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Le amanti

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III.

Tre volte Giovanni Serra mancò alla sua promessa. Le diceva: verrò domani sera, alle nove. Clara lo aspettava in preda a una emozione nervosa, a cui la sua fantasia dava un carattere passionale. Ella dal pomeriggio dava ordine che nessun altro venisse introdotto e ripeteva le sue raccomandazioni, alla cameriera, con insistenza: quando l’ora si appressava, per frenare la sua torbida impazienza, ella si metteva a riordinare delle carte, prendeva un libro, forzandosi a intendere ciò che leggeva. Giovanni non veniva. Le fresche rose che ella aveva messe nei vaselli nitidi, rientrando a casa, parea che declinassero e languissero, quasi per morte; il fuoco si covriva di cenere, nel caminetto; ed ella, discesa dalle esaltazioni sentimentali, cadeva in uno snervamento profondo. Alla fine di queste serate d’inutile attesa, la parte più sincera di lei pensava che era meglio, lasciar finire, senza finirla, questa singolare avventura, che le cose morte non si vivificano e che anche per lei, Clara, così innamorata dell’amore, era troppo tardi per tentare un ultimo fatto del cuore. Ma l’istinto della vanità muliebre, mediocre istinto, ma che non isbaglia mai, tanto è finemente esercitato, le diceva che quegli appuntamenti mancati erano tante vittorie negative, è vero, ma vittorie, sul cuore di Giovanni: che chi non va, ha paura di andare; e chi ha paura di andare, ha sempre il cuore debole e facile a essere trascinato, in un impeto dell’altrui energia. Così, ella, nelle immense prostrazioni di una vivacissima speranza delusa, trovava novelle forze per ritentare l’anima di Giovanni. Egli balbettava, inventava delle scuse magre, per colorire la sua assenza: ma ella lo vedeva molto confuso. Dietro il pretesto di un impegno dimenticato, di un ostacolo improvviso, il freddo istinto della vanità intravedeva il combattimento del cuore di Giovanni; ed ella se ne compiaceva, dimenticando il suo nobile divisamento di amare Giovanni, senza domandargli il ricambio. Alla terza sera, ella lo aspettò dietro i cristalli del balcone; più nervosa, più triste, più esaltata che mai, ella finì per aprire il balcone, malgrado il freddo della serata. Ebbene, all’ora indicata, ella lo vide giungere frettolosamente, a capo basso, fermarsi due minuti sotto il portone, ed uscire di nuovo, lentamente allontanandosi. Non aveva avuto la forza di salire. Era un gran freddo nell’aria, quella sera: ma ella rientrò con le guancie brucianti. E l’indomani non gli fece nessun rimprovero. Sentiva che Giovanni aveva subìto una tortura segreta.



Egli venne, al quarto appuntamento, quando ella non lo aspettava più, alle dieci e mezzo, invece che alle nove. Il suo orecchio fine udì il suono timido e debole del campanello, udì la voce bassa con cui egli domandava di lei, in anticamera, e il passo cheto con cui egli si avanzava, a traverso l’appartamento. Clara soffocava per il battito del suo cuore: e l’accoglienza che gli voleva fare, disinvolta e serena, come a un amico che venisse sempre, e le parole che gli voleva dire, tutto sparve, ed egli la trovò in mezzo alla stanza, aspettandolo con troppo palese ansietà e porgendogli una mano glaciale e tremante. Sedettero ambedue non accanto, ma dirimpetto: taciturni, imbarazzati. Clara non osava aprir bocca; intendeva che la sua voce l’avrebbe tradita. Egli guardava, come trasognato, i galloni rossi e azzurri che adornavano il vestito di lana bianca di Clara.



– Mi volevate: – eccomi – egli disse, con un sospiro, chinando gli occhi.



– Grazie – mormorò ella, semplicemente.



– Chiederete voi che io faccia qualche altro sacrifizio, al vostro fascino?



– Tanto vi è costato, questo? – Clara interrogò, ansiosamente, piegandosi verso lui.



Egli si arretrò, quasi temendo la vicinanza di quel volto. Disse:



– Mi è costato moltissimo.



– Ma perchè? – e aveva un tono così ingenuo, chiedendo ciò, ella!



– Proprio, non lo capite?



– No.



– Questa casa mi è odiosa.



E un riflesso di tetraggine gli si diffuse sul volto. Clara si guardò intorno.



– Non capisco – disse. – Siamo soli…



– Siamo soli?



– Dubitate di ciò? – ed ebbe, sulle belle labbra un riso forzato.



– Io credo che vi sia possibile fare tutto – egli soggiunse, guardandola con quel misterioso terrore, come quando gli parea veder sorgere un mostro nella donna.



– Tutto, che?



– Non mi domandate troppe cose, Clara: io sono molto turbato. Parlate voi, piuttosto.



– Sì – ella annuì, cercando di vincere, prima di tutto, sè stessa. – Lo vedete, siamo soli. Nessuno può venire e nessuno ha diritto di entrare. Qui vi è la vostra amica, che vi aspetta da tanto tempo, che è così felice di passare un’ora, con voi, in una stanza chiusa…



Egli guardò le porte, con una lieve ombra di diffidenza e di paura negli occhi.



– Anche a voi, fanno terrore le porte socchiuse? – ella soggiunse, infantilmente. E si levò, andò a chiudere le due porte, fra le tende.



– Voi temete di vedere entrare qualcuno, sempre, è vero, Clara?



– Sì, da bimba, l’ho sempre temuto. Se qualcuno saliva alle mie spalle, nelle scale, se qualcuno mi seguiva, in un appartamento, se una porta restava aperta, con un vano oscuro, io era assalita da uno sgomento folle, e, sentite, adesso – soggiunse, dandogli la mano – solo a parlarne, io tremo tutta…



Egli trattenne quella mano fra le sue, ma mollemente.



– Sono sempre così sola! – ella soggiunse, e gli occhi le si velarono di lacrime, mentre il volto, le si tramutava.



Giovanni guardò quello scoloramento e quei begli occhi velati: impallidì leggermente.



– Non sempre siete stata sola – mormorò, con un’intonazione ironica, ma non aspra.



– Oh! – e Clara fece un gesto largo, per dire che tutto era finito.



– Lo avete già dimenticato, Clara?



– Intieramente – ella rispose, con un cenno tagliente.



– Dimenticate presto, mi pare.



– Sì, tutto quello che non merita di esser ricordato.



– Ma che meritò di essere amato, però.



– Oh chi non ha errato, nelle cose del cuore? Chi ha mai preso la via giusta, amando?



– Nessuno, avete ragione – diss’egli, malinconicamente.



– Io ho sbagliato sempre, io – e il bel volto ebbe un fremito di dolore.



– Sempre?



– Sempre. Mi hanno amata poco: o male: o niente. Sarà una bella burla, alla fine della mia vita per me, che porto la reputazione di avere ispirato delle passioni folli, l’accorgermi che nessuno mi ha amata, mai.



E un doloroso, amarissimo ghigno le contrasse il viso. Clara era immensamente sincera, in quel momento. Aveva tenuto solo all’amore, nella vita e, probabilmente, non lo aveva, nè visto nè provato mai.



– Quanto siete ingiusta, Clara!



– Con chi?



– Con me.



– Ah già, è vero, voi pretendete di avermi adorata – -ella soggiunse eccitata, ma schiettissima, sempre. – Chi ne sa nulla! È una leggenda: tante leggende sono false.



– Perchè dite questo? Perchè volete negare il passato?



– Bella istoria, il passato! Ognuno se ne inventa uno, a propria convenienza, quando il passato è passato. Chi conosce la verità? Voi intanto, no: e io, neppure. Forse non mi avete amata mai; e tutta la leggenda non è che una cosa buffa – e rise clamorosamente, offendendolo anche col suo riso.



– Clara, io non sarei qui, se non vi avessi amata – egli disse seriamente.



– Vale a dire?



– Che ci vuole una grande tenerezza, per dimenticare quello che mi avete fatto: e una grande tenerezza non viene che da un grande amore.



– Bella rovina, illuminata a chiaro di luna – ella disse, non ridendo, tetramente.



– Ognuno dà quello che può – Giovanni rispose, con una tristezza semplice.



Clara tacque. Scherzava con un tagliacarte giapponese e se ne pungeva le dita. A un tratto, si rivolse tutta mutata:



– Perdonatemi, Giovanni: ho avuto un accesso di cattiveria.



– Tanto, per non cambiare – ed egli ebbe un pallido sorriso.



– Sono cose che restano, a filoni, nell’anima. Ma l’anima è così cangiata!



– Così? – e la tenerezza velava l’incredulità.



– Tutta quanta. Non ve ne siete accorto? Vi sono sembrata la stessa, in questo tempo, la stessa di dieci anni, ditelo, in coscienza?



– No, non mi siete sembrata la stessa. Ma non vedo la causa del vostro cangiamento e non so lo scopo.



– Al solito, voi mi supponete qualche infernale progetto? No, Giovanni, disilludetevi. Nulla vi è di più complicato in me – e sorrise, con una mesta semplicità.



– Nulla?



– Nulla: a che? Per sedurre chi? Voi siete inseducibile.



– Vi piacerebbe sedurmi?



– Sì, moltissimo – ella esclamò, impetuosamente, con la verità sulle labbra e nel cuore.



Giovanni fu scosso, da questo colpo diretto.



– La cosa è già fatta – egli disse, piano, cercando una via obliqua, per ischermirsi.



– La seduzione passata, Giovanni, non conta – soggiunse subito, la terribile e infelice donna, riportandolo al duello. – Era una pessima seduzione, fatta da una donna perfida e fallace, una seduzione fondata sull’inganno, che partiva dalla malvagità e arrivava alla perversità. Non quella, non quella! Mi sarebbe piaciuto sedurvi, mi piacerebbe sedurvi, con una seduzione nobile e alta, quella della schietta anima femminile, che si dà in tutta la sua naturale bontà, con una seduzione fondata sull’amore, profondo, umile, segreto e pure sgorgante da ogni atto e da ogni parola!



Si era avvicinata a lui, chinata verso lui, parlandogli: e gli parlava con una voce tremante, roca, come egli non aveva mai inteso uscire da quelle labbra. Egli ebbe un atto di smarrimento:



– Tacete, Clara, tacete!



– No, amico mio, non mi fate tacere, non vi ho mai detto nulla, in questo tempo, e ora muoio, se non vi dico tutto…



– Io non posso udirvi… – e cercava sciogliere le sue mani da quelle di lei che le tenevano, nell’affanno dell’emozione, strettissime.

 



– Sì, sì, potete udirmi, giacchè io nulla debbo dirvi che vi turbi, che vi offenda! Giacchè io non voglio niente da voi, Giovanni, niente! Voi mi avete amata, è vero, nel passato e io sono sacrilega, quando lo nego, ma anche il sacrilegio è una forma della passione, anche il calpestare è una voluttà dell’amore! E ora voi non mi amate più e avete ragione; io sono stata crudele, io sono stata infame, con voi, vengono dei momenti in cui mi faccio orrore, ve lo giuro…



Mentre parlava ella, così, singhiozzava e il suo petto si sollevava, nel singulto. Qualche rara lagrima le usciva dagli occhi e Clara l’asciugava rapidamente, col fazzoletto. Giovanni l’ascoltava, la guardava, stupefatto, incapace di difendersi più, e incapace di sottrarsi al pericolo estremo in cui si trovava.



– Ma, sentite, Giovanni, sentite con pazienza, poichè queste cose mi soffocano, sino a morirne, e le debbo dire, giacchè sono le ultime parole di passione che mi usciranno dalla bocca, in questa vita. Sì, sì, le ultime, poichè io ho trovato in questa mia anima, così maltrattata, così ingiustamente maltrattata da chi non doveva mai farlo, ho trovato una sublime speranza, Giovanni, quella di poter essere un’altra donna, quella di poter amare con un infinito entusiasmo e una infinita devozione, quella di poter essere in una estrema tenerezza, una donna leale, pia, umile, vivente solo per voler bene, così, come una povera creatura ammalata e convalescente si innamora della vita, di nuovo!



– Illusione, illusione – balbettò lui, tentando reagire contro quella esaltazione sentimentale, che gli si comunicava, fatalmente. – Voi non potrete mai far questo, Clara!



– Io posso fare tutto quello che voglio, io lo farò – ella rispose energicamente, altieramente. – Ah ho ben visto, io, in questo tempo, nella mia anima, io vi ho letto come in un libro aperto, io so tutto, io so che una sola cosa può farmi rivivere ed è un affetto schietto e saldo, senza altri interessi morali che l’affetto istesso, senza altro desiderio che dare uno slancio di purezza a quest’anima, senz’altro ideale che la redenzione di uno spirito malato e corrotto.



– Non vi riescirà, non vi riescirà – egli esclamò, in preda a tale un’agitazione e a una confusione, che gli pareva di non aver parlato lui, ma un altro.



– Se questo non mi riesce, io sono perduta, Giovanni – ella soggiunse, cupamente,



– Ma perchè, perduta?



– Perduta, perduta! Questo è l’ultimo anello che mi lega alla vita: se si spezza, cessa la ragione della mia esistenza. Ebbene, io non posso perdermi, Giovanni, io non posso morire, io sono vecchia, perchè ho vissuto troppo, è vero, ma non ho che trentaquattro anni, e sono troppo pochi per rinunziare, per morire! Io non voglio rinunziare, io mi abbranco a questa speranza, essa mi deve aiutare a vivere, io voglio amare così, se no, sono perduta e niuno, niuno può desiderare la perdita e la morte di una creatura come me!



– Ma chi, chi volete amare? – gridò lui, levandosi, volendo fuggire, ma non trovandone la forza.



– Voi – esclamò ella, guardandolo con gli occhi sfolgoranti, con le labbra schiuse che mostravano i bianchi denti minuti, che egli aveva adorato.



– Me? me? E perchè?



– Perchè voi solo ne siete degno – diss’ella, aprendo le braccia, chinando il capo, con un atto di umiltà.



– Clara, io sono uno sciocco, un malato, un infelice, io non merito questo – disse lui, turbatissimo, dando indietro, cercando fuggire.



– Voi siete l’anima più buona e più nobile che io abbia mai incontrata – ella disse, con un accento profondo di amore, che finì di sconvolgere Giovanni.



– Clara, voi avrete con me le maggiori delusioni. Io ho sofferto, io sono stanco, sono vecchio, oh quanto più di voi, così piena di vita, di vivacità! Clara, Clara, se sapeste quanto sono vecchio, e quanto sono stanco, non dareste al mio cuore questa tortura, questa nostalgia…



L’ultima parola era così imprudente! Superbamente, realizzando il suo invincibile bisogno di espiazione, ebbra di sacrificio, folle di sacrificio, ella gridò:



– Che importa? Fosse anche così, così mi piacete: fosse anche peggio, voglio amarvi così!



– È un inutile amore, Clara – egli replicò, tristissimamente.



– Perchè, inutile? L’amore non è mai inutile!



– Inutile, lo vedrete, Clara: io non debbo ingannarvi. Io non vi amo.



– Lo so: non importa – diss’ella, crollando orgogliosamente le spalle.



– Ciò che è fuggito, non ritorna più. Io non posso amarvi di nuovo.



– Non importa – replicò ancora lei, giunta al culmine della superbia e dell’umiltà sentimentale.



– Clara, Clara, questo è un romanzo: io non ho le forze morali per seguirvi in questo romanzo.



– Non importa: camminerò sola. Il mio cuore è saldo, quando l’amore lo regge.



– Oh Clara mia, mia amica buona, voi v’illudete, voi non mi amate punto, voi siete in preda a un accesso di infinita bontà, voi v’ingannate, sul vostro cuore!



– Io vi adoro – ella disse, semplicemente, sorridendo.



– Non è vero.



– Provate – ella soggiunse, subito, con una tal luce nello sguardo, con un tal sorriso di offerta sulle labbra, che il poveretto vacillò.



– Sentite, Clara, io sono il più saggio, fra i due, e invece vi sembro il più scortese e il più crudele. Clara, restiamo amici, non tentiamo la Provvidenza, non prepariamoci un avvenire di amarissime delusioni. Guai, se vi credessi!



– Mi crederete – e sorrise, fiduciosissima di sè e dell’amore.



– Io non vi vedrò più! – gridò lui, sentendo sfuggirgli l’estremo suo lembo di coraggio.



– Perchè, Giovanni? Non mi amate, è vero: ma non è una dolce consuetudine di vedermi, per voi?



– Sì, sì, purtroppo…



– Non mi amate, lo so: ma non sono io, la donna che più avete amata? Non sono io la donna con cui più avete desiderato di vivere, la sola con cui abbiate desiderato di vivere!



– La sola, la sola!



– Ebbene? perchè mi dovreste fuggire? Dite che siete stanco, ammalato, vecchio, e che non mi potete amare? Quale pericolo correte, dunque? Voi avete la gran sicurezza; che temete?



– Nulla… infatti… ma dovrò fuggirvi.



– No. Restiamo amici, voi volete così? Restiamoci. Solamente, solamente io non sarò amica, ma innamorata di voi.



– Clara, sarebbe una condizione insopportabile!



– Io sola, la debbo sopportare! Che fa, a voi? Vi amerò così quietamente, così segretamente, che quasi quasi non ve ne accorgerete neppure. Sarete buono con me, ecco tutto: mentre io fui così cattiva!



– Voi, non siete fatta per questo orribile stato di animo, che è l’amore non corrisposto. Voi siete stata sempre una vittoriosa…



– Lasciatemi provare la dolcezza di esser vinta – disse ella tenerissimamente.



– Voi finirete per odiarmi, Clara, io lo so! – e fece un atto di disperazione.



– Ma perchè combattete questa lotta inutile e inefficace, Giovanni, contro me, contro voi stesso? Perchè mi negate il permesso di volervi bene, quando ciò non vi costa nulla e quando ciò può anche piacervi? Perchè rinunziate, quando non vi si domanda altro che di lasciarvi amare, Giovanni? Che vi fa? Perchè dite di no, quando nessuno vi chiede di dir sì? Lasciatevi amare, lasciatevi amare, è una cosa tanto confortante, tanto consolante, credetelo!



Egli non le rispose nulla.



– Vedrete, amico mio, vedrete che questo mio amore, mentre sarà il segreto della mia esistenza, non turberà la vostra. Fidate in me. Io vi saprò amare così bene, che non ne avrete nè preoccupazione, nè noia. Verrete a vedermi, quando vorrete. Io non vi darò le mie ore: vi aspetterò, sempre. Sarò profondamente felice, quando vorrete darmi qualche ora del vostro tempo: e se non vi vedrò, ebbene, non uscirà un lamento dalla mia bocca. Vi scriverò. Mi permetterete di scrivervi, è vero? Le lettere sono uno sfogo così dolce a chi ama: e non turbano colui che non ama. Giovanni, Giovanni, lasciate che io vi ami, non mi togliete questo amore, se vi sono stata cara una volta.



E pian piano, dalla sedia in cui era seduta dirimpetto, gli scivolò inginocchiata, innanzi, levando il volto trasfigurato verso Giovanni Serra. Egli la sollevò, nelle sue braccia, dicendole forte, violentemente come se volesse convincerne sè stesso, mentre la stringeva a sè:



– Io non ti amo… non ti amo!



– Ne sei certo? – ella chiese, misteriosamente, con la testa sul suo petto, col volto proteso a lui.



– Non lo so – balbettò il poveretto, in un impulso di luminosa verità.



E la baciò, sulle labbra. Tutta la virtù di quel cuore d’uomo, in quel bacio, cadde.



IV.

Infelicissimo amore! Immediatamente Giovanni Serra provò il confuso avvilimento della sua caduta e Clara la delusione della sua prepotenza sentimentale. Passata l’ebbrezza singolare e pur triste della grande serata, ella si trovò di fronte a Serra, nella condizione tormentosa e misera, di una donna che ama troppo, che vuole amar troppo e che, sovra tutto, pensa e dice di amar troppo, mentre non è riamata abbastanza. Infelicissimo amore! Giacchè nello speranzoso e baldanzoso animo di Clara, restituito ai consueti trionfi della sua beltà e della sua grazia, tolto dal fittizio ambiente di umiliazione morale, in cui ella si era collocata con amara voluttà di punizione, rimesso nella posizione solita ed orgogliosa di una donna che ha conquistato un uomo o che lo ha riconquistato, in questo animo in cui gli impeti della immaginazione erano il fondamento della passione e dove la vanità si nascondeva sotto le forme più semplici, in questo animo tramontò subito quel purissimo e inaccessibile ideale di un amore che volontariamente rinunzia alla corrispondenza, di un amore che volontariamente invoca di esser dolore e di essere espiazione. L’imperioso cuore che si voleva dare in un immenso sacrificio, privo di premio, ritirò subito la sua offerta, quando negli occhi smarriti di Giovanni Serra vide la follia dell’amore, quando egli si curvò a baciare quelle labbra col trasporto di un uomo che non ha mai finito di amare, che ricomincia ad amare, con la forza di dieci anni di ricordi, accumulata e repressa. Clara passò la notte seguente nella veglia deliziosa, e indescrivibilmente deliziosa di chi ha trovato, nell’amore, quello che cercava, il gran segreto che tutte le anime sentimentali e passionali cercano: un amore eguale al proprio, la corrispondenza perfetta e l’armonia sublime. La vita, infine, aveva dato, con dieci anni di ritardo, è vero, ma con più potenza di concentramento, alla donna innamorata dell’amore, ciò che ella non aveva mai provato, ciò che pochi uomini e poche donne provano sulla terra: un amore schietto e profondo, così sentito e così corrisposto. Immensa delusione: e infelicissimo amore!



Poichè, quando ella rivide Giovanni e guardò nei suoi occhi, ella vi scorse un imbarazzo mortale, una tristezza mortale, come ne nascono nelle pure coscienze di coloro che caddero per una inesplicabile debolezza della volontà. Clara credeva, era certa di vedersi apparire innanzi un uomo felice, ringiovanito, ridato alla forza vincitrice degli ostacoli e ridato agli entusiasmi dell’età più bella: e invece, Giovanni aveva l’aspetto di un uomo che ha errato e che sente amaramente tutto il peso del suo errore. Clara era lieta e dolce, aveva rialzato i suoi capelli in un grosso nodo attraversato dagli spilloni di tartaruga, come dieci anni prima, aveva un vestito chiaro e gaio: e Giovanni la guardava, con certi occhi distratti e stupiti, dove, ogni tanto, si abbassava il velo di una malinconia intensa, dove, ogni tanto, passava la nuvola dello sgomento.



– Come siete gioconda, questa sera! – le disse, come trasognato.



– Perchè ti voglio tanto bene – ella gli rispose, dolcissimamente, prendendogli le mani.



Egli si turbò sempre più.



– Non parliamo di questo, Clara.



– Perchè? Non mi credi? Non mi credi?



Egli tacque. Non le credeva, infatti. Ella intese perfettamente questa sfiducia.



– Che debbo fare, perchè tu creda?



– Nulla, Clara: non fare nulla. Io sono uno sventurato.



– E perchè? Non ti voglio bene, io, malgrado la tua incredulità? Non mi vuoi bene, tu?



– Io! – gridò lui. – No, no, non ti amo!



– E che mi hai detto ieri sera, allora? Hai mentito? Sei diventato bugiardo, ora? Non eri bugiardo, prima.



Giovanni Serra non rispose. Era così pallido, così disfatto ed evitava tanto di guardarla!



– Amore mio, amore mio – ella riprese, tenerissimamente, carezzandogli una mano – non tormentarti, te ne prego. Non ti dico nulla, non ti domando nulla: la mia voce e le mie parole ti agitano, lo vedo. Lascia ch’io stia vicino a te, così, in silenzio.



Era, difatti, seduta accanto a lui, sul divano, e gli aveva passato un braccio sotto il braccio; aveva appoggiata lievemente la testa sulla sua spalla. Un lungo silenzio: ma ella, a occhi bassi, sentiva che il respiro di Giovanni diventava affannoso. Allora, pian piano, levò gli occhi, lo guardò, gli mormorò:

 



– Mi vuoi bene?



Una così grande espressione di dolore, negli occhi di quell’uomo! Ella tacque, ancora un poco, legata a lui, cheta, respirando appena: poi le parve che egli le sfiorasse con le labbra i capelli:



– Mi vuoi bene, amore? – chiese, sorridendo nel fondo del cuore.



Giovanni sospirò profondamente e rispose:



– No.



Attraversata da un impeto d’ira, ella si staccò bruscamente da lui, si levò, esclamando:



– Sei cattivo e scortese.



Una scena dolorosa avvenne fra loro, dove tutta la violenza e tutta la natural tenerezza del cuore di Clara – tenerezza repressa nel periodo d’isolamento in cui era stata – sgorgarono in parole precipitose, ardenti, innamorate e pure ingiurianti: e dove tutta la mitezza e tutto il profondo scetticismo di Giovanni si manifestarono, più dolci e più freddi, pieni delle grandi timidità di chi, avendo amato invano per tanto tempo, ha oramai una paura invincibile di amare. Due o tre volte, durante questa penosissima scena, ella lo offese in un modo crudele, poichè era avvezza a calpestare i cuori che adorava, per poi adorarli più profondamente, dopo; ed egli sentì l’offesa, con un amaro piacere, giacchè essa lo autorizzava non a reagire, ma ad andarsene, per non ritornare mai più. Questo, questo, era il suo intimo desiderio, innanzi a quella donna che lo affascinava e che lo terrorizzava coi tumulti strani della sua fantasia, con le singolarità di un temperamento fuggevole e pericoloso, con l’impensato di un’anima, nella quale la inconscienza assumeva degli aspetti terribili e dolcissimi. Nel momento in cui ella più gravemente lo ingiuriò, egli pensò che era giunta la salvazione per lui, se partiva. Ma quando ella lo vide arrivato alla soglia, quando intese che lo perdeva, così, miseramente, irrimediabilmente, lo chiamò con una voce così spezzata dal pianto, che egli si volse, venne a lei. Clara piangeva, Piangeva! Mai l’aveva vista piangere, Credeva che non potesse piangere, tanto il gran riso clamoroso, e il riso breve, e il sorriso, e il sogghigno le eran particolari. Clara piangeva, soffocando dai singhiozzi, con un lamento che le usciva dalle labbra, continuo. Il cuore di quell’uomo buono s’infranse, ed egli intese sul suo petto quel povero corpo femminile scosso dai singulti, ed essa intese da quella voce tremante e fievole la parola d’amore, strappata dall’essenza di quell’anima, dolorosamente.



Tali furono, sempre, le amarissime vittorie di Clara; e procedendo oltre, il combattimento fu diversamente aspro, con forze maggiori o minori dall’una parte e dall’altra, ma concedenti sempre il più triste dei trionfi al soldato più energico e più ardente, più abituato alla guerra dell’amore, più multiplo nelle sue risorse di attacco e di difesa. Giacchè appena Giovanni Serra si allontanava da Clara, dalla sua casa, dal cerchio magico in cui ella lo rinserrava, rinasceva in lui il desiderio della fuga ultima, della liberazione. Quando ella non era presente ed egli non ne vedeva le grazie delicate, e la novissima incantatrice dolcezza, e tutta la seduzione muliebre potente, Clara gli appariva come l’aveva sempre considerata, da dieci anni: una donna attraente, perfida e fallace, a cui egli aveva gittato inutilmente il suo cuore e per la quale aveva perduto ogni fede in sè stesso e nella vita. La figura di una creatura quasi mostruosa, senza pietà femminile, senza alito di sentimento nell’anima, senza coscienza pel bene, come pel male, formatasi in dieci anni nel suo spirito, lo signoreggiava, di nuovo, con novello impulso di ribrezzo, di orrore. Mutata, forse? Forse. Ella era capace di tutto, anche di vestire l’aspetto della maggior tenerezza della maggiore nobiltà spirituale, e di essere, forse, tenera e nobile veramente, per un certo tempo per ordine della propria volontà, sino a che la natura sopita si risvegliasse, e l’onda della perfidia e della menzogna trasportasse via il bel sogno di bontà e di dolcezza. Mutata? E che, perciò? Anch’egli s’era mutato purtroppo, e dove la lava incandescente della passione aveva gorgogliato, schiumando, del fuoco, si stendeva il lapillo grigio e freddo delle devastazioni vulcaniche: dove aveva vissuto la fede nell’anima umana e nella sua purezza, vi era il gelo di un dubbio tranquillo e non più torturante: dove avevano balzato di gioia e di voluttà gli entusiasmi giovanili, vi era l’inazione e l’aridità. La lealtà, il rispetto, la bontà virile rimanevano intatte in quell’uomo che aveva avuto in dono, nella giovinezza, le qualità più nobili dello spirito: ma ciò che restava, non bastava all’amore. Una parte di quel cuore, era veramente finita. E tutta la sensibilità che ancor viveva in lui, fremeva di sgomento all’idea di essere stato ripreso da quel fascino; non si sentiva più la forza morale per quelle lotte e il risultato non gli sembrava più la sua grande ambizione. Così, di lontano, egli formava sempre il disegno di non vedere mai più Clara. Ella gli scriveva delle lettere lunghe e bizzarre, con un’incoerenza sentimentale che sarebbe stata molto interessante e molto seducente per un uomo più giovane e più vivace, meno provato dai dolori della vita, ma che gli produceva un senso di ripulsa, di maggior distacco: non rispondeva alle lettere. Ella gli mandava degli appuntamenti; Giovanni vi mancava, due o tre volte. Perchè, alla quarta volta, egli non resisteva più e vi andava, riluttante, pieno di tutte le incertezze? Egli non se lo spiegava: e nella sua timida immaginazione, il fascino di Clara assumeva un aspetto onnipossente; Giovanni aveva bisogno di credere a un potere ascoso, rarissimo, unico, per spiegare la mollezza della sua volontà. Perchè, tante volte, quando egli andava da lei, ben deciso, ben risoluto, a dichiararle che quell’amore così povero di gioie, così dubbio, così squilibrato non aveva ragione di essere e di durare, perchè Giovanni, innanzi al bel volto tranquillo e sorridente di Clara, a quelle mani che gli si tendevano affettuosamente, al suono di quella voce che ella rendeva così insinuante, per lui, perchè egli non diceva più niente, lasciandosi andare alla corrente di quel sentimento, illuso per un poco, credendo di essere amato, credendo di amare? Perchè, nelle loro grandi scene, scoppiate improvvisamente, egli aveva provato a proclamare la sua libertà, la sua indifferenza, sempre più duramente, meravigliandosi anzi talvolta della propria durezza, ed era riescito soltanto ad esasperare Clara; ma non aveva svincolato il proprio cuore? Perchè, mentre egli era dei due quello che meno pensava d’amare, che meno diceva d’amare, che non scriveva, che rinunziava ai convegni, perchè, poi, era lui quello che più cedeva, che più si dava, che più rientrava in servitù, con ritorni di affetto che costituivano le pochissime soavità di quell’amore? Perchè, una volta, quando stettero quindici giorni senza vedersi ed ella continuava a scrivergli, egli non ebbe la forza di non aprire, come aveva dichiarato, le sue lettere? E una sera, ella passava, sola, triste, pallida, per una via, rientrando nella sua casa deserta con aspetto di tale abbattimento ed infelicità, che Giovanni, vedendola innanzi a sè, non visto da lei, provò uno schianto indicibile. Ritornò a lei, subito, senza che lo avesse chiamato: e Clara stessa si stupì di questo ritorno inatteso, mentre il suo cuore si era immerso già nell’amarezza dell’abbandono. E ingenuamente, puerilmente, Giovanni non sapendo come spiegarsi la sua debolezza e la sua disfatta, pensava a qualche cosa d’insolitamente affascinante, e diceva, come un bimbo:



– È una strega.



Ma per colei che misteriosamente lo riconduceva a sè, ogni volta, questi trionfi erano un tossico. Fermentavano dentro il suo spirito indomito le ribellioni più profonde contro questo stato di lotta che avviliva l’idea ch’ella si era fatta di quell’amore e che la mortificava in tutte le sue vanità muliebri. Ella, infine, lo amava, è vero, come poteva e come sapeva, con un senso immensamente egoistico che aveva sempre dominato in quell’anima: lo amava, perchè le