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Le amanti

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– Voi siete sempre la stessa.

Sì, Clara era sempre la stessa, con un carattere mobile e pure ostinato, con una energia breve e caduca, con un disprezzo intimo e cordiale di sè, con un egoismo a cui dava le forme nobili dell’amore, con un desiderio di vivere e di godere che non si saziava mai; e su tutto questo fondo stravagante, e spesso perfido, e spesso capace dei più alti sagrificii, il ricordo di una vita vissuta mediocremente, il ricordo di sciocchi errori e di delusioni meschine. Era sempre la stessa, lei, ma da tutti i pianti versati nella solitudine della sua casa, da tutte le angoscie soffocate sotto la sua maschera di donna mondana, da quell’abbandono in cui aveva passato un anno, le era venuta innanzi alla mente la grande verità, che tutti i calcoli dell’egoismo sono sempre sbagliati, e che bisogna vivere per gli altri, per poter essere felici. Non era fatta per questo, la sua natura capricciosa ed esaltata: ma la sua volontà le imponeva di assuefarsi alla più semplice verità umana, che è la felicità altrui: ed ella giungeva con uno sforzo supremo là dove altre creature arrivano naturalmente e la sua bontà calma, la sua dolcezza ragionata, la sua serenità esteriore avevano, forse, maggior merito, poichè ella affogava in esse tutto il clamore di un’anima ribelle. Soffriva profondamente, perchè non era amata abbastanza, perchè non era neppure certa di essere amata: dentro le vene ardeva il sangue per collere improvvise: cento volte ella sentiva la tentazione di scacciare Giovanni da sè, di non vederlo mai più. Ma il pensiero che egli, veramente, la credesse ancora una perfida femmina, capace del male per la voluttà del male, ma l’idea di desolare ancora Giovanni, con una catastrofe spirituale, tale che per sempre ne restasse violata la sua memoria, la rigettavano nell’amore e nel sacrificio.

E più il suo spirito spasimava per la battaglia che sosteneva, più ella prodigava a Giovanni Serra i tesori della più squisita affezione. Egli, talvolta, ne restava avvilito. Ora, non le diceva più di non crederle; nè, d’altra parte, la fiducia nasceva in lui, bensì uno stupore malinconico. Quando ella gli dava qualche novella pruova, non chiesta, di amore, egli restava confuso e rammaricato:

– Io non merito questo, Clara. Tu esageri sempre: e che sarà il nostro avvenire, così?

– Io ti amerò sempre egualmente – diceva ella, esaltata.

– Quante volte l’hai detta la parola sempre?

– Ah tu sei crudele! – esclamava lei, abbassando il capo per nascondere il suo pallore.

Sì, quell’onest’uomo, quell’uomo onesto e buono era spesso crudele, con lei. Non s’accorgeva di colpirla, così duramente: o non la credeva sensibile: o credeva che fosse necessario di colpirla, per guarirla da questo morbo spirituale che la teneva. Certi giorni, dopo un’assenza di una settimana, le appariva innanzi quietissimo, avendo l’aria di non vedere che ella era disfatta dall’attesa, non dando nessuna scusa alla sua mancanza. Un dialogo freddo si stabiliva fra loro due: le labbra di lei fremevano leggiermente, perchè reprimevano lo sdegno: egli non capiva ciò e dopo un’ora trascorsa, così, in uno strazio fine e pur terribile, egli si levava per andarsene:

– Vieni domani? – ella diceva, a occhi bassi, pallida come uno spettro,

– Non so.

– Dopodomani, allora?

– Non ti saprei dire: ho delle faccende noiose da sbrigare.

– Ah! – diceva lei, senz’altro, sentendosi morire.

– Ti scriverò, quando posso venire.

– Va bene.

E lentamente lo seguiva, mentre si avviava alla porta: gli porgeva una mano gelida ed immota. Talvolta, egli le chiedeva:

– Che hai?

– Nulla – ella rispondeva con voce così mutata che egli avrebbe dovuto capire. Ma, temendo una scena, egli se ne andava, senz’altro. Come ella correva nella sua stanza, gittandosi sul letto, mordendo i cuscini, ingiuriando la freddezza di Giovanni, imprecando alla propria viltà, esalando tutta l’ira della sua delusione, soffocando le grida del suo cuore che insorgeva contro un dolore così atroce! La crisi durava una notte intiera: ella si addormentava all’alba, con gli occhi rossi di lacrime, con il petto ancora esalante sospiri. Egli non sapeva nulla di ciò. Ella temeva che Giovanni la fuggisse per sempre, se diventava troppo insistente e troppo noiosa. L’altiera donna era giunta a credersi una seccatrice. Pure, qualche sera, quando più l’onesto e buon’uomo era stato crudele, ella sentiva cadere le forze della sua rassegnazione. Allora gli appariva infelice, così accasciata, così perduta in un abisso di delusioni, che l’oscuro mistero della sua tenerezza per Clara, si svelava. Una volta, egli era andato via. Appena fuori, sulle scale, egli intese, dietro la porta ancora chiusa, un tale scoppio di singhiozzi che tornò indietro, bussò e la trovò smarrita, incapace di affogare i suoi lamenti, incapace di dominarsi più. Qual notte! Egli le parlava ed ella, perduta in un oceano di amarezza, non gli rispondeva, mentre, come se fosse sola, si raccomandava alla Madonna ed ai santi, perchè la liberassero da quelle torture. Egli le prendeva le mani, ma ella le ritraeva, come inorridita, convulsa, per rivolgerle al cielo, per chiedere la pace, la pace, niente altro: egli cercava di abbracciarla, ma quel corpo fremente gli sfuggiva; essa passava da un divano all’altro, camminava al buio, per le altre stanze, parlando sola, gemendo, tutto il suo male, gemendo di dover amare così, gemendo di essere così poco amata. Notte fatale, invero: giacchè fu allora soltanto ch’egli capì tutta la gravità del loro caso: giacchè fu in quella scena di lacrime, di convulsioni, in cui ella pareva avesse dimenticata persino la sua presenza, che egli le parlò, per una volta, come dieci anni prima, come un innamorato, come un amante. Egli s’inginocchiò innanzi a lei e le chiese perdono della sua condotta, e la pregò che avesse pietà di lui; la scongiurò di credergli, quando le diceva che nessun essere le era devoto come il suo, e di compatirlo se egli non sapeva amarla, se egli non sapeva ritrovare in un’anima stanca, malata, vecchia, gli accenti e gli entusiasmi dell’amore; che per quanto egli poteva amare, l’amava; che era poco, sì, era poco, per una donna appassionata come lei; che ella meritava un miglior innamorato, un miglior amante; ma che lui non poteva amar meglio, ma che egli le aveva dato tutto, dieci anni prima, e che quella devastazione era opera sua. Mentre ella, sfinita, esausta, si passava ancora sugli occhi aridi il fazzoletto bagnato di lacrime, Giovanni, ai suoi piedi, le narrava ancora la sua miseria sentimentale presente, la sua morbosa sensibilità che aveva paura dell’amore, la sua impotenza spirituale, tutta la rovina irreparabile che gli impediva di esser per lei il perfetto innamorato, il perfetto amante. Alle sue ginocchia, in una evocazione straziante, di quello che era stato il suo passato d’amore e nello strazio della presente realtà, egli versò poche, cocenti lacrime, le più dolorose che avesse versate mai. Smorta, con gli occhi spalancati su lui, reggendosi la testa con le mani, ella che aveva gridato tutta la sua desolazione, udiva ora le parole di una ben diversa miseria, di un disfacimento umano assai più tragico del suo; e mentre l’alba faceva il cielo di un freddissimo biancoverdino, i due amanti si guardarono, presi da una pietà immensa, per sè stessi, e sentendo che nessuno dei due poteva consolare, giammai, giammai l’altro.

Ella, folle oramai di sacrificio, fu dimentica di sè, e si rassegnò a una forma qualsiasi dell’amore, purchè Giovanni non l’abbandonasse. Rinunziava alla passione, chiudendo gli occhi: ella che adorava solo la passione! L’amasse Giovanni, come voleva, come poteva, quando voleva: purchè quel residuo di tenerezza fosse suo! Oramai ella diventava simile ai malati che, giorno per giorno, vanno rinunziando alle dolcezze che godono i sani e fanno un ragionamento malinconico a ogni rinunzia. Diceva, ella:

– Tu, che non mi scrivi mai…

E se egli annuiva, ella frenava il suo spasimo. Giovanni, un tempo, le aveva troppo scritto: adesso non ne aveva più la forza. Altre volte diceva:

– Tu non vieni; è vero, domani sera?

Ed era perchè soffriva troppo, a udirlo dire da lui che non sarebbe venuto. Parlando dell’amore, ella soggiungeva, con un debole sorriso:

– Tu che mi vuoi bene così poco…

E lo sogguardava, ansiosamente, per osservare anche l’espressione più fugace. Egli sorrideva, acconsentendo al fatto di amarla poco: Clara indietreggiava, disperata internamente della pruova. Qualche volta, bonariamente, ella gli tendeva un tranello:

– Perchè mi ami così poco? Io ti voglio troppo bene.

– Perchè non posso di più.

– Non puoi, non puoi? Tenta.

– Oh no! – esclamava, con un tono di stanchezza, di sfiducia, di paura.

– Io ti amo troppo – ella diceva, affogando di dolore, ma non mostrandolo.

– È ciò che mi trafigge. Io sono un indegno, Clara.

– E se non ti amassi più?

Giovanni impallidiva e taceva. Quel pallore, la rincorava.

– Se non ti amassi più, di’?

– Mi rassegnerei malinconicamente. Sono stato un grande sventurato, sempre.

– Ti rassegneresti? – e fremeva, ella.

– Mi rassegnerei.

– Mi riesce impossibile di non amarti, Giovanni! – ella esclamava.

– Se tu volessi, ti sarebbe facile. Credimi, non ti ho meritata prima: non ti merito adesso. Era destino!

– Parliamo d’altro – diceva lei, brevemente, vinta.

Ma si rinnovava ogni giorno, ogni sera, il duello, sopra una ben semplice frase così cara a tutti gli amanti. Quando ella era di umore più lieto, gli diceva:

– Già, non ti domando se mi vuoi bene. Sarebbe inutile.

– Sarebbe inutile – mormorava lui, sorridendo, cercando di scherzare.

– Non mi ami affatto? – e la voce lievemente le tremava.

– Affatto.

Clara taceva, incapace di scherzare più.

 

– Che hai? – chiedeva Giovanni.

– Nulla.

– Nulla? Ti ho rattristata?

– Un poco.

– Sono un infelice – diceva Giovanni, così schiettamente addolorato, che Clara non osava proseguire la discussione.

Ma, talvolta, la domanda era diretta:

– Mi vuoi bene?

E se lui era tranquillo, senza fremiti nella sua sensibilità, le rispondeva:

– Tu lo sai.

– Non so nulla. Ripeti un poco,

– Quante volte lo vuoi sentire, Clara!

– Gli è che non lo dici mai, mai, mai!

– A che serve?

– Mi serve: mi serve immensamente. Te ne prego, Giovanni, Giovanni mio, mio amore, dimmi se mi vuoi bene!

– Ti voglio bene – diceva lui, a occhi bassi, quasi per forza.

– Quanto?

– Quanto posso.

– E poco, è vero, è poco?

– Perchè mi ricordi che sono un poverello, in fatto di amore? Perchè mi rinfacci la mia miseria? Perchè mi rimproveri se non ho più lena, se non ho più una scintilla di entusiasmo? Clara, Clara, tu mi uccidi, così!

– Perdonami – diceva lei, scivolandogli inginocchiata innanzi, con un moto che le era familiare.

– Io non debbo vederti più – diceva lui, come se parlasse a sè stesso.

Oppure, la frase cara agli amanti riappariva in altri modi tormentosi. Talvolta, dopo un lungo silenzio, vagamente, distrattamente, come per un moto delle labbra, ella chiedeva:

– Mi vuoi bene?

Giovanni non rispondeva. Immediatamente, ella diventava trepida e ansante:

– Giovanni, mi vuoi bene?

Allora egli usciva dalle sue riflessioni e vagamente, distrattamente, diceva:

– No.

– Giovanni?

– Clara!

– Hai detto che non mi ami?

– L’ho detto.

– Ed è vero?

– È vero.

Silenziosamente, ella curvava il capo, e le lacrime le discendevano sulle guancie. Giovanni la guardava, desolato: poi, le andava vicino, le carezzava una mano, le baciava le guancie bagnate di lacrime.

– Ho scherzato – diceva.

– Tu non ischerzi mai.

– Ho scherzato.

Tutto finiva, così: ma le lacrime erano state versate. E infine, sulla frase cara agli amanti, avveniva ancora questo:

– Tu non mi chiedi mai, Giovanni, se ti voglio bene!

– Perchè chiedertelo?

– Non ti piace saperlo?

– No, non mi piace.

– Ti tormenta, il mio amore?

– Sì, mi tormenta tanto.

– Ma perchè, ma perchè?

– Perchè mi hai amato troppo tardi – esclamava lui, per la centesima volta; – perchè io non sono più il giovanotto appassionato di dieci anni fa, ma un uomo arido e stanco, senza speranze e senza desiderii! È tardi, è tardi, Clara.

– Mai tardi, per l’amore.

– Siamo vecchi, Clara: il nostro sole tramonta.

– Dio mi salvi dalla notte – ella mormorava, avvilita, senza più energia.

Vi fu un giorno, però, in cui tutte le ombre malinconiche, e le incertezze, e i timori parvero dileguati. Era nella calda estate ed ella era andata ad Albano, sui colli, per fuggire l’aria soffocante di Roma. Colà, lo aspettava pazientemente, per giornate intiere, ma egli, pur promettendo di venire a trovarla, pur scrivendole, non veniva mai. Per tre o quattro volte ella era andata alla stazione, inutilmente. Una grandissima tristezza adesso opprimeva la donna superba; giacchè le pesava sulle spalle tutto l’irreparabile del suo errore sentimentale. Volontariamente ella si era ingolfata in questo amore; con ostinazione di passione ella ne aveva abbracciata la croce; la sua fantasia l’aveva spinta ai più duri sacrificii; e adesso erano impegnati il suo cuore e il suo onore. Stando sola, nella freschezza dei colli albani, ella approfondiva l’immensità del suo ultimo fallo e quel verde riposato tutt’intorno, e quella serenità la crucciavano. Infine, un giorno egli giunse, quasi inaspettato. Era così lieto! Le disse, subito che non era venuto, ma che aveva sofferto molto, a non venire: che l’aveva molto amata, nella sua assenza: e le domandò, se ella lo amasse ancora. Così lieto! Ella diventò lietissima. Andarono, insieme, sotto l’ombrellino di Clara, a una lunga passeggiata, a braccetto, a traverso i sentieri di campagna, fra i prati fioriti. Clara aveva un vestito di seta leggiera, di un bianco avorio: e un gran cappello di merletto avorio come una cuffia. Pareva molto più giovane e così delicata che egli la chiamò, ridendo: Madame la marquise. Ella era raggiante. Si sedettero sull’erba, all’ombra di un elce secolare, famoso in quelle campagne, e le loro anime furono così assolutamente e perfettamente armoniose, in quella solinga e serena campagna, che essi si guardavano e indovinavano l’un l’altro i pensieri. Si dispersero, due volte, per la via, ridendo, scherzando, baciandosi, dietro l’ombrello abbassato di Clara: e Madame la marquise arrossiva finemente di gioia, sotto l’ombra bianca del suo grande cappello. Non un motto del passato: non un pensiero del domani: non un velo di amarezza, mai. Egli aveva l’aria di un fanciullo; strappò dei fiori di campo, odorosissimi, ne fece un gran fascio, lo portarono all’albergo in trionfo. Là pranzarono soli, soli, in un angolo della stanza da pranzo, guardandosi negli occhi, sorridendosi, toccandosi le mani nel porgersi un bicchiere, un piatto, ebbri di una gioia di vivere che li faceva impallidire di piacere. Andarono sulla terrazza dell’albergo, soli sempre, tenendosi per mano, tacendo, dicendosi nello sguardo innamorato quelle cose profonde e intime, che l’amore pensa e non dice. Ogni tanto, ella chiedeva:

– Mi vuoi bene?

– Sì – rispondeva lui, semplicemente, senza reticenze.

– Quanto?

– Molto.

– Io ti adoro – ella concludeva, arrossendo.

Alla sera, ella lo ricondusse alla stazione, attaccata al suo braccio, innamoratissima di lui, mentre lui non sapeva staccare lo sguardo da quei cari occhi: si baciarono nella penombra della stazione, senza pensare a chi li guardava. Il treno si mosse, ella restava a guardare e lui si sporgeva dallo sportello, salutando.

Ella gli scrisse, nei giorni successivi, otto o dieci lettere, folli: egli non rispose. Aveva giurato di ritornare: non ritornò. Ella ripartì per Roma, prima che la villeggiatura finisse.

V.

Vestita di bianco, con un leggiero scialletto di crespo bianco sulle spalle, Clara, in quelle ultime lunghe sere di estate, aspettava Giovanni al balcone. Prima, la solinga donna leggeva un poco, si aggirava come un fantasma per la casa deserta; poi, verso le nove, approssimandosi l’ora dell’arrivo, ella esciva sul balcone, interrogando le penombre di via del Babuino. Malgrado che l’afa di quella fine d’agosto togliesse la gente alle case soffocanti e la spingesse per le vie, in cerca di un fantastico fresco, via del Babuino era spopolata. È lontana dal centro: ed è via di forestieri, che la popolano solo nell’inverno. Pochissima gente l’attraversava; avanzandosi la sera, non più un viandante. Clara guardava l’alto della strada, verso piazza di Spagna, donde giungeva sempre Giovanni, quando giungeva: e appena una persona svoltava l’angolo, essa si piegava sui ferri, cercando distinguere l’alta figura e il passo un po’ lento, a lei così noti. L’ora serotina si svolgeva, calda, spesso attraversata da un molle soffio sciroccale; Giovanni non compariva. Affaticata dallo stare in piedi, ella si sedeva sovra uno sgabello di legno, che era fuori sul balcone; appoggiava la testa ai ferri, in atto di pazienza e di riposo; talvolta, un lieve sonno la coglieva; alle undici e mezzo, che ella sentiva suonare a Santa Maria del Popolo, si levava, rientrava, poichè Giovanni non sarebbe venuto più. Un brivido di freddo la coglieva, in casa: e si accostava alla sua scrivania, per scrivergli un biglietto, una lettera, lagnandosi che egli avesse ancora mancato alla promessa. Ma, sedutasi, si rialzava subito: a che lagnarsi? Su sette sere della settimana, egli mancava cinque: e la lasciava, così, in una interminabile aspettativa, fuori su quel balcone, in una solitudine e in una malinconia grande, sapendo benissimo che ella lo aspettava ogni sera e che era sola, solissima. Adesso, ella non si lagnava più, giacchè le scene la stancavano e la impaurivano, perduta di energia, precipitata e giacente nella inazione spirituale di chi ha troppo amato inutilmente: e non lamentandosi lei, egli non si scusava neppure e aveva l’aria di non rammentarsi che ella non esciva, non vedeva nessuno, per lui soltanto. Oramai, Clara non aveva più quelle crisi di violenza, in cui malediceva l’aridità del cuore di Giovanni e la viltà del proprio cuore che non sapeva infrangere un legame così fittizio e così torturante: ella era in preda a quelle sonnolenti rassegnazioni, che abbattono tutte le persone di carattere impetuoso, dopo un periodo di passione. Sul viso altiero di Clara, dove sempre aveva brillato il sorriso trionfale della donna padrona del proprio destino, ora sedeva l’espressione stanca e paziente della vittima. Quando Giovanni le riappariva innanzi, ella sorrideva tenuemente, gli si sedeva accanto, ma non troppo vicino, non gli faceva un rimprovero, gli parlava a voce bassa, senza ridere mai. Egli la guardava curiosamente: scrutava tutte le impressioni di quel volto mobile, di quegli occhi vivacissimi, e scorgendovi come disteso un velo d’inesorabile e quieta tristezza, crollava il capo, senza dire nulla. Egli stesso era profondamente triste. Forse, s’imponeva di non andare da Clara, più spesso. Forse, per una singolare contraddizione del suo spirito, quell’aspetto di vittima, quel silenzio, quella mancanza di sorriso, lo tormentavano più di una scena furiosa. Nel settembre, egli partì per Napoli, senz’avvertirla neanche; ella gli scrisse, tre o quattro volte, delle lettere pacate, ma senza rampogna; delle lettere dove tutto il fuoco dell’anima di Clara parea fosse stato smorzato dalle lacrime. Ritornò, Giovanni, dopo dieci giorni: ed ella non gli fece nessuna interrogazione, fredda e tenera, fredda e triste, fredda e oppressa da una fatica morale che le traluceva, torbidamente, dagli occhi.

– Che hai? Che hai? – le chiese lui, quel giorno, con ansietà, andando volontariamente incontro a una spiegazione.

– Sono stanca – ella disse, chinando gli occhi.

– Di me?

Ella esitò, un minuto. Disse:

– No.

– Finirai per odiarmi, io lo aveva preveduto – egli soggiunse, desolatamente.

– E perchè, Giovanni? Tu non hai nessuna colpa.

– E tu neanche, poveretta! – replicò lui, prendendole le mani.

Ella si svincolò, dolcemente e freddamente.

– Oh io, sì! – e un vero accento di convinzione, la dichiarava colpevole di quel malinconico ultimo peccato, pieno di tante delusioni.

– La colpa è delle cose, è degli anni, è della fatalità – egli spiegò.

– La fatalità è la scusa dei deboli e degli sciocchi – diss’ella brevemente. – Io ho voluto che questo fosse; la colpa è mia.

– Poveretta, poveretta! – mormorò lui, con voce di pianto.

– Mi sono ingannata, anche questa volta – ella replicò, con una freddezza di ghiaccio.

L’accenno agli amori passati, il primo che ella facesse durante un anno e mezzo di relazione con lui, la comunanza del suo amore con gli altri, nella mente di Clara, gli fece una impressione pessima.

– Io non ti ho ingannata – esclamò lui offeso, contristatissimo.

– Chi sa! – ella disse. – Hai creduto di dirmi la verità: ma quando è che l’hai detta?

– Mai, mai ti ho ingannata!

– Eppure un giorno mi dicevi d’amarmi e un giorno lo negavi. Quando è che mentivi?

– Mai, mai, Clara!

– Vedi bene che tu stesso ignori la verità. Tu non sai niente!

– So che soffro, ecco tutto.

– Anche io, molto, Giovanni, molto.

– Non più di me!

– Più di te, più di te, in un modo diverso, con una intensità maggiore e diversa. Niuno ha mai espiato un peccato più immediatamente e più rigorosamente di me, credilo.

– Povera Clara, io ti ho portato sfortuna! – e la più grande tenerezza vibrava in lui.

Ma queste gelide consolazioni non arrivavano a riscaldare il cuore della donna.

– La fortuna o la sfortuna è in noi – rispose ella, recisamente.

– In me, in me! Sono un essere malaugurato e sventurato.

– E perchè? Non hai amato?

– Troppo presto e troppo male, Clara!

– Non sei stato amato?

– Troppo tardi, troppo tardi.

– I tuoi ricordi saranno dolci, nella vecchiaia – ella soggiunse, con una glaciale tenerezza.

– Io non giungerò alla vecchiaia degli anni, lo so.

– Fortunato te!

Fu l’unica parola profondamente disperata che le uscì di bocca, in quello strano duetto. Ma, adesso, i loro scarsi e rari colloqui diventavano penosi; vi aleggiava una tristezza infinita, i loro volti erano distratti e assorbiti, un soffio di gelo chiudeva la coppia amorosa. Amorosa? Niuna parola d’amore, più. Ella, a poco a poco, gli scriveva meno. Egli se ne lagnò:

 

– Perchè mi scrivi così poco?

– Ti affliggerei, scrivendoti.

– Tu puoi dirmi tutto, lo sai.

– Non ho da dirti nulla.

Anche quando si vedevano, la conversazione si rallentava fra loro. Prima, Clara si interessava a tutta l’esistenza di Giovanni lasciandosi narrare le sue noie e le sue soddisfazioni: adesso, ella non lo interrogava più. Se egli voleva dirle qualche cosa, lo ascoltava, ma con gli occhi velati, quasi non intendendo.

– La tua anima è lontana, Clara – le disse, una sera.

– Non è che malata, tanto malata – ella si lamentò.

– Non speri di guarire?

– Sperare di guarire? Questa guarigione è anche la morte.

– La morte è di tutte le anime che hanno amato.

– È vero – ella concluse, a capo basso.

Adesso, ogni tanto, guardandola, mentre essa lo guardava, gli pareva di vedere delle lacrime negli occhi. Ma esse si dileguavano. Talvolta, ella si alzava dal suo posto, andava verso un balcone, andava nell’altra stanza: egli indovinava che Clara rasciugava queste poche lacrime: l’avanzo dei grandi pianti antichi,

– Perchè ti viene da piangere, guardandomi? – le domandò, infine, turbato assai di ciò, intravvedendolo.

– Io? No, non piango.

– Perchè me lo nascondi? Non sono il tuo migliore amico?

– Amico? Io non ho amici.

– Il tuo amante, allora? – ribattè lui, dopo una esitazione.

– Io non ho amanti, Giovanni.

– L’uomo che ti ama?

– Nessuno mi ama.

Profondo silenzio. Le lagrime erano inaridite negli occhi di Clara: ma egli vi ritornò sopra amaramente:

– Non vuoi dirmi, perchè mi guardi e i tuoi occhi si orlano di lacrime? Ciò è così triste! Mi pare che tu pianga un morto.

– Sono tanti i modi di morire.

Così, in questo ambiente di gelido dolore, di amarezze quiete e infinite, di grandi veli bigi e fitti che li avvolgevano in una nuvola di orrenda e intima malinconia, evitavano di vedersi in casa, dove soffrivano anche più. Non si davano convegno, ma si incontravano randagi pallidi, vagabondi delle vie remote di Roma, camminando accanto senza parlarsi, o scambiando qualche motto insignificante. Una volta andarono al Colosseo; era un chiarore plenilunare bianchissimo, con un freddo vivido d’ottobre; ella era tutt’avvolta in un mantello col cappuccio. Si sedette, Clara, sovra uno scalino dell’anfiteatro; Giovanni, si sedette più giù, vicino a lei, toccandole le ginocchia con la testa. Il grandioso circo era tutto molle e candido, sotto il raggio lunare. Ella fece un atto, e la sua mano si posò, lievissima, sulla testa di Giovanni. Tacevano: la mano restava lì, lieve, fredda, immota. Egli si volse un poco, prese la mano e la baciò sulle dita, appena appena, con una carezza casta, fugace; la mano ricadde lungo la persona. Si guardarono negli occhi, in quella solitudine, in quella notte chiara, e quello sguardo infinitamente e rassegnatamente desolato fu inteso, da ambedue, per quel che era, per quel che diceva.

L’indomani, nelle ore tarde pomeridiane, si videro al Pincio, dove ella gli aveva dato convegno. Ella era vestita di un abito di seta grigia e aveva una giacchetta di velluto nero; sul cappellino di velluto nero era una fine veletta nera. Egli pensò, vedendola, a quella sera di Armida, oramai lontana, nelle sensazioni e nelle memorie. Ma si forzò a scacciare ogni debolezza, tanto temeva di sè. Clara camminò un poco accanto a lui: poi guardando gli alberi di villa Borghese, dalla terrazza, gli disse la gran frase:

– Dunque, si finisce?

Ah egli si era creduto più forte! Si sentì vacillare, non potè rispondere. Che avveniva, dunque, in lui, di contradittorio, di bizzarro, che questa soluzione tanto da lui invocata, ora gli faceva orrore?

– Non mi rispondi, Giovanni? – ed ella alzava, ogni tanto, il manicotto sino alla bocca, come a reprimere un singhiozzo, un grido.

– Tu non hai pietà di me, Clara?

– Tu pensi troppo alle tue miserie, e non a quelle altrui; io non ti chieggo pietà.

– Tu sei forte.

– Ero forte.

– Tu sei forte.

– La mia unica forza mi ha abbandonata – ella soggiunse, sempre guardando altrove.

– Quale era?

– L’amore. È finita, Giovanni – ed ebbe un cenno largo, definitivo, verso la campagna.

– Non ci vedremo più, dunque? – -egli chiese, debolissimo, tremante, come un fanciullo disperato.

– A che servirebbe? A maggiori dolori?

– Come amici… qualche volta?

– Io non ti sono amica, Giovanni: ti ho troppo amato per esserti amica.

– Io sono il più sventurato fra gli uomini – egli gridò, gittandosi sovra un banco, non reggendo più.

Ella gli sedette accanto: aveva gli occhi bassi, dietro la veletta.

– Giovanni, sii buono, non diminuire il mio coraggio. Vedi… per giungere a questo, la mia anima ha dovuto fare un così lungo viaggio! Ho detto io, la parola estrema: io! Che ho innanzi, io? Sai che esistenza di solitudine, d’inutili e tardi rimpianti, di pentimenti postumi, di lacrime senza conforto? Sai che lungo e deserto viaggio io intraprendo, sino alla morte, sola?

– Il più sventurato fra gli uomini! – gemeva lui, con la faccia fra le mani, come un fanciullo abbandonato.

– Eppure… io, io stessa rinunzio. Tutto è stato inutile, fra noi: il tuo amore, prima; il mio amore, dopo.

– Almeno, almeno, non mi avessi amato! – esclamò lui, in un ingenuo scoppio di dolore.

– Ti ho amato, invece, molto, alla mia maniera, che è certo imperfetta, poichè tutti siamo degli esseri imperfetti. Ti ho amato… così teneramente, così passionalmente… ma era tardi, era tardi, era tardi!

– Ma io ti voglio bene, Clara! – egli balbettò, smarrito, vedendo che ella era per levarsi, per andarsene.

– Ne sei certo? – gli chiese ella, duramente, come nella prima sera del loro amore. – Ne sei certo?

– Non lo so – rispose lui, annientato, ricadendo sul banco.

– Addio, Giovanni! – ella disse, innanzi a lui, pallida come una morta.

– Non te ne andare, non mi lasciare! – e tese le mani per rattenerla.

Ella si trattenne in piedi, innanzi a lui. Si vedeva che non aveva la forza di fare un passo. Guardandola disperatamente negli occhi, tenendole una mano, egli la supplicava ancora, confusamente, di non lasciarlo, così, in quell’ombra; ed ella non rispondeva, levando il volto, mordendosi le labbra.

– Giovanni, perchè vuoi che io resti? Che ci porterà di nuovo questa sera, o il domani? Non saremo sempre gli stessi? Che si muta, per un discorso o per un giorno? Avevamo strade diverse e ci siamo voluti amare: questo amore è stato il tuo cruccio, allora; è stato il mio cruccio, adesso. Riprendiamo la via, più stanchi e più delusi di prima: Dio benedica la tua strada!

– Non te ne andare, non te ne andare!

– Addio, Giovanni – e gli toccò la mano, con la mano guantata, allontanandosi subito.

Per l’uomo che singhiozzava, lassù, sul banco del giardino solitario, come per la donna che discendeva alla città, senza vedere il sentiero, poichè le lacrime l’acciecavano, il sole era tramontato. Intorno ad essi era la grande, lunga, infinita notte dell’anima.