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Le amanti

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E Massimo non seppe, o gli mancò la forza di spiegare, di modificare la sua scortesia. Alta già sopra Capri, la luna imbiancava tutta la via marina di Santa Lucia, dove mille lumicini si agitavano, dove i trams, carichi di gente che andava verso Posillipo, passavano, ogni cinque minuti a suono di cornetta, dove le venditrici ambulanti di acqua sulfurea davano il loro richiamo, dove i pescatori accovacciati nelle nasse, fumavano la pipetta corta che aveva lo stesso colore della loro pelle. Appoggiati al largo parapetto che dà sulla via inferiore di Santa Lucia e sul mare, uomini e donne godevano la prima brezza notturna che si era messa al sorgere della luna; si udiva suonare il pianoforte nel salone all’Hotel de Rome, il salone che dà sul mare; laggiù, laggiù, verso il Wermouth di Torino, dei cantori ambulanti cantavano. Negli equipaggi signorili, passavano le donne in abiti chiari, coi diamanti che scintillavano alle orecchie; Dovunque gente, dovunque suoni e canti, dovunque la vitalità di un popolo che lentamente sorbisce la felicità di una notte estiva lunare.

Senza dirle nulla, invece di andare verso il Chiatamone, portandosi la fanciulla a braccetto, egli le fece discendere la scala che porta alla via inferiore di Santa Lucia, donde si va ai bagni la mattina; dove i vaporini approdano, dove approdano i barcaiuoli, con le barchette, dove sono le sorgenti dell’acqua sulfurea: ivi, su quella lingua di terra, brulica una folla di marinai, di pescatori, di donnette popolane, e una trattoria ha le sue tavole, quasi quasi sino all’acqua nera della riva; i bevitori di acqua sulfurea vi mettono le loro sedie di paglia, e i bimbi vi vendono le ciambellette brusche. Pure, in quella notte, quel brulichio bruno si rallentava, quasi che il placido lume della luna quietasse tutti i movimenti, rammutolisse tutte le voci, e desse tutta la sua dolcezza alla vivace scena. Quando furono sull’ultimo scalino dell’ampia gradinata, Massimo e Luisa si arrestarono un minuto.

– Andiamo a cena? – domandò lui, distratto.

– Oh no!

– È vero, sono una bestia. Eppure dobbiamo far qualche cosa… andiamo per mare, allora?

– Sì – rispose lei, pensosa – andiamo.

– Ma vi piace di andarvi? non lo dite per compiacenza? Io vi annoio terribilmente, lo so… Ma, non è colpa mia. E poi, voi siete buona e perdonate. Se non volete andare in barchetta, rinunziamoci.

– Andiamoci subito.

Ed egli intese, in quelle parole, una preghiera così spontanea, che chiamò subito un barcaiuolo. Entrò prima Massimo e invece di dar la mano a Luisa, per farla discendere, mentre ella esitava, vedendo quel baratro nero, le stese le braccia, la sollevò leggermente e la depositò sul cuscino di cotonina, accanto a sè. Il barcaiuolo che aveva avuto ordine di andare verso Mergellina, vogava tacitamente. Massimo fumava: ma ogni tanto, dando uno sguardo a Luisa, la vedeva così tranquilla, così serena, così intimamente felice; ella era così bella in quell’abito bianco, sotto la trasparente ala del suo cappello, con le mani abbandonate in grembo, che egli non osava dire una parola, non volendo turbare quel soave spettacolo. La barchetta si allontanava in linea retta, per poi girare intorno al forte Ovo: e le case di Santa Lucia, e la collina di Pizzofalcone parea che crescessero verso il cielo, verso la luna, come attirate da quel morbido chiarore. Massimo e Luisa non scambiavano una parola, solo egli la guardava con insistenza; tutto il delicato volto e la persona candidamente vestita, avevano in quell’ora e in quel paesaggio un effluvio di poesia che avrebbe inebriato il cuore più freddo. Ella gli sorrideva, così, naturalmente, quasi che il suo destino, nella vita, fosse di sorridergli sempre; e l’ingenuo, giovanile fascino del sorriso rammentava a lui altri tempi, altre cose, vagamente, dandogli un infinito e indefinito sentimento di tenerezza. Allora, sottovoce, egli provò il bisogno di chiamarla:

– Luisa.

– Che dite? – rispose ella, piegandosi per udir meglio.

– Niente.

Ma ancora, più tardi, mentre si allontanavano sempre più verso l’alto mare, nel candore immacolato della luna, verso l’orizzonte; che si era fatto chiarissimo, egli la chiamò per nome, assai piano, come se pronunciasse quel nome per sè stesso, evocandolo, invocandolo, emblema di dolcezza nelle sue sillabe, nelle sue lettere, nel musical suono, in quello che era, in quello che rappresentava. Quando quel lieve soffio l’animava, come una carezza, Luisa s’inchinava, attratta, vincolata dalla voce e dalla musica; e Massimo vedea che il viso le si tramutava, onde di sangue le fiottavano alle guancie, onde di pallore le salivano alla fronte. E non so quale acuta, spirituale voluttà lo teneva, di vedere scolorare, al suono della sua voce, quel purissimo volto giovanile: e tutta la tenerezza ch’egli poneva nella parola Luisa, si facea più profonda, sgorgava più larga, per circondare, avvolgere, abbracciare quella persona di donna. Ma fu un punto, e la emozione di Luisa era così intensa, egli vide tale smarrimento negli occhi della fanciulla, che si fermò, e riaccendendo una sigaretta:

– Perchè non cantate? – le disse. – Voi dovete cantare, me lo avete promesso.

Scherzava con quella ironia cortese che serviva a nascondere il proprio pensiero. Luisa crollò il capo, tristemente: l’incanto si dileguava; ella udiva un’altra volta, mentre Massimo parlava, quella velatura di sogghigno che guastava quante affettuose cose egli dicesse. Tentò di riafferrare un minuto di dolcezza:

– Chiamatemi ancora – gli disse pregandolo.

– Oh Luisa, Luisa, Luisella, piccola fanciulla cara, se non cantate, io vi riporto a terra.

A lei gli occhi si riempirono di lacrime; il sangue ascese impetuosamente dal cuore agli occhi; nonostante schiuse la bocca e con la sottile voce tremula, diede alle fragranti aure marine una vecchia canzone. Con le mani congiunte in grembo, con la testa un po’ levata, guardando il gran cielo intorno, ella cantava; la fine bocca rosea si schiudeva ad arco, mostrando i denti bianchi, scintillanti, e ogni tanto i soavi occhi seguivano quasi il movimento molle della musica, aprendosi più grandi sul paesaggio. Massimo si era voltato verso lei, appoggiando il braccio sul bordo della barchetta, seguendo il ritmo della canzone che pareva si cullasse nel ritmo del mare. A un tratto, la voce le si velò; ella tacque.

– Che avete?

– Nulla, nulla.

– Perchè siete così triste, Luisa?

– V’ingannate, non sono triste… sono anzi così contenta di esser qui… credetelo…

Una emozione era in tutto quello che diceva, così sincera!

– Vi credo, Luisa. Dite un’altra canzone…

– Sono tutte cose vecchie!

– Non importa…

– E non tutte sono liete.

– Non importa… Mi basta che le cantiate voi.

– Non volevate che io ridessi? – insistè lei. – Raccontatemi una delle vostre storielle interessanti e riderò!

– Se vi racconto una storiella, io, vi faccio piangere – e buttò la sigaretta in mare.

– Allora tacete. È così dolce questa notte.

Mentre il barcaiuolo vogava verso Mergellina, con un cenno largo Luisa indicò a Massimo le carezzose linee delle colline che vanno da San Martino al capo di Posillipo, tutte bagnate dalla luce lunare, con le loro case chiarissime dalle mille finestre aperte e illuminate, coi lumi che cingono l’arco della marina napoletana come una linea di fuoco, con uno scintillio dovunque, per le vie e sulle colline. Essi attraversavano, tagliandola, la grande striscia fredda, lucente come metallo, che la luna alta metteva sul mare, dall’orizzonte alla riva, lunghissima, occhieggiante, come mille specchietti moventisi nel raggio lunare. Massimo guardò intorno, ma i suoi occhi tornavano al purissimo viso di Luisa, come se da esso partisse quel fascio di dolcezza. Ella sostenne un minuto lo sguardo di Massimo, poi le palpebre le batterono, ammaliate, non reggenti a quel fascino:

– Siete voi che siete dolce – le disse lui, all’orecchio.

Adesso avevano voltato l’angolo di Mergellina, costeggiavano, lungo la via di Posillipo, tutta piena di ville, di osterie, di trams che passano continuamente, in tutte le ore della sera, specialmente in estate. Talvolta, tendendo l’orecchio, si udivano dei canti venire dalla terra, affievoliti; e le ville, piene di gente sulle terrazze, sembravano quei castelletti di carta, dai cento bucherelli, che i bambini illuminano con un solo cerino interno, giocattoli frastagliati o trasparenti dai personaggi minuscoli. Passando rasente una di esse dal giardino pensile tutto fiorito arrivarono delle risate, degli allegri strilli femminili.

– Abbiamo un pubblico cortese – disse Massimo – ci prendono, per due amanti.

– Ah! – rispose lei, niente altro.

Il palazzo di Donn’Anna si delineava, nero, avanzandosi sul mare: sul suo lato destro e sul sinistro, delle trattorie popolari erano piene di banchettatori e di bevitori, ma la facciata che dà sul mare serbava il suo carattere di rovina disabitata, col mare che entrava chetamente nei suoi portoni, ormai trasformati in grotte, come quelle di Sorrento e di Capri. La luna batteva sulla facciata del palazzo, che la ricchezza e la superbia di donn’Anna di Medina Coeli non aveva potuto finire, prima di ritornare alla Spagna natìa: e i finestroni e le finestre prendevano il chiaror lunare, fantasticamente; la rovina pareva meno aspra, meno tetra, sotto il placido raggio.

Il barcaiuolo che remava più lentamente, per riposarsi, chiese a Massimo se voleva entrare in una di quelle grotte, con la barca.

– Avete forse paura? – chiese lui a Luisa, prendendone distrattamente la mano appoggiata al bordo della barchetta.

– No, non ho paura – ella rispose: eppure la voce era velata di emozione.

L’apertura della grotta era tutta bianca e l’acqua vi fiottava sordamente, gorgogliando: ma quando la barca s’internò in quel chiuso laghetto di acqua marina, la oscurità si fece profonda. La barca stava immobile, in un gorgoglio fresco di onda che batte alle pareti di pietra, in una gran tenebra. La mano di Luisa era restata in quella di Massimo: egli la sentiva molle, abbandonata, nella sua, quasi che non vi fosse miglior sorte, miglior destino per essa. Involontariamente, egli la strinse, e intese che la mano rispondeva alla sua stretta, fiaccamente, ma dicendo sempre: sì. Allora egli si piegò; in quell’ombra, per distinguere la faccia di Luisa; il barcaiuolo remava, per uscire dalla grotta e quando furono di nuovo sull’aperto mare, al lume della luna, egli vide due lunghe lacrime scendere da quei belli occhi e disfarsi sulle guancie. Ah! egli non poteva veder piangere nè un bimbo, nè una donna, foss’anche di gioia: e fu più turbato di lei.

 

– Che avete? Avete avuto paura, avete freddo? – chiese precipitosamente, tenendole le mani, che erano gelide, invero, nei guanti.

– No, no…

– Sì, sì, sbarchiamo, questo viaggio in mare, alla luna, vi ha gelato. Sbarchiamo, cammineremo a piedi, per riscaldarci.

Presso il palazzo Donn’Anna vi è spiaggia. Sbarcarono, in fretta, egli pagò il barcaiuolo e lo licenziò: quello gli disse delle parole di augurio; anche lui li prendeva per due amanti. Per salire alla strada dovettero passare presso una di quelle trattorie, fra le tavolate dei mangiatori e dei bevitori, senza guardare nè a dritta nè a sinistra, egli sempre un po’ agitato, ella che lo seguiva senza badare a nulla, quasi che il suo fato fosse quello di seguirlo sempre, dovunque, senza sapere dove si andasse. I bevitori e i mangiatori ridevano e gridavano: la bianca figura di donna non ne fece voltare nessuno, tutti erano ebbri del vino, della notte, o delle chiacchiere dette, con la tanto bella e felice esaltazione meridionale. Massimo e Luisa scesero per la stretta scaletta, uno presso l’altro, e quando si trovarono sulla via di Posillipo stettero, esitanti.

– È forse tardi per voi? Volete rientrare?

– Non so… Voi rientrate?

– Vi accompagnerei, sì, ma senza rientrare. Non dormirò, io, stanotte… – e voltò la faccia in là.

– Allora… allora rimarrò ancora un poco – disse fievolmente lei.

– Grazie, siete buona – e le strinse la mano.

Così, camminarono, senza darsi braccio, verso Posillipo, sul piccolo marciapiede rasentato dai trams che vanno e vengono: imbattendosi in gente che tornava a piedi, in piccole comitive schiamazzanti, in coppie solitarie appoggiate al parapetto, guardanti il mare. Massimo e Luisa, avanzando lentamente, non parlavano, divisi sempre da coloro che transitavano. Le ville a mezza costa, e quelle giù, al mare, avevano innanzi ai portoni delle carrozze che aspettavano: i balconi lasciavano udire la musica che vi si faceva, il sottile e immemore concerto delle notti estive napoletane: degli equipaggi, di ritorno, passavano; le donne erano avvolte in lievi scialli bianchi. Senz’accorgersi della via, Massimo e Luisa andavano innanzi, innanzi: la linea dei trams finì; si fecero rare, poi sparvero, le osterie; la gente s’era diradata, a poco a poco, e quando ebbero voltato l’angolo della villa Dini, la solitudine fu perfetta. Solitudine bianca, senza terrori di ombre, senza la tetraggine che ispirano la campagna e il mare, di notte. Solo un alto, lontanissimo cielo; solitudine mite, piena di giardini in fiore tutti candidamente frastagliati dalla luce lunare, piena di parchi dai grandi alberi immersi nel chiarore, piena di vigne folte che l’autunno aspettava, per la vendemmia, piena di orti dove ancora, come un po’ dappertutto, si udiva l’odore del gelsomino notturno. La via era deserta, l’ora era tarda, ormai: e solo, ogni tanto, qualche rara carrozza ritornava da villa Postiglione: tutto Posillipo, con le sue campagne, col suo mare, coi suoi rotondi piccoli golfi che sembrano, in fondo alla riva, un grande occhio azzurro divino, coi suoi profumi, pareva che appartenesse a Massimo e Luisa, Egli camminando con la testa bassa, con gli occhi bassi, giuocava con la mazzettina di ebano, urtando le pietruzze della via; Luisa andava accanto a lui, fissando gli occhi sul mare: ma i suoi occhi avevano un velo innanzi, il suo sguardo aveva la fissità di chi non vede. Ogni tanto levava una mano alla fronte, per respingere da parte una ciocca dei suoi neri capelli che ricadeva sempre: e quel movimento aveva qualche cosa di assai leggiadro. Quanto tempo camminarono, così, senza scambiare un detto? Nessuno di loro avrebbe potuto dirlo: presi dal loro mondo interiore, presi dall’ambiente che li aveva vinti, mancava oramai a loro la nozione del tempo e dello spazio, erano in quell’oblìo quieto, addormentatore, che vince tutti i cuori, dopo le emoziani che dà il sentimento, o che danno le cose. Massimo si riscosse pel primo:

– Che cattivo compagno son io! – esclamò. – Saranno due ore che non vi dico una parola.

– … Forse non avevate nulla da dirmi – azzardò lei, con un timido sorriso.

– V’ingannate: se vi dicessi tutto quello che dovrei dirvi, sarebbe un opera in-folio, in ventiquattro volumi!

– Dite, allora…

– Ci vorrebbero alquanti anni della vostra vita, per udirmi, cara: e… credo che sia meglio non farne niente.

– Ditene qualcuna, di queste cose… – insistè lei, con un tremito nella voce.

– No, no – replicò Massimo, recisamente.

Ella lo guardò, così triste, che egli non potette celare un moto di dispetto.

– Ma Luisa! Ma che siete una sensitiva? State ridendo, il che è una cosa graziosa per tutti, graziosissima per me, e basta guardarvi perchè la risata vi si spenga sulle labbra! Sorridete, e basta che vi si dica una parola perchè sparisca il vostro sorriso! Figliuola mia! Vi avverto che di questo passo, ci vuol poco a essere la donna più infelice di questa terra.

– Non importa, la felicità – ella rispose, con un sorriso estatico.

– Bugia, bugia! Bisogna esser felici, bisogna avere il cuore di bronzo! Di bronzo, cara mìa bella!

– Non importa, meglio averlo aperto a ogni tenerezza – replicò con la forza del suo innocente animo.

– Vi preparate un brutto avvenire, Luisa, – disse lui, glacialmente.

– Non importa – ella ribattè, per la terza volta, con il supremo coraggio dei cuori buoni.

Ed era così bella della sua gioventù, del suo candore, della sua abnegazione, così bella per sè, e per quello che confusamente ma fortemente sentiva, tanto nobile abbandono, tanto alto sacrificio da lei traspariva, che egli si arrestò, un po’ smarrito, ammirando quella creatura semplice e sana, che si gittava nel precipizio a occhi chiusi, sorridendo.

I.

– Povera Luisa – mormorò soltanto lui, carezzandole la manina inguantata che si appoggiava fidente al suo braccio.

– Non mi compatite – ella rispose, crollando il capo, sorridendo a una idea – io sono più felice di voi,

– Forse – disse lui, con voce breve.

Adesso, dopo avere oltrepassato il ponte di Posillipo, quel largo poggiuolo che da una parte si affaccia alla collina folta di vigneti, e dall’altra sopra, una valle che discende al mare, mollemente, lasciato il lastricato del ponte che suonava sotto i loro passi, nella notte, erano entrati in un sentiero oscuro, fra una siepe alta di more spinose, e una muraglia alta, tappezzata di edera, che serra le due ville ultime sul mare di Posillipo, la villa Postiglione e la villa Sans souci. Era sparita la luna dietro la muraglia, e sullo stretto sentiero che discendeva, essi non vedevano che un’altissima striscia di cielo, tutta chiara, dove le pie stelle avevano un tremolìo bianco e languido. Dagli orti, di nuovo, un confuso olezzo di fiori e di erbe odoranti arrivava, dove più acuto signoreggiava il profumo del gelsomino: ed essi andavano in quell’ombra, in quel fresco notturno, ignari della loro strada, sul molle terreno umido di brina che si faceva elastico sotto i loro passi. A un tratto, levando gli occhi, un’immensa linea di paesaggio si schiuse loro innanzi, tutta candida sotto la luce lunare. Erano al Capo, in quel posto che la fantasia popolare ha chiamato il Paradisiello: e il gran golfo di Napoli era come una immensa conca chiarissima, cinta da lumi vividi, scintillante fin nelle borgate, scintillante fino laggiù, laggiù all’estrema punta di Massalubrense, dove l’abbraccio si chiude; e da qui tutto il gran mare che bagna i Campi Flegrei e Pozzuoli e Cuma, in una curva nobilissima e poetica, in un silenzio di cose e di uomini, quasi che niuno più, dopo i greci e i romani, fosse venuto ad albergare in quel bellissimo e felice paese. Lo scoglio del Capo si avanzava fra i due golfi, bagnato di luce da una parte, oscuro dall’altra, ma tutto il mare, dovunque, qui sotto lambente la pianura vasta dei Bagnoli, laggiù, sotto l’isola di Nisida, e lontano lontano, era un chiarore immenso, immobile e quieto.

– Dio, quanto è bello! – ella disse, con la voce velata dalla emozione.

Là innanzi, creata dalla natura, è una piattaforma quasi rotonda, una terrazza messavi dal Signore, a cui gli uomini hanno aggiunto un muretto rotondo per appoggiarvisi, per sedervisi; di là tutto si vede. Di giorno su quella terrazza vi sono tre o quattro mendicanti, vecchie e piccine, che chiedono fastidiosamente l’elemosina agli stranieri estatici; ma di notte non un’anima, non un passo. Sulla terrazza, lungo il muretto e dietro ad esso, pei greppi, cresce l’erba selvatica odorosa e qualche piccolo fiore agreste. Essi si fermarono colà silenziosi, appoggiati al muretto, senza lasciarsi, penetrati dalla poesia ineffabile di quell’ora, in quel paesaggio: poesia intima e profonda che misticamente li avvolgeva.

– È tutta dolcezza – disse la fanciulla, la cui voce si era velata, affievolita.

– Infinita dolcezza – rispose lui come un’eco.

– Chi abita in quell’isola, lassù? – chiese ella, levando la mano, indicando Nisida.

– Una gente trista… – e pareva non volesse continuare.

– Che gente? – insistè lei, piegando il suo bel viso chiaro verso di lui.

– I galeotti: lì v’è il bagno penale.

– Una gente infelice – ella corresse, umilmente. – Ma le belle notti estive, le belle notti lunari, si levano anche per essa.

– Cara Luisa… – ripetè lui, vagamente.

Ella lo guardava pronunziare il suo nome, non solo assaporandone la musicalità, ma sentendone acutamente tutto il tono, tutta la intenzione. Ogni volta che questo nome usciva dalle sue labbra, ella aveva un piccolo tremito interno: quando già il nome era stato portato via dalle onde dell’aria, ancora in lei, nel suo cuore si allargavano più grandi, più grandi i cerchi di quel tremore..

– Guardate quelle casette, laggiù? – continuò ella, per sfuggire alla sua crescente commozione, accennando alle casette dei Bagnoli. – Son tutte chiuse, non un lume. Tutti riposano felici, senz’aver bisogno di ammirare la notte e la luna....

– Gli abitanti di quelle casette videro un giorno un orribile spettacolo – rispose lui, macchinalmente – è qui che hanno fucilato Misdea.

– Qui?

– Laggiù, in quella pianura.

– In una notte come questa?

– No, in un’alba freddissima.

– Perchè lo hanno ucciso?

– Perchè aveva ucciso.

– Voi mi dite sempre delle cose tristi – ella osservò malinconicamente, con un lagno infantile.

– Ho torto – confessò lui – anche questa bell’ora dev’essere guastata. Scusate, cara. Vi assicurò che sono molto infelice.

– E perchè? – ella chiese, curvandosi a interrogare il suo volto.

Ma gli aveva sfiorato con la guancia la spalla.

– Ho scherzato – rispose Massimo, con la voce un po’ alterata. – Volete sedervi?

E le lasciò il braccio, si sedette sul parapetto e accese una sigaretta. Ella, in piedi, un po’ triste di essere stata abbandonata, con le braccia pendenti lungo la persona, lo guardava.

– Volete fumare?

– No – ella disse.

– Peccato! una sigaretta è deliziosa, qui, a quest’ora.

– Se vi piace, la fumerò.

Egli le offerse il portasigarette russo, di argento, aperto: ella ne prese una, di sigarette, con le dita sottili: ma mentre gli chiedeva del fuoco, Massimo, preso da un subitaneo moto di collera, le strappò la sigaretta e la buttò giù, pei greppi.

– Non fumate, è una brutta cosa, somigliereste a tante donne che fumano… tante donne…

– Come volete – disse ella, rassegnatamente.

Ma avendolo visto restar torvo, seccato, cogli occhi bassi, battendo col tacco contro il muretto, ella voltò le spalle e si allontanò un poco, girovagando, discendendo verso i Bagnoli, risalendo, affacciandosi alla vallata. Egli la seguiva con lo sguardo, ombra bianca attraverso il chiaror bianco della luna, camminare senza rumore, con appena un fruscio del vestito fra le erbe; e quando ella ritornò a lui, portava dei ramoscelli fioriti di menta selvatica. Picciolissimi fiorellini lilla sopra minutissime foglioline verdi; ella ne odorò un ramoscello e glielo porse.

 

Il viso di Massimo parve si rischiarasse: egli prese il ramoscello, l’odorò lungamente e poi, invece di metterlo all’occhiello, lo nascose nell’apertura del soprabito, dentro, dentro, in modo che non si vedesse più, deposto e serrato sul petto. Allora ella fece un passo e con un salto leggiero gli si sedette accanto sul parapetto. Tacevano. Adesso voltavano un po’ le spalle al paesaggio marino e avevano innanzi solo la via donde erano venuti e le campagne basse di Fuorigrotta. Ma guardavano, forse, senza vedere. Erano seduti proprio accanto, le spalle e le braccia si sfioravano, ad ogni lieve movimento. Sempre fumando la sua sigaretta, egli le sollevò la mano guantata e ne arrovesciò lentamente il morbido guanto di camoscio. Pallida e sottile apparve la manina della fanciulla, col braccio rotondo e bianco.

– Avete una bella mano, Luisa – disse.

Le sue labbra, delicatamente si posarono sulle dita piegate della bella mano: un bacio che era un soffio. E restò a giocherellare con le dita, senza poter lasciare quella mano. Ella non poteva parlare.

– Perchè non portate tutti quei cerchiolini di oro, di argento, di platino, quei braccialettini che tintinnano, salgono e scendono, continuamente, quando la donna si muove? Sono carini, è vero?

Ella lo fissò, trasognata, come se non avesse udito che l’armonia della sua voce, senza intendere il senso delle parole.

– Sono carini… – egli ripetè – ve li donerò io, se li volete da me; mi piacciono tanto.

Ancora scherzava con la mano, quasi attirando a sè la persona e l’anima della fanciulla: e la bella persona e la povera e cara anima, non sapeano che piegarsi a lui. La testolina si appoggiò con la guancia alla spalla di lui, socchiudendo gli occhi; e pian piano, delicatamente, quasi a sorreggerla, Massimo le passò un braccio dietro alla cintura, abbracciandola, reggendola.

– State bene così? – le domandò, con voce roca.

Ella accennò di sì, con le palpebre, non potendo parlare.

– Non vi addormentate alla luna, almeno, Luisa. La luna fa impazzire chi si addormenta al suo chiarore.

Ella ebbe un sorriso così profondo, così enigmatico che lo scosse. Poi, tacquero. Passò del tempo, così. Confusamente, ogni tanto, nella mite e intima delizia di quella solitudine, di quella vicinanza, ella sentiva tremare, talvolta, nella sua, la mano di Massimo; e talvolta, sentiva il respiro di lui affannarsi. Allora levava le palpebre a guardarlo: lo trovava intento a fissare il suo volto, intensamente, con tale un ardore concentrato di visione e di attenzione, che non aveva ella mai scorto. Il tempo passava, sulle loro teste vicine, sulle mani dalle dita intrecciate, immobilizzati in quell’atteggiamento. E ad essa sembrava d’immergersi in un sogno lungo, senza fine, che ricominciava sempre dal principio, dove passavano sulle sue mani dei baci leggieri come un soffio, dove carezzava i suoi capelli una mano molle e lenta, dove un acuto profumo di fiori che si appassivano, le saliva al cervello, dove una voce ripeteva il suo nome, sempre, con la profondità dell’amore: un sogno tutto chiaro di luce lunare, in un divino paesaggio, un sogno ammorbidito dalla rugiada, dai fremiti della campagna, dal palpitare del mare sotto la luna. Invero, Massimo, reggendo la bella persona, tenendone la manina nella sua, sentendo tutta la seduzione di Luisa e delle cose, dell’ora e del tempo, restava immobile, con gli occhi socchiusi, cercando di riunire tutti i suoi pensieri, per essere forte, per vincere il fascino immortale che ha la beltà della donna e la beltà delle cose, la innocenza della gioventù e la solenne purità della notte, nella campagna, innanzi al mare. Non lui sognava, che era uomo, che aveva vissuto, che sapeva; ma quasi vedeva, dietro le tenui palpebre abbassate di Luisa, negli occhi pronti di dolcezza che si schiudevano levandosi a lui, vedeva il sogno d’amore, il sogno di quella notte d’estate distender la sua sottile e salda rete d’argento sull’anima della fanciulla. E ogni tanto, come il fascino di tanto muliebre candore, di tanta fede, di tanta giovinezza fragrante si faceva più alto, pareva anche a lui di smarrir la testa, partito per sempre, per la siderale, per la selenica regione del sogno. Cercò di riaversi, di riaccapezzarsi, parlando:

– Dormite? – volle dire, scherzando, a Luisa.

Ma egli stesso non riconobbe la propria voce. Chi aveva pronunziato quella parola? Ella scosse il capo, con un sorriso così dolce, che egli non vi potette reggere:

– Vogliamo andar via? – le susurrò all’orecchio. La luna fa impazzire, Luisa, Luisa…

– Ancora un poco – ebbe la forza di dir lei, nella innocenza della sua passione.

Ancora un poco. Egli abbassava il capo, soffocando le parole che gli sgorgavano dalle labbra, interdicendosi persino di carezzare più le fredde dita della fanciulla, non volendo udire il profumo di gelsomino, che veniva da lei, di quell’unico gelsomino che ella aveva raccolto sul balcone e messo in petto, non volendo cedere alla voce di tenerezza infinita che emanava da lei e da tutte le umane cose, intorno. Sì, Massimo vedeva bene che ella sognava, oramai, il suo grande sogno, l’unico e ultimo sogno, sotto la gelida e allettatrice luce della luna, simile a Elena, la bionda: sentiva che vincendo la ragione dell’età, del pericolo, dell’esperienza, che vincendo finanche il profondo segreto del suo cuore, egli stesso, per la ignota forza di sentimento che rinasce dalle sue ceneri anche nei cuori inceneriti dalla passione, egli stesso sarebbe stato trascinato dolcemente in quel sogno, perduto anche lui, come una volta, come sempre. E facendo, in quell’atto, una delle più dolorose rinunzie della sua vita, il braccio che sosteneva Luisa si rallentò, un poco: pian piano le lasciò la mano. Ella trasalì, comprese: si levò, col volto così pallido che pareva vi si fosse infiltrato il raggio lunare, a raffreddarne per sempre il sangue e le fibre, si levò con le palpebre battenti, gli occhi smorti, come coperti da una nebbia torbida.

– Andiamo – ella disse, voltandosi ancora a salutare il mare, la campagna e il cielo.

Camminarono presto, vicino, senza darsi braccio; Massimo pareva oramai colto dal freddo, con un desiderio di rientrare in casa. La via era assai lunga, mentre, al venire, non se ne erano neppure accorti: a ogni nuovo gomito che faceva la via, egli si piegava, con una certa ansietà, per vedere se erano vicini; ella lo guardava di sottecchi, camminando presto anche lei, non osando dirgli nulla. Alla fine gli espresse il suo pensiero.

– Speriamo di trovare una carrozza.

– Speriamo – ripetè ella.

Ma per un pezzo non ne trovarono; la notte era altissima, tutte le ville erano chiuse e silenziose, la strada di Posillipo era deserta, la luna, salita già allo zenit sul cielo, vi batteva a picco, dandole oramai un aspetto un po’ spettrale. Egli osservò che la fanciulla si stringeva nella mantellina, trasalendo.

– Avete freddo, è vero?

– Un poco.

– Siamo stati troppo tempo… laggiù…

Luisa non rispose: camminava a occhi bassi, senza voltarsi nè a destra, nè a sinistra.

– Forse avete paura, cara?

– Un poco.

– E di che?

– Di tutto… la via è così deserta… gli alberi sembrano fantasmi…

– Abbiate paura degli uomini e non dei fantasmi, cara.

– È vero – ella soggiunse, umilmente.

Forse egli stesso, in quell’ora così tarda, in quella deserta campagna, dove sboccavano tante grotte di tufo dalle immani bocche nere aperte, aveva come un leggiero brivido di confuso sgomento. Erano presi dal malessere di chi ha vegliato una notte intera, in preda a una sovraeccitazione spirituale e fisica, e che ne esce stanco e infelice, malcontente di sè e del tempo che è trascorso. Ma durò questo sino a che furono arrivati alla dogana di Posillipo; ivi una carrozza da nolo, di quelle sgangherate con un vecchio ronzino sciancato, una carrozza di notte, infine, stazionava. Dormivano il cocchiere e il cavallo; non si risvegliarono che a metà, quando Massimo e Luisa vi salirono.