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Le amanti

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– Smetti.

Ella si era fatta di mille colori e aveva abbassato gli occhi.

– Non fumare più, smetti; smetti di vestirti come ti vesti; non bere cognac e non parlare di amore col terzo e col quarto. Smetti, smetti, Adele.

– Che ho fatto di male?

– Nulla: ma sei ridicola. Chi te lo fa fare?

– Così – diss’ella, con voce fievole, a capo basso.

– Vi è una ragione, a queste stravaganze. Dilla subito. – replicò improvvisamente.

– L’idea di piacerti… – balbettò l’infelicissima.

– Hai sbagliato. Mi dispiaci enormemente.

– La paura del tuo disprezzo… hai amato tante donne intelligenti e fini… io sono una creatura volgare…

– Mi sei piaciuta come eri: non ti guastare. Smetti tutte queste buffonate. Tu non ti puoi cangiare.

– Oh Dio! – singhiozzò la poveretta.

– E ringrazia il Signore, invece, che non ti cambia. Se ti cambiasse, non ti amerei più.

– Perchè mi dici questo?

– Perchè è la verità. Ritorna alla tua semplicità, mia cara, o ci lasciamo per sempre.

Come ritornarvi totalmente? Ella obbedì, con la devozione della persona assolutamente innamorata, a quanto le aveva detto Paolo Spada; ella ritornò, tristemente, alle sue vesti di gusto borghese e ai suoi cappellini insignificanti: ella lasciò le sigarette e il cognac: ella schiodò tutti i ventagli vecchi e tutti i brandelli scoloriti delle stoffe, dalle pareti delle sue stanzette. Ma tutti questi atti, consecutivi, le rammentavano la inanità della sua persona: le ripetevano, mandando il rosso della vergogna al viso, che ella non poteva elevarsi, in nessun modo, dalla mediocrità dove era sempre vissuta: le replicavano, in tutte le forme, che una donna semplice o anche sciocca, sempre tale rimane e che non vi era speranza, per lei, di essere considerata da Paolo Spada salvo che per una donnetta di casa, scema, ignorante, che gli dava dell’amore senza fantasia e senza drammi, quando egli aveva voglia di essere amato. Lo scorno dell’esperimento fatto e mancato le ritornava sempre, massime quando, era sola: ed ella chiedeva al Signore, nelle sue preghiere, per qual ragione era stata slanciata e poi chiusa in un amore dove tutte le sue facoltà soffrivano, dove soffocava nel silenzio ogni suo dolore e dove ella non avrebbe mai più trovato la felicità, giammai.

Le sue sofferenze si acuivano. Ella frequentò molto la chiesa, in quel tempo. Cercava la liberazione, o cercava la pace; ma non otteneva nè l’una, nè l’altra, giacchè ella era legata a Paolo Spada per la vita e per la morte, giacchè ella era sempre in un profondo spostamento morale e materiale. Paolo Spada, giusto in quel tempo, fu preso da un accesso di mondanità. Ogni sera indossava la marsina, metteva un fiore all’occhiello, arricciava e profumava i suoi baffi e partiva. Ella lo aiutava a vestirsi, avendo per lui le cure minute di una madre: non gli chiedeva neppure dove andasse e a che ora ritornasse. Lo aspettava. Quando aveva chiusa la porta; alle sue spalle, cominciava per Adele una lunga veglia. Ella riordinava la casa, tutta quanta, dandole il suo assetto notturno; lavorava all’uncinetto, alla coltre fatta a disegno di stelle, poichè aveva rinunziato alla lettura: sonnecchiava; si addormentava sulla sedia. Talvolta si svegliava, di soprassalto, a un rumore: non era nessuno. Talvolta lo stridore della piccola chiave inglese di Paolo Spada che schiudeva la porta del quartierino, la scuoteva. Lo vedeva riapparire bene spesso pallido e stanco, senza voglia di aprir bocca.

– Fai male ad aspettare – le diceva, brevemente.

– Non importa, Paolo.

Non le diceva più nulla, lui, assorto nella stanchezza: non le faceva una carezza non le dava un bacio: si addormentava di un sonno pesante. Ella restava sveglia, nervosa, piangendo chetamente talvolta. Vi erano notti in cui egli rientrava eccitatissimo. Le raccontava tutto, mettendo in burletta i tipi ridicoli della società, ridendo dei buffi spettacoli, elogiando fugacemente qualche donna incontrata. Adele tendeva l’orecchio, a queste lodi:

– Era molto bella, donna Maria Vargas?

– Bellissima: pareva Monna Lisa del Giocondo.

L’amante sciocca, dai capelli castani insignificanti, dai grandi occhi limpidi e meravigliati, ammutoliva. Egli continuava a chiacchierare, fumava, si faceva fare del tè che ella aveva imparato ad apprestare benissimo, mentre le mani le tremavano, nel suo ufficio di donnetta di casa. E, spesso, tornando da questa casa luminosa, da questi teatri scintillanti, dove aveva visto delle donne bellissime, dove il suo animo di artista aveva esaltato la sua ammirazione di uomo, egli era con Adele Cima così carezzoso e così appassionato che, malgrado la piccola intelligenza di lei, ignara delle mistificazioni umane dell’amore, ella intendeva donde venisse questo rinnovellamento passionato; e tutto il suo essere inorridiva alla mistificazione. Vagamente, ma ostinatamente, ella era gelosa di tutte queste donne mondane, signore e attrici, grandi dame e grandi avventuriere che, preso da un furore di esteriorità tutto estetico, Paolo Spada ricercava ogni giorno e ogni sera: ma Adele Cima non arrivava a precisare la propria gelosia. Non diceva nulla: ma fiotti di veleno le inondavano le vene. Si consumava, dentro, e non voleva dare un sol dolore a Paolo, sentendo anche che era inutile e dannoso fargli delle scene. Qualche indizio di tradimento, molto tenue, forse ancora ingiusto le s’ingrandiva nel cuore appassionato, col dubbio di qualche fatto compiuto. Paolo Spada aveva cambiato fiore all’occhiello: era una rosa bianca, adesso, quella che portava ogni giorno. Una copia dell’Amore di Maria era partita, avvolta in una stoffa medievale, a rose bianche su fondo rosa pallido, e diretta a un indirizzo sconosciuto. Un giorno, uscendo per alcune spesuccie, aveva incontrato Paolo Spada sotto l’atrio della Posta, a San Silvestro: egli aveva avuto innanzi ad Adele Cima, una leggiera fiamma al viso. Poi, finalmente, un giorno, Adele ebbe la prova precisa e netta del tradimento: un biglietto di convegno, di donna Maria Vargas: un biglietto cascato dalla tasca di Paolo Spada. Era impossibile il dubbio. Egli rientrò: trovò Adele Cima gittata sul letto, vestita, col viso verso la parete.

– Che hai? Ti senti male?

– Sì.

– Dove hai male?

– Alla testa.

– Ora ti do l’antipirina. Vado a chiamare il medico?

– È inutile: è un male che passa.

Veramente, egli aveva udito qualche cosa di cambiato nella voce di Adele Cima: ed aveva esitato a ritornare nella sua stanza. Prima di uscire, andò da lei, di nuovo:

– Come vai?

– Meglio: grazie.

– Vuoi qualche cosa?

–… No

– Io torno subito.

– Va bene.

Veramente non si era voltata a lui e la voce era più tronca e più velata che mai. Ma egli attribuì alla nevralgia tutti quei fenomeni e uscì. Quando rientrò, alle undici di sera, la trovò ancora sul letto, supina, in uno stato di abbattimento immenso, con orribili crampi allo stomaco. Aveva bevuto della morfina per avvelenarsi: l’aveva trovata in una boccettina che Paolo Spada teneva in serbo, per iniettarsi ogni tanto. Egli non le strappò questa verità che a furia di affannose domande, di richieste strazianti, giacchè tutto l’essere di Paolo era trangosciato all’idea che una povera creatura umana avesse potuto morire per lui. Ella lo guardava, con occhi così disperati e amorosi, insieme, che egli non resisteva a quello sguardo. Al medico accorso Paolo non disse nulla, non seppe neppure ricordarsi la misura della morfina che Adele aveva potuto ingoiare: e tutta la notte la sciocca amante che tutto aveva sopportato, ma non aveva saputo resistere al tradimento, tutta la notte ella fu in pericolo mortale, attaccata al collo di Paolo Spada, guardandolo con gli occhi stralunati dal male e dall’amore, toccandolo con le mani gelide e bagnate di sudore, senza poter pronunziare una parola sola, quasi strozzata, soffrendo come una dannata o cadendo in prostrazioni che parean simili alla morte. Accanto a lei, egli agonizzava. Aveva ritrovato il biglietto perduto di donna Maria Vargas, sotto l’origliere di Adele Cima ed aveva inteso la ragione di quel suicidio, la ragione immediata e invincibile.

– Perchè hai fatto questo? Perchè? – le gridò, indignato contro sè stesso, contro i capricci mondani e contro tutte le donne mondane.

La inferma non rispose, ma lo guardò con tale espressione di silenzio!

– Non dovevi farlo. Non ne valeva la pena – le disse ancora lui, esaltatissimo.

Alla morente gli occhi si sbarrarono in un infinito stupore, come se ella si meravigliasse, sentendo che un tradimento non è un tradimento.

– Sei una scema; non capisci niente; io non amo che te; sei una scema – le continuò a dire lui, in preda a una indomabile agitazione.

Adele Cima, a quell’aggettivo che si veniva ripetendo, con tanta ostinazione e tanta crudeltà, insieme a tanto amore, nella sua agonia, chiuse gli occhi per morire.

Ma non morì. La salvarono il medico e Paolo Spada. Fu molto tempo malata, ma guarì. Il suo fu un suicidio mancato, come erano state mancate varie altre cose della sua vita. Spesso, nella convalescenza, in un effluvio di tenerezza, innamorato più che mai della sua stupidina, Paolo Spada le veniva ripetendo:

– Perchè hai voluto morire?

– Per donna Maria di Vargas.

– Ti giuro che non ne valeva la pena, anima mia.

– Oh sì!

– No, no, sei sempre la stessa, non capisci nulla. Se morivi, vedi, Adele, era perchè non hai mai capito niente.

– È vero – mormorava lei, assorta.

Dopo quel tentativo di suicidio, inutile, che non le aveva dato la liberazione, ella non domandò a Dio neppure più la pace. Il suo destino era di vivere, di amare, e di soffrire per l’amore, giacchè il Signore le aveva inflitto il castigo di amare un uomo diverso da lei per istinti, per temperamento, per carattere, giacchè sul suo amore pesava la fatalità del dissidio intellettuale, lo stato di oppressione della creatura meno nobile e meno spirituale, accanto a un’anima che saliva nei cieli dell’arte. Ella doveva soffrire e non doveva trovare rimedio alle sue sofferenze, giacchè le anime alte e squisite trovano mille vie per isfuggire ai contrasti della vita quotidiana, mentre le piccole anime li subiscono tutti, senza scampo e senza rifugio.

 

Poi, più tardi, quando ella fu bene guarita e Paolo Spada fu bene sicuro che quella donna gli fosse vincolata per sempre, egli scherzò anche sul tentato suicidio. Chi manca un suicidio, non corre un’avventura buffa? L’amante sciocca ne rise anche lei, per celare la vergogna di quella ridicolaggine. Più tardi ancora, Paolo Spada tornò a tradirla, come si tradisce una buona moglie fedele, con altre donne: ella lo seppe, ma non trovò la forza di voler morire, temendo troppo di esser chiamata la più scema fra le donne. Anzi, egli finì per confessarle le sue scappate, convincendola che erano necessarie alla sua vita d’arte, ma che egli amava sempre la sua cara sciocca. La quale sciocca donna non si convinse punto, di questa necessità del tradimento: vi si rassegnò, piuttosto, poichè voleva il suo destino, così, che ella, che sarebbe stata felice con un uomo limitato e buono e onesto come lei, fosse infelicissima con un grande artista.

SOGNO DI UNA NOTTE D’ESTATE

A Roberto Bracco


Massimo era solo. L’amico d’infanzia, non veduto da anni e poi incontrato improvvisamente per la via, dopo il lieto riconoscimento era venuto, alle sette, a pranzare in casa di Massimo. E costui che trascinava pesantemente il fardello di un’estate cittadina, mentre tutti gli altri anni era partito nel mese di giugno, si riprometteva una buona serata di ricordi, in compagnia dell’amico ritrovato. Avevano, infatti, passato due ore insieme fra il pranzo, la sigaretta e i liquori, chiacchierando dei tempi antichi, cominciando tutti i loro discorsi con un ti ricordi, sorridendo vagamente alle care memorie che si affollavano alla mente, interrompendosi talvolta, dando in qualche esclamazione di rimpianto, di nostalgico desiderio. Ma nella amichevole giocondità che aveva dilatato i loro cuori, si era presto infiltrato un senso di malinconia; avevano fatte vie diverse ed erano diventati assai diversi, in tutto; partiti dal medesimo punto, avendo fatto gli stessi studii, l’amico era adesso un illustre avvocato di provincia, con moglie e figli, con idee pratiche e semplici, un po’ appesantito di fibre e di spirito; e Massimo se ne era andato per dieci o quindici anni all’estero, di legazione in legazione, diplomatico senza passione, indolente, non facendo carriera per la sua pigrizia, contento o non malcontento del suo posto di segretario, bello come un meridionale bello, ma già appassito, coi capelli che si facevano radi sulla fronte e gli occhi smorti, non ricchissimo, ma abbastanza ricco, e adesso inchiodato da un anno a Napoli, in licenza – in penitenza, dicevano gli amici. Massimo era fine, originale, ma già consumato dalla sua esistenza, e segretamente oppresso da altre cure: l’amico era pieno di talento, ma forte e tranquillo, rimasto un po’ grossolano, chiuso nel buon senso provinciale che chiama follia l’originalità, e che si mortifica nel presente, per godere in un troppo tardo avvenire. Così, mentre l’uno raccontava all’altro la propria vita, colui che ascoltava, apprezzava, giudicava, freddamente giudicava, senza dire il suo giudizio in forma cruda, mitigando, è vero, per riguardo all’amicizia d’infanzia, ma facendo intendere come si trovassero lontani: e a un certo punto si guardarono in viso, perchè pensarono di essere, oramai, due estranei; ma non lo dissero. E forse, in fondo, Massimo invidiava all’illustre avvocato di provincia la sua limitata ambizione e il suo assiduo lavoro, e la famiglia grassa, pacifica, al sicuro delle tempeste, e la casa messa alla buona, ma la casa degli avi, la casa dei figliuoli, e quel senso di praticismo, di serietà, di equilibrio, tutte le cose, infine, che gli mancavano; mentre l’avvocato invidiava a Massimo la vita vagabonda ma aristocratica nelle Corti straniere, e l’avvenire che potea essere splendido, e la libertà di scapolo, e tutte le avventure di quella esistenza fantastica, e quella casa di giovanotto elegante e squisito, visioni che avrebbero oramai turbato i suoi sonni di provincia. A un certo momento, sospirarono ambedue. La serata era calda: dal balcone aperto del salotto dove fumavano, non spirava un soffio di aria: solo un acuto profumo di gelsomini veniva di fuori. Si accorsero di essere diventati malinconici. Troppe cose del passato avevano ricordate, troppe pietre sepolcrali di persone care perdute, di amori morti avevano rimosse: tutto questo non si fa senza un triste piacere, e il piacere poi fugge, e la tristezza resta. Fumavano in silenzio, con la testa rovesciata sulla spalliera della poltroncina; poi l’avvocato aveva guardato l’orologio. Per cortesia, disse a Massimo:

– Vieni via con me?

Ma non si eran forse detto tutto? E non avevan forse fatto male, a dirsi tutto? Massimo rispose vagamente che doveva scrivere alcune lettere urgenti; che si sarebbero veduti più tardi, alla Villa, verso le undici, senz’altro. Freddamente, l’avvocato promise di esserci, e si divisero, convinti che non si sarebbero riveduti quella sera, e forse mai più. Per dolce che sia il passato, esso è morto; e fantasmi, anche soavissimi, turbano l’animo dei più coraggiosi. Quando fu solo, Massimo si pentì di essersi condotto a casa quell’amico: tante chiuse cicatrici avevano stillato sangue, in quelle due ore! Mentre egli seguitava a fumare, nel salotto, udiva il suo servitore che riordinava la piccola stanza da pranzo; e poco dopo, il giovanotto gli venne a chiedere se avesse bisogno di lui, in quella sera, chè avrebbe voluto andarsene a trovare certi amici, per fare una passeggiata, con quel caldo così grande. Massimo, con una parola, lo licenziò: la porta si richiuse; egli era perfettamente solo. Ma la sua serata era perduta, postochè aveva voluto risalire imprudentemente il fiume del passato, in compagnia di una persona che aveva amata: il viaggio lo aveva scoraggiato, facendogli perdere quell’ultimo resto di morale pazienza, che lo aiutava a tirare innanzi quella solitària e fastidiosa estate napoletana. In queste ore di ribellione, sdraiato, abbandonato a una mortale spossatezza esteriore, mentre dentro gli si sollevava il cuore, egli fumava assai certe stupefacienti sigarette egiziane, che per lo più finivano per stordirlo: ma in quella sera di estate le sigarette gli si sfacevano fra le labbra strette ed egli le buttava via, semispente, a pezzetti. Andò al balcone: era al terzo piano di un gran palazzo di via Gennaro Serra, ed essendo più basse le case innanzi alla sua, pel livello della via, vedeva un po’ di mare e un grande arco di cielo stellato.

La notte era bellissima, con un gran palpito luminoso della Via Lattea; ma la brezza non veniva e l’aria opprimeva. Sentendosi avvampare la testa, solo, stanco e pure non potendo restar fermo, prese la penna e volle scrivere: ma improvvisamente, innanzi alla carta bianca, si fece in volto più bianco della carta stessa, quasi che avesse veduto apparire non so quale visione, fra le penembre della stanza. Dalla via Gennaro Serra, un continuo rumore di carrozze si udiva: tutti uscivano dalle loro case, tutti se ne andavano per le strade, a respirar meglio, a guardare le stelle, a godere la notte napoletana bella, fresca nelle ore alte. Egli si fece di nuovo al balcone, soffocando: ritornò alla scrivania, si rimise a scrivere, ma non vi riuscì. E perchè avrebbe dunque scritto? A che servono le negre parole scritte sulla candida carta, nella effervescenza della solitudine, quando il parente, o l’amico, o l’amante che le riceve, le legge forse dinanzi a estranei, freddamente, ridendone? Troppo tempo e troppe cose passano fra il momento che si scrive e quello che si legge, fra chi scrive e chi legge, perchè una lettera serva a qualche cosa. Un organetto si fermò in piazza Monte di Dio, a suonare, con un metro largo, con un tempo largo, una canzonetta assai allegra, la quale così diventava bizzarramente triste; Massimo s’impazientì contro quel sentimentale o stanco suonatore di organino, che mutava una tarantella in marcia funebre. Forse il suonatore era vecchio; forse aveva fatto una magra giornata; forse era un infelice, perciò usciva dalla sua mano quella nenia così stravagante. Massimo si abbassò sulla ringhiera del balcone, e da quell’altezza buttò a caso una moneta da due lire al suonatore. La musica, dopo un poco, tacque: e Massimo se ne dolse; ora si sentiva più solitario, più annoiato, più insofferente che mai della sua dimora in Napoli. Che fare, dove andare, dove portare il suo corpo e il suo spirito, con quali sciocchi? con quali indifferenti, con quali esseri detestabili andare? Come passare quella notte di estate? Non avrebbe avuto riposo, lo sentiva: e sentiva che non vi era rimedio alla sua agitazione. Andava e veniva dalla scrivania al balcone, macchinalmente, quando un, sottile canto vicino lo colpì. Si fermò, ascoltando. Il canto veniva da un balcone poco discosto dal suo, anch’esso al terzo piano: aguzzò gli occhi, vide un’ombra bianca, era una donna che cantava una vecchia romanza del Tosti, poco nota, che è piuttosto un recitativo e che comincia così:

/* Il gallo canta; e i sogni lieti o tristi Fuggon nel grande oblìo. Torna al mondo dei sogni, onde venisti, Larva dell’amor mio...... */

La voce era tenue e un po’ tremula, ma le parole si udivano distintamente. Massimo tese l’orecchio, guardò acutamente, e si accorse che la donna si dondolava sopra una sedia, cantando, come se si cullasse; aspettò che ella avesse finito, poi, piegandosi sulla ringhiera, chiamò:

– Luisa, Luisa?

– Che volete? – rispose una fresca e lieta voce femminile.

– Buona sera: vi sto ascoltando, ma la vostra canzone è troppo triste. Perchè non ridete un poco?

– Così, per ordine vostro?

– Ve ne prego: ridete.

– A che servirebbe?

– Per rallegrare la mia infinita malinconia.

– Voi, malinconico? – e diede in uno scroscio di risa fresco e limpido.

– Brava, brava! – egli esclamò, applaudendo.

Lei, per parlare con lui, si era alzata dalla sedia, si era messa all’angolo del balcone, curvandosi per veder meglio, e non li divideva che lo spazio di una stanza; le due case erano vicine.

– Vi basta? – chiese Luisa ridendo ancora.

– Mai abbastanza. Sono un uomo morto, Luisa. Ma quando sarò da quattro giorni nella tomba come Lazzaro, veniteci voi e ridete; io risusciterò, ve lo prometto.

– Ci vedremo allora, non mancherò – diss’ella ridendo.

Poi tacque improvvisamente. Massimo, per ringraziarla, si mise a cogliere dei gelsomini bianchi, odorosissimi, li raccolse in pugno, tentò due volte di buttarglieli sul balcone: ma erano così leggieri che caddero in istrada, candidi, roteanti.

– Peccato, peccato! – gridò lei, che aveva indovinato il grazioso pensiero.

E restò a guardare, giù, come se potesse ancora scorgere quella pioggerella di gelsomini odorosi. A un tratto, ella diede un piccolo grido:

– Che è?

– Ne ho trovato uno, per terra. Grazie! Sul balcone di Luisa un’ala di ventaglio si agitava ed egli ne vedeva luccicare le stelline:

– Siete voi, che avete quel ventaglio?

– Sì; perchè?

– Perchè pare un pezzo di firmamento.

– Non mi burlate – disse lei un po’ seria.

Parlavano così tranquillamente, come se stessero in un salotto di conversazione: ma le notti estive sono così belle a Napoli, ed è così naturale stare al balcone, o sulla terrazza o nelle vie, è così naturale la chiacchiera all’aria aperta! Certo l’elegante addetto non avrebbe fatto così a Bruxelles, o a Copenaghen, dove le notti sono gelide, e i balconi hanno triplici imposte: nè con le dame della società sua, si sarebbe permesso una simile famigliarità. Appunto per questo egli trovava gusto in questa conversazioncella borghese con una semplice ragazza, da un balcone all’altro, dimenticando la profonda noia e il disgusto che lo avevano assalito mezz’ora prima. Adesso, sorgendo da quel poco di mare che si vedeva dai balconi, un globo rossastro si levava nel cielo, e ascendendo, impallidiva, diventava roseo…

– … ecco la luna, signor Massimo – mormorò lei, piano.

Eppure egli udì.

– È una bellissima luna, Luisa – le rispose, con convinzione.

– Fra poco si nasconderà dietro quelle case, e non la vedrò più – disse la fanciulla, sempre piano.

Egli udiva benissimo. A un tratto, chiamò:

– Luisa?

– Che volete?

– Volete uscire, a veder la luna?

 

– Sola?

– Con me.

– … nossignore – disse lei, dopo aver esitato.

– Perchè nossignore?

– Per questo – replicò Luisa, enigmaticamente.

– Venite, via. Torniamo presto.

– No, non posso.

– Siete cattiva, sapete.

Luisa non rispose.

– Se non vi decidete, vado via solo. La notte sarà magnifica e voi non la vedrete. Peggio per voi! Sono abbastanza vecchio, per non compromettervi. Volete venire?

–… non posso.

– Buona sera.

– Buona sera – mormorò ella, lentamente.

In verità, rientrando nella sua stanza, per prendere il cappello e i guanti, Massimo era indispettito. Aveva trovato un diversivo alle tristezze supreme di quella serata; la compagnia di Luisa come quella di un buon camerata, di un buon amico, lo avrebbe distratto. Ed ecco che quella sciocchina faceva la ritrosa, mentre era libera, indipendente, mentre egli non si era mai sognato di farle una linea di corte, da un anno che si conoscevano. Nervoso, abituato a superare facilmente tutte le difficoltà, il più piccolo inciampo lo inquietava: non andò di nuovo al balcone, spense tutti i lumi, e battè fortemente la porta, uscendo sul pianerottolo; anche Luisa era una sciocca! Ma passando innanzi a un’altra porta che dava sullo stesso pianerottolo, la vide schiudersi un poco e il profilo bruno di Luisa apparve:

– Signor Massimo? – fece ella, guardandolo coi neri e dolci occhi, chiedendogli scusa col tono della voce, con lo sguardo.

– Andate là, che non capite niente! – esclamò lui, nascondendo un sorriso, fingendo di essere ancora in collera.

– Io… capisco – disse lei, schiudendo addirittura la porta.

Ora si vedeva tutta la sua snella e alta figura, rivestita di un abito bianco di semplice mussola, con un nastro di velluto nero alla cintura: si vedeva il delicato volto ovale e bruno, dove la piccola bocca rosea si schiudeva come un fior di granato; e le sottili sopracciglia nere e arcuate davano agli occhi neri, per sè buoni e soavi, un’aria d’infantile meraviglia.

– Perchè avete detto di no, Luisa? Avete così poco spirito? Vi ho forse mai fatto la corte, io, perche dobbiate temere la mia compagnia?

– È vero, non me l’avete mai fatta – rispose Luisa, senza sorridere, abbassando gli occhi.

– O dunque? Andiamo, prendete un cappello e una mantellina, fate una collezione di risate, e venite con me. Sarà un’opera di misericordia spirituale: sono così infelice!

– Sì? Tanto? – interrogò lei, ansiosa.

– Infelicissimo – confermò lui, fra il tragico e il burlesco.

– Per amore, eh? – chiese ella, arrossendo della domanda.

– Nossignora, ragazza curiosa. Naturalmente, nessuna donna mi ama e io, naturalmente, non ne amo nessuna. Andate a vestirvi e fuggiamo…

Ella voltò le spalle, ubbidendo. Massimo restò appoggiato allo stipite della porta aperta, col cappello in mano, rigirando il suo bastoncino di ebano fra le dita, tranquillo adesso, abbandonandosi al minuto che passava, senza pensare ad altro. Dopo un poco, brevi passi discreti si riudirono e Luisa apparve, infilando i morbidi guanti lunghi di camoscio: aveva messo una mantellina di merletto nero a perline nere sul suo vestito bianco e un gran cappello di velo nero, una di quelle scuffie ampie e caratteristiche che stanno divinamente solo a un volto giovanile. Sorrideva, con le labbra, con gli occhi, guardando Massimo, così fresca, così luminosa di gioventù e di spirito, che egli espresse immediatamente la sua opinione.

– Siete una creatura incantevole – disse, con un tono fra la galanteria e la verità, tanto che ella non seppe nè adontarsene, nè rallegrarsene.

Per nascondere il proprio imbarazzo, Luisa si voltò a chiudere la porta di casa sua, mettendosene la chiave in tasca. Si avviarono, accanto, per le scale, senza che Massimo le offrisse il braccio: ella aveva un modo di camminare leggiero e spedito che le veniva dalla estrema giovinezza.

– Sentite – le diceva lui, scendendo – ognuno di noi si secca…

– Io non mi secco mai.

– … non mi contraddite, voi vi seccate, come me, della solitudine. Quando state sola, che fate?

– Penso…

– E non vi viene voglia di uccidervi?

– Neppur per sogno. I miei pensieri sono dolci.

– A che pensate?

Ella fu lì lì per rispondere, con sincerità: ma fortunatamente si rattenne.

– Che v’importa? – mormorò invece, con una certa malinconia.

– Ma insomma, se deviate sempre il discorso, non lo finirò mai. E vi assicuro che è grazioso, che vale la pena di udirlo, Dunque, che voi vi possiate seccare o no nella solitudine, questo non preme, ma nella solitudine mi secco io, e voi siete allegra, voi cantate, voi suonate l’arpa, voi ridete così bene. Uniamoci insieme, fraternamente, così io non mi seccherò più, e voi, credo, vi divertirete meglio. È deciso, eh? Come fratello e sorella, naturalmente. Un giorno o l’altro, poi, vi mariterei a un amico che amassi molto. È deciso?

Ella rideva, rideva, sommessamente, mentre attraversavano l’ampio portone. Una risata, però, che aveva qualche soverchio trillo nervoso.

– Non volete saperne? – disse lui, seriamente, fermandosi, sul marciapiede. – Non è mica una cattiva offerta. Sono vecchio, io, ma sono sempre un buon figliuolo: ho viaggiato, vi posso raccontare delle storielle interessanti… pensateci bene…

– Sì… sì… combineremo, un giorno o l’altro – e la fanciulla voltò la faccia in là, per non farsi scorgere.

Massimo e Luisa scendevano per via Gennaro Serra incontrando una quantità di gente che saliva e scendeva, ondeggiando, a coppie, a gruppi, a crocchi, a file, con la mollezza estiva della folla napoletana. Malgrado che fossero le dieci, molte botteghe erano ancora aperte e illuminate: non vi si lavorava; delle donne in giacchettina bianca prendevano il fresco sulla porta, chiacchierando, e dall’Egiziaca veniva un suono di chitarre e di mandolini. La birreria Dreher, sotto i marmorei portici di San Francesco di Paola, aveva messo fuori tutti i suoi tavolini di marmo, e le tazze di birra, dalla cima schiumosa e nevosa, apparivano alte sui vassoi, portati dai camerieri, mentre i pesanti piattini di cristallo si accumulavano innanzi agli avventori. Adesso, sorgendo pallida e mancante sul lato sinistro, elevandosi sopra l’arsenale di marina, la luna illuminava tutta piazza Plebiscito. La facciata della Prefettura, tutta chiara sotto il raggio lunare, aveva delle persone che si muovevano sui suoi grandi veroni: il Gran Caffè e i suoi tavolini, allargantisi sulla via, e i molti avventori erano avvolti in un chiarore fantastico, e le donne recavano con lentezza il cucchiaino del sorbetto alle labbra, o agitavano il ventaglio pian piano, con gli occhi sgranati, quasi sognassero. Nella piazza Plebiscito, andando lentamente nella morbida luce lunare, la gente passeggiava, sulla striscia di pietra bianca, innanzi alla fontana: e il grande getto d’acqua, alto, sottile, pareva una piuma bianca, immobile, tutta penetrata dalla luminosità della luna.

– Che bella notte! – susurrò Luisa, affrettando il passo.

– Vi è troppa gente – disse lui, buttando la sigaretta, diventato a un tratto pallido e pensoso.

Luisa se ne accorse. Affettuosamente gli toccò la mano con la sua mano guantata, interrogandolo con lo sguardo; egli non rispose, ma le fece un cenno che non chiedesse, che non voleva parlare. Per temperare questo silenzio, graziosamente le prese la manina guantata e se la passo sotto il braccio, e camminarono più presto, andando verso Santa Lucia. Qualcuno si voltava a guardare la fanciulla biancovestita, i cui occhi brillavano soavemente sotto la nera e trasparente aureola del cappello; ma ella non vedeva nulla, si piegava ogni tanto a guardare il suo compagno, per osservare se l’umor torvo si fosse allontanato.

– Ma che avete? – chiese, alla fine, agitata.

– Vorrei… vorrei non essere qui – proruppe lui, esprimendole tutta la sua nostalgia inguaribile.

– Ah! – -disse ella, senz’altro, chiudendo gli occhi, mentre le labbra le tremavano.