia essendole saltata una febbre gagliarda, nel divincolarsi era caduta colla fronte sul tufo umido del suolo, nè aveva avuto mai forza di rialzarsi. Il figlio, colle braccia legate sul petto in modo che non poteva muover un dito, s'era provato, ma inutilmente, d'ajutarla; alla fine per disperato se l'era posto ginocchioni accanto, e girava l'occhio istupidito ora sulla madre, ora per le mura.

La donna tentava ogni tanto di alzar la testa, ma era troppo debole per farlo da sè. Con molto stento riuscì pure alla fine al figlio di sottentrare con un ginocchio in uno di quegli sforzi, e così la venne a rimettere nella sua prima posizione; ma questo moto le cagionò tanto dolore che portandosi le mani al capo con un gemito prolungato disse:

– Maladetta la ronca del villan calabrese! Ma se il diavolo mi lascia due minuti… voglio che sappi una volta chi sei… Che varrebbe pregar Dio e i Santi? Veramente m'han dato retta quando li pregavo!.. – E qui, alzando a stento le pupille spente verso la volta, profferì bestemmie da far rizzare i capelli in capo a tutt'altri che a Pietraccio.

– Eppure (seguitò a dire mutando quella disperazione feroce in un'altra più dolorosa ed egualmente profonda) eppure anch'io avevo sperato nel perdono!.. quando cantavo coll'altre monache!.. Oh maladetta l'ora che misi piè su quella soglia!.. Ma che serve? Ero del diavolo prima di nascere;… ho provato a fuggirgli… ecco come ci son riuscita. – E di nuovo alzati gli occhi al cielo, disse con una espressione che non si può descrivere – Sei contento? – Poi volta al figlio: – Ma se puoi uscir di qui… se sei uomo… chi è causa della mia morte e della tua rovina arderà con me sempre, se i preti dicono il vero. Quella notte, a Roma, ch'io ti posi a canto di Tor sanguigna perchè ammazzassi quel gentiluomo, e tu, pazzo, gridasti prima di dargli, e così ti presero e ti conciarono come tu sei… Era Cesare Borgia!.. Quando costui studiava in Pisa (stavo in monastero) s'innamorò di me; io, pazza birbona! di lui. Sapevo io chi era?.. Una notte venne a me… Avevo una mia figlioletta di sette anni… si risentì… dormiva in una cameruccia vicina… lo vide scavalcando per una finestra; si cacciò a gridare… guai a lui se l'avessero scoperto… era vescovo di Pamplona di fresco… le gettò i cuscini sulla testa… e su colle ginocchia… Mostro! io caddi in terra… Giurami per tutto l'inferno, per la morte mia che l'ammazzerai; accenna col capo che lo giuri… almeno questo… —

L'assassino cogli occhi orribilmente spalancati sulla madre crollò il capo ed accennò che farebbe, ed essa levandosi dal collo una catena che aveva sotto la camicia soggiunse:

– E quando gli avrai spaccato il cuore digli: Guarda questa catena… sbattigliela sugli occhi… te la rende mia madre… Non ho finito… Oh un momento ancora! poi non ti temo… Quando mi riscossi, mi trovai stesa sul lettuccio e tu sei… oh non posso dirlo… accanto alla povera Ines. Oh com'eri bella!.. ed ora sei in paradiso!.. ed io! io! perchè ho d'andare all'inferno?.. – Quest'ultime parole furono accompagnate da un urlo che fece tremar la volta. Era morta.

Pietraccio non si commosse gran fatto; con guardo stupido pose mente ai moti convulsi della madre. Quando la vide spirata, s'accovacciò nell'angolo più lontano, come fa una fiera, che chiusa in gabbia con un cadavere della sua specie, prova ribrezzo e lo sfugge.

Tutto quel racconto fatto interrottamente ed in una specie di delirio non era stato inteso da lui se non in parte. L'idea che gli rimaneva più viva, era che avea a vendicarsi di Cesare Borgia per più ingiurie, ma principalmente, a parer suo, per essere stato ridotto ne' termini in cui si trovava dalla barbarie di costui.

Il racconto medesimo aveva però ben altrimenti colpito lo sgherro del Valentino. Chi avesse potuto vederlo in quel momento avrebbe creduto che ogni parola di costei gli togliesse una porzione di vita, tanto si veniva cambiando in viso. Quando la donna cadde sul pavimento, mancò poco non accadesse a lui lo stesso.

Scese mal fermo sulle gambe, e colla mano che gli tremava tagliò le corde che legavano Pietraccio. Fissò gli occhi un momento sulla catena che già aveva al collo, poi disse:

– Or ora verranno a visitarti un gentiluomo ed una donna. Voglion liberarti, ma che non appaja ciò sia opera loro. Sii accorto, e mentre vorranno vedere se la donna si possa ancora ajutare, prendi la scala, fuggi, e fa' di non esser colto; sei già condannato nella testa. —

Dette queste parole con grandissima fretta, come avesse avuto fuoco sotto i piedi, gettò alla sfuggita uno sguardo di ribrezzo sulla donna, lasciò il suo pugnale nelle mani di Pietraccio, ed in un lampo si trovò nella camera del Conestabile. Si dirà a suo luogo quanto ciò che avea veduto ed udito dovesse turbare anche un ribaldo par suo.

Il lettore forse dirà: Ma insomma non la finiamo mai con queste malinconie di assassini, traditori, prigioni, morti, diavoli e peggio?

Se noi abbiamo indovinato la sua mente, egli con buona licenza non ha indovinato la nostra che era appunto in questo momento di finirla, mandar al diavolo Don Michele e Pietraccio e Martino (che a dirla in confidenza cominciavano a divenir fastidiosi anche a noi), e pregarlo a saltar nel bel mezzo della rocca di Barletta che troveremo assai mutata da quando ci siam venuti l'altra volta con Don Michele.

Il cortile, le logge erano tese di parati in seta di tutti i colori con ghirlande di mortella e d'alloro, che formavano festoni e cifre; e tutte le bandiere dell'esercito pendevano ondeggianti dai balconi e dalle finestre. La turba composta di spettatori oziosi e d'uomini che s'affaccendavano a metter in ordine l'apparato, brulicava, ora stringendosi, ora allargandosi per le scale, pel cortile, per le logge. Soldati, operai, servitori, ragazzi andavano e venivano carichi d'attrezzi, di scale, di suppellettili d'ogni sorta, per fornir la mensa od adornar il teatro. Entravano grasce, frutta, vini, cacciagioni, di che i primi della città e dell'esercito a gara presentavano il Capitano di Spagna. Era un andare e venire, un gridare, un chiamarsi; in conclusione, un disordine inestimabile.

Quando la campana della torre suonò quattordici ore comparì in cima alla scala esterna il gran Capitano con tutti i suoi baroni; e l'allegrezza che sentiva di riveder la figlia (una staffetta giunta poco prima per annunziare il suo arrivo l'avea lasciata a tre miglia da Barletta) avea voluto mostrarla nella gala del suo vestire e di quello del suo corteggio.

Sopra una vestetta di drappo d'oro riccio portava una cappa di velluto pavonazzo acceso, foderata di zibellino, ed in capo una berretta compagna. Da un bellissimo zaffiro che serviva di fermaglio spuntava un pennacchio lungo poco più d'un palmo, ma interamente composto di perle fine infilzate in fili d'acciajo, e ondeggiava leggiero sulla fronte come fosse di piuma veramente. La spada ed il pugnale colle guaine parimenti di velluto pavonazzo scintillavano di gemme, e sul petto a sinistra avea una spada ricamata in rosso, che era l'insegna dell'ordine di San Yago.

Trovò a piè della scala una mula bianca catalana coperta sino a terra d'una gualdrappa di seta pavonazza cangiante, trapunta d'oro; messosi in sella, il suo seguito montò a cavallo, e tutti insieme si mossero per andare incontro a Donna Elvira.

Prospero e Fabrizio Colonna, vestiti di sciamito rosato, e pieni di ricami d'argento, cavalcavano, a' suoi lati, due cavalli turchi, i più belli che si fossero visti da gran tempo in Italia. I due cugini, oramai oltre la virilità, stavano su quelle alte selle di velluto frenando gli slanci de' loro cavalli in atto così bravo, che ben apparivano que' gran soldati che erano, ed i migliori condottieri che contasse allora la milizia.

Nella turba che seguiva si notava all'aspetto accigliato e robusto Pedro Navarro, inventore delle mine, usate con tanta fortuna all'espugnazione di Castel dell'Uovo. Diego Garcia di Paredes, l'Ercole di quel tempo, il quale non usando quasi mai coprirsi d'altro che di ferro, e neppur avendo in pronto abiti da comparire in tal giorno, aveva limitata la sua gala a far sì che le sue armi fossero meglio forbite del solito, ed a togliere il più feroce di parecchi cavalli da battaglia che aveva. Era un gran stallone calabrese preso al capestro da poche settimane, alto, membruto e nero come un corvo, senza pelo d'altro colore.

Il solo Paredes avrebbe osato e potuto cavalcare questa bestia selvaggia, che avvezza fra i boschi, trovandosi ora fra tanto popolo e tanto romore, s'era imbizzarrita, sbuffava e schiumava come un leone.

Ma la statura del cavaliere, la sua grave armatura e l'ajuto d'un freno lungo mezzo braccio che insanguinava la bocca al cavallo, glielo facevan soggetto, e dopo aver fatti nel muoversi cento strani salti (e nessuno era tardo a dargli luogo), prese il savio partito di non stimarsi più forte di Diego Garcia, che inchiodato fra gli arcioni rideva di quegl'inutili sforzi.

Il fiore della gioventù italiana veniva di conserva coi baroni spagnuoli. Ettore Fieramosca cavalcando fra i suoi due amici più cari, Inigo Lopes de Ayala e Brancaleone, portava un mantello di raso azzurro ricamato in argento, lavoro e dono delle donne di Santa Orsola. Aveva grido d'esser il primo dell'esercito nel maneggiare un cavallo. Quello che aveva sotto, color di perla coi crini scuri, donatogli dal signor Prospero, era stato addestrato da lui con tanto studio, che pareva capisse senz'ajuto di briglia o di sproni tutti i voleri del suo signore.

Pareva che Fieramosca avesse il dono di far sempre la prima figura in ogni cosa e fra tutti ovunque si trovasse.

Perfetto nelle forme del corpo, ne mostrava la gentile struttura con un vestire stretto alla carne, che in ispecie alle gambe ed alle coscie non gli faceva una piega, tutto di raso bianco; ed era tanta la sua bellezza, la grazia nell'atteggiarsi, che, passando la cavalcata per le strade, le turbe guardavano lui solo, e di lui solo si maravigliavano. Il giovane s'avvedeva di questo trionfo, ma quasi fra sè arrossiva di cogliersi in un pensiero che appena si vuol perdonare all'altro sesso.

In ultimo venivano gli scudieri di questi capi; e, come voleva l'uso in allora, ogni signore procurava avere a' suoi servigi uomini di diverse nazioni; e più erano barbari e strani, più s'apprezzavano: onde si vedevano Spahis turchi colle corazzine a squame, le storte ed i cangiarri: uomini del regno di Granata armati di zagaglie moresche, sagittarj tartari, e questi erano due staffieri di Prospero Colonna vestiti di colori vivacissimi cogli archi ed i turcassi d'argento. V'erano negri venuti dall'alto Egitto armati di lunghi dardi; e le barbare fisonomie di questa gente contrastando co' visi europei, formavano un quadro pieno di vaghezza e di varietà.

La mossa di Consalvo fu salutata dallo sparo di tutte le artiglierie che guernivano le torri e gli spaldi del castello, e dalle campane sonando a distesa. Fra tanto frastuono spiccava di tempo in tempo lo squillo delle trombe ed il suono degli strumenti, producendo un'armonia, se non perfettamente d'accordo, almeno tale da esprimere l'allegrezza marziale che animava l'esercito.

 

In questa giunse l'avviso al gran Capitano che il duca di Nemours co' suoi baroni era già entrato in Barletta; onde fermatosi mandò alcuni de' suoi ad incontrarli, e pochi momenti dopo i Francesi comparvero al lato opposto della piazza.

Il duca vedendo Consalvo smontato, e che veniva ad incontrarlo, scavalcò, e dopo essersi ambedue stesa la mano con gentile accoglienza, il Francese disse cortesemente che stimerebbe gran villania se, invitato ad una festa, venisse a disturbarla, come sarebbe accaduto se per cagion sua si ritardasse d'un momento al padre di riabbracciar la figlia. Conoscendo che s'andava ad incontrarla, pregava gli fosse concesso venire con essoloro, non dubitando che se la guerra li rendeva nemici, non volesse il Capitano spagnuolo tenerlo pel primo di quanti pregiavano in lui il valore, l'ingegno e l'altre sublimi sue doti. Non si poteva non esser cortese a tali parole. Risaliti i due capi a cavallo, s'avviarono i primi, ed il seguito tenne loro dietro alla rinfusa, usandosi scambievolmente que' modi cortesi de' quali i Francesi in ogni età sono stati sempre i maestri.

A poco più d'un miglio fuor della porta il corteggio si fermò, vedendo comparire da lontano la schiera che scortava la lettiga di Donna Elvira.

Veniva in compagnia di Vittoria Colonna figlia di Fabrizio, la quale divenne poi moglie del marchese di Pescara, e si rese cotanto chiara per fortezza, per virtù e per ingegno. Scavalcato Consalvo, corse ad abbracciare la figlia, che era scesa dalla lettiga, e se la tenne stretta chiamandola più volte Hija de mi alma8, e colmandola di carezze che contrastavano mirabilmente colla matura gravità d'un tanto uomo.

Ettore ed Inigo erano stati scelti da lui a servir di scudieri alla figlia, onde vennero avanti conducendo una chinea per farla salire in sella. Il giovane italiano piegò un ginocchio a terra, e la donzella, posando leggermente sull'altro la punta del piede, si pose a cavallo con tanta grazia che più non si poteva vedere. La fronte pallida di Fieramosca si tinse d'un legger vermiglio, quando nel rizzarsi gli furono rese grazie da Donna Elvira con un tal sorriso, e con un volger d'occhi, che mostravano quanto avesse cara la scelta di un così bel giovane a suo scudiere.

L'indole di costei (forse n'era cagione la soverchia tenerezza del padre) non avea per avventura la maturità di senno che si potrebbe pur trovare in una giovane di vent'anni. Il cuor caldo e la vivace fantasia non erano in lei sempre temperate da quel giudicar retto, tanto difficile a trovarsi in ambo i sessi, e che pure, dopo la virtù, è il più prezioso giojello dell'anima.

La sua amica Vittoria Colonna univa a questa dote l'acutezza ed il brio d'un prontissimo ingegno. Quantunque ambedue si dovessero dir belle egualmente, non si sarebber però potute trovar due bellezze d'un carattere più dissimile. Gli occhi sfavillanti di Donna Elvira, il suo frequente sorriso, forse cagionato in parte da un intimo senso che l'avvertiva d'esser così più bella, piacevano sulle prime; ma le forme grandiose e veramente romane della figlia di Fabrizio, il suo bel volto, simile a quello immaginato dagli scultori greci per figurare le Muse, un certo raggio divino che le balenava fra ciglio e ciglio s'insinuavano ben altrimenti nel cuore, generandovi un affetto ed una maraviglia che si cancellavano difficilmente. Un occhio sagace avrebbe forse creduto scorgere in lei una tinta d'orgoglio. Se v'era, la sua virtù seppe dipoi vincerlo e volgerlo al bene.

8Figlia dell'anima mia.