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Le amanti

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Questi amici di Paolo Spada la trattavano anche singolarmente. Alcuni la salutavano correttamente, ma non le dirigevano la parola; altri le indirizzavano delle frasi galanti in istile letterario; altri la riguardavano come un camerata e usavano familiarmente con lei, a grosse strette di mano, chiamandola Adele. Con quella intuizione delle persone semplicissime, ella sentiva che sotto la correttezza di alcuni si nascondeva il disprezzo; le galanterie in frasi fiorite la imbarazzavano e la facevano arrossire; le familiarità la turbavano. Qualche volta, malgrado la sua timidità, aveva sorpreso qualche parola che suonava caricatura per lei e certi sorrisi le sembravano dubbi. Ne aveva parlato a Paolo Spada:

– I tuoi amici mi ritengono per una stupida.

– No, cara.

– Credilo, è così.

– Da che te ne accorgi? Saresti diventata furba, per caso?

– Non lo so: ma per loro, sono un’oca.

– Per loro, come per me, sei una bella, buona, cara donnina, ecco tutto. Vuoi dei complimenti, a quanto pare.

– Se sono un’oca per te, non voglio essere un’oca per gli altri – ella soggiungeva, assai più triste, convinta che Paolo Spada si vantasse della sua ocaggine.

– O cara ochetta sentimentale e mesta, cara piccola oca bianca e malinconica, finirai per rassomigliare a un cigno – diceva lui, con la sua voce sonora e pure velata che la seduceva, toccandone le fibre più recondite del cuore.

Avrebbe ella, forse, voluto allontanarlo, da queste conversazioni, da queste dispute con questi amici dagli occhi stralunati, dalle ciere malaticcie, che fumavano la pipa, talvolta, o che erano in una perfetta tenuta da gentiluomo, in marsina, con la pelliccia aperta, col fiore all’occhiello, ma che avevano egualmente la ciera morbosa e gli occhi sognanti, quasi allucinati. Ma era un desiderio, niente altro: ella era fatta per seguire Paolo Spada in ogni suo vagabondaggio e per obbedirgli in ogni suo capriccio. Gli faceva qualche obbiezione, soltanto:

– Ti diverti tanto, in compagnia di Massimo Dias, di D’Arcello, di Lamberti?

– Non mi diverto punto.

– E allora, perchè li cerchi tanto?

– Mi sono necessarii.

– Oh!

– Le dispute riscaldano il sangue ed eccitano i nervi…

– E fan male alla salute,

– Del corpo, forse. Viceversa, fanno bene alla salute dell’anima, che è la sola interessante.

– La salute dell’anima? La vita eterna, cioè?

– No, cara – concludeva lui, con quel sorriso d’indulgente amore che gli spuntava. sulle labbra, quando ella diceva una sciocchezza.

Bensì arrivava il tempo in cui Paolo Spada abbandonava lui gli amici, non uscendo, chiudendo la sua porta, vivendo in casa per intiere settimane, fra le sigarette, il caffè e il lavoro. Questi furori di prosa e di poesia lo assalivano improvvisamente, dopo una gita nei dintorni, dopo la lettura di un libro, dopo aver ritrovato un vecchio pacchetto di lettere, ed egli si dava tutto a quel lavoro della composizione d’arte e della successiva scrittura, sommergendosi negli abissi della creazione e della forma, come chi da un altissimo picco si getta nel mare. Non conosceva più, Paolo Spada, in quelle sommersioni, nè misura di tempo e di spazio, nè fatti o circostanze, nè necessità o capricci, egli dimenticava l’ora del sonno come quella dei pasti, egli volentieri restava, in pieno meriggio, con le imposte sbarrate e la lampada accesa; inchiodato nel suo seggiolone di cuoio, chino sulla carta, levando ogni tanto, da essa, un par d’occhi nuotanti nelle visioni, o passeggiante per la stanza da studio, rapidamente, da un capo all’altro, a testa china, o leggendo ad alta voce, anzi declamando dei versi o della prosa, gettandosi, talvolta, da una sedia a una poltrona, ritornando al seggiolone, e, talvolta, cedendo al sonno, sul gran tavolino da scrivere, con la testa sulle braccia, come un fanciullo. L’amore? sparito, morto. L’artista si trovava nel gran tumulto interno che sconvolge ogni altro affetto e che trasporta nelle ansie e nelle ebbrezze della concezione e della procreazione d’arte, la febbre che lo ardeva aveva invaso e incendiato tutto il suo sangue, e le sue fantasime d’arte erano più vive, innanzi agli occhi della sua fantasia, più belle, più vive, più desiderate, più amate della vivente Adele Cima, che gli sembrava un’ombra vana e fredda.

Ella si rendeva un’ombra. Girava intorno a Paolo Spada con un passo così lieve che non si udiva, non urtava un oggetto, non faceva stridere una chiave, spariva dalle porte come se si dileguasse nell’aria. Così ella faceva, un tempo, quando aveva assistito sua madre gravemente inferma: le pareva di essere presso un malato, tanto lo stato fisico e morale di Paolo Spada le sembrava scombussolato, tumultuario, perduto ogni senso di realtà. Obbediente come un bimbo buono, ella lo aspettava con pazienza alle ore dei pasti, non andava a letto, talvolta, che tardissimo, vegliando accanto a lui, leggendo un libro qualunque il cui senso le sfuggiva, o dicendo il suo rosario, o stando immobile, oramai abituata a questa vita di statua. Lui, che giammai aveva potuto lavorare con una persona presente nella stanza o anche nella casa, tollerava perfettamente quella di Adele Cima, tanto ella si rendeva piccola, minuta, inesistente. Anzi, la voleva presso a lui. Era come un mobile che si ama, su cui si posano gli occhi volentieri e le cui linee corrispondono a non so quale bisogno estetico interiore. Talvolta, in un brevissimo, lucido intervallo, era vinto dalla compassione:

– Va a letto, cara,

– No, ti aspetto.

– Io ho molto da scrivere, va, va.

– Che importa? aspetto.

– Creperai di noia e di sonno.

– No, niente. Aspetto. Tu hai molto da scrivere?

– Moltissimo: enormemente.

– Non importa, non importa.

Di amore, in lui, non un atto, non una parola. Questo ella vedeva bene, e un morso le afferrava il cuore. La febbre del lavoro e di quel lavoro la colpiva solo per i suoi fenomeni morbosi; ella non ne comprendeva nè la purissima fiamma, nè il nobile tormento, nè l’ebbrezza del travaglio. Non si spiegava perchè un uomo giovane, sano e bello, amato, amante come Paolo Spada si desse a quella passione singolare che ne consumava i giorni, la salute, la beltà, che lo toglieva, sovra tutto, all’amore. Ah questo, questo, ella non se lo spiegava ed era il suo cruccio più intimo e più costante! Nel suo giudizio stretto e poetico della vita, le pareva che un’altra donna le potesse togliere Paolo Spada, ma non già un foglio di carta bianca e una penna intinta nell’inchiostro. Che egli scordasse i suoi baci, le sue carezze, il suo amore così saldo e così affascinante nella semplicità, per restare i giorni e le notti nella sua stanza di studio scrivendo, lacerando carte, riscrivendo, passando la penna a grandi colpi sulle linee scritte, per cassarle, leggendo, declamando, fumando, bevendo caffè, senza sole, senza luce, senz’amore, proprio, senz’amore, le sembrava una cosa tanto folle, tanto ingiusta e tanto crudele che, spesso, sparendo nella sua povera cameretta, se ne andava a piangere in un cantuccio, solitariamente. Per lei l’amore era la sola passione, la sola occupazione, il solo pensiero e il solo affare, e tutto questo, molto semplicemente, in vero temperamento muliebre nato per il ristretto campo dell’amore. Giammai, in queste sue ore di desolazione, ella trovava un pensiero contro l’egoismo artistico di Paolo Spada, giammai ella si pentiva di essersi data a lui, di esser venuta a vivere con lui, ma si sentiva ed era una creatura perfettamente infelice.

Quando era stata lungamente assente, egli la chiamava. Ella si lavava in fretta gli occhi, riappariva quasi sorridente ed egli non vedeva punto il rossore delle palpebre.

– Perchè te ne vai, Adele?

– Ti disturbo, forse.

– Non mi disturbi. Non ti vedo neppure.

– E allora, perchè mi vuoi?

– Così, per consuetudine.

Ella crollava il capo, mentre si faceva pallidissima. Paolo Spada non se ne accorgeva. Nell’orgoglio fugace dei momenti di creazione, le diceva, esaltatamente:

– Sai? Sto scrivendo un capolavoro.

– Lo credo, Paolo.

Ma non gli chiedeva che fosse. Temeva di dire una stupidaggine, chiedendo.

– È una novella, una lunga novella: ma un capolavoro. Si chiama: il vincitore della morte. Ti piace il titolo?

– Sì, mi piace.

– Veramente, ti piace? Di’ la verità.

– Mi piace moltissimo.

– Ora te ne leggo un pezzo. Ti secchi?

– No, amore, no.

Egli dava di piglio alle molte cartelle dove scriveva col suo carattere lungo e sottile, e con voce tremante, mentre le dita che tenevano il manoscritto tremavano, egli cominciava la lettura. La voce si facea più ferma e ondeggiava nei periodi che si legavano l’uno all’altro, e si abbassava mollemente, s’innalzava violenta. Attentissima, ella non batteva palpebra. Pure, quest’attenzione non gli bastava:

– Tu, non mi ascolti?

– T’ascolto.

– Hai l’aria distratta.

– Non è così. Leggi.

Paolo riprendeva la lettura. Si arrestava, per vedere se sul volto di Adele Cima passasse qualche impressione: e la vedea mutar di colore. In verità, era quella voce dell’amante, quella esaltazione, il rombo della lettura, che la commovevano.

– Ti piace? Ti piace?

– Moltissimo.

– Dici sul serio?

– Sul serio.

– Non già perchè mi vuoi bene?

– Non so: mi piace.

Egli finiva la lettura, entusiasmato.

– Ti piace?

– È bellissimo.

– Sì, credo di aver fatto una cosa buona – diceva lui, già un po’ smontato.

– Quante cartelle ne hai scritte? – domandava Adele, dando un’occhiata obbliqua al manoscritto.

– Sessantacinque.

– E quante altre te ne restano?

– Centocinquanta, più, forse.

– Ah!

Si voltava in là, per non fargli osservare il suo viso, dove la pena che questa febbre ancora molto, troppo durasse, si dipingeva. L’indomani, lo trovava tetro e disfatto.

 

– Ho scritto delle corbellerie ignobili – le dichiarava lui.

– Come? Non ti sembravano un capolavoro?

– Mi sembravano. Ero esaltato. Sono corbellerie.

– A me piacevano.

– Naturalmente.

– Paolo! – era la sola rimostranza dolorosa.

– Mia cara, che vuoi capire tu? Quando piace a te, è segnale di ignobile corbelleria.

– E allora, perchè leggi a me?

– Così, per sfogare: niente altro.

– Perchè mi domandi il giudizio?

– Perchè gli scrittori sono delle bestie inconcludenti, deboli e vigliacche – esclamava lui, nella brutalità delle giornate di abbattimento.

– Non dire questo, Paolo.

– Taci, Adele. Vattene.

Ebbene, ella si accorgeva che negli accasciamenti della sua febbre d’arte, in quegli accasciamenti in cui tutti i mortali chiedono soccorso di tenerezza, ella non poteva consolarlo. Sensibilissima sentimentalmente, ella misurava col cuore timido e trepido questa sua impotenza e la esagerava. Quel male ignoto e quel dolore ignoto traevano origine da radici di profonde e sconosciute infermità morali e forse fisiche: ella poteva bene piegare il volto su quell’ombra, il suo inesperto sguardo nulla vi potea mai distinguere. Adele si ritraeva, con un senso vivo di umiliazione sempre rinnovantesi e che le aveva omai aperto nell’anima una fine ferita sempre sanguinante e sempre frizzante. Il silenzio era il suo rifugio, dove naturalmente, le più semplici e anche le più tormentose supposizioni la facean dubitare di sè stessa, di Paolo Spada, dell’amore. Forse, egli era stanco di lei e non glielo diceva per gentilezza d’animo; forse, questo suo amore che era niente altro che amore, offerto con tanto abbandono, ma con tanta monotonia, aveva già nauseato Paolo; forse egli pensava a quelle sue donne così raffinate, così squisite, che lo amavano in una forma complicata e straordinaria, che gli scrivevano quei pacchi di lettere da lui conservate preziosamente, da lui spesso rilette, spesso giacenti in confusione sul tavolino da scrivere – talvolta, egli si serviva di quei documenti per la sua storia d’amore – mentre ella non aveva mai osato di scrivergli un biglietto, temendo di commettere degli errori di grammatica e di ortografia; forse, egli già ne aveva trovata un’altra… ella era così sciocca, così infelicemente sciocca! Con cura, ella nascondeva i suoi sospetti, per non torturarlo, giacchè ella gli risparmiava, amorosamente, qualunque puntura; ma, senza volerlo, trapelavano.

– Anche oggi, sei così triste, Paolo?

– Anche oggi.

– Ma a che pensi?

– Mi è impossibile di narrartelo: è troppo lungo.

– Dimmi, almeno, a chi pensi?

– A chi? A nessuno, cara.

– A nessuno, proprio? A nessuna donna?

–… No. Che pensi?

– Nulla, m’immagino. Credevo… perdonami. Non sei stanco di me?

– No, non ancora.

– Dimmelo, quando sei stanco.

– Te lo dirò, non dubitare.

Ognuna delle risposte di Paolo Spada la meravigliava e la faceva soffrire. Lo credea sincero. Non amava un’altra donna: non era stanco di lei: ella gli piaceva ancora. Ma dunque era proprio per questo terribile lavoro dello scrivere, che il suo amante l’abbandonava, si dimenticava di lei come se non esistesse, la guardava in volto trasognato come se non l’avesse mai vista, non le prendeva una mano, non la baciava? Così sono, dunque, questi uomini che scrivono? E quest’arte, questa parola che ella udiva ripetere continuamente, senza intenderla, quest’arte pronunziata ora enfaticamente, ora a bassa voce in tono pauroso, quest’arte le cui quattro lettere escivano, pronunziate dalla bocca di Paolo Spada, con un ardor amoroso meglio di qualunque amorosa parola, ella aveva finito per odiarla in silenzio, con tutta la muta ribellione del suo cuore. Non era una donna l’arte, nè aveva i capelli neri, biondi o rossi, diversi dai suoi; non era una persona slanciata dagli occhi grandi e bruni e scintillanti, mentre i suoi erano limpidi e tranquilli e la sua persona era piccola e graziosa; non era una donna intelligente e sapiente, mentre ella era una povera buona, ignorante: eppure Adele era gelosa di quest’arte e la detestava, con tutto il cuore, come se fosse una creatura viva. A poco a poco i libri, le carte, il calamaio, l’inchiostro e la penna, e tutto quello che è il corredo di chi scrive, le cominciarono a fare orrore: e gli accessi di lavoro feroce, o gli assorbimenti lunghi in vaghe contemplazioni di Paolo Spada, le davano l’impressione d’una sua sciagura personale, sempre respinta e sempre ricadente sul suo cuore. Un giorno, quasi fosse presa da una curiosità puerile, gli domandò:

– Come ti è venuto in mente, di scrivere?

– A me? Non me ne ricordo.

– Ma infine, hai dovuto cominciare?

– Sì, ho cominciato… non potevo far di meno di cominciare.

– Perchè?

– Era il destino, cara.

– Non hai mai pensato a fare un’altra professione?

– Mai. Non avrei saputo farla.

– Tu sai far tutto. Perchè non hai tentato?

– E perchè dovevo tentare? – gli disse lui, un po’meravigliato.

– Così… per fare quel che fanno tutti gli altri – diss’ella, penosamente.

Egli intese qualche cosa:

– Ti piacerebbe, eh, che io fossi un medico? O un impiegato? O un ufficiale di cavalleria? – e una lieve ironia era nella sua voce.

Ella impallidì e arrossì. Subito, negò tutto:

– Mi piaci come sei, Paolo.

– Ma saresti più felice con un medico, m’immagino: felicissima, con un ufficiale di cavalleria: arcifelicissima, con un impiegato, Adele.

– No, no, no – esclamò lei, disperatamente – non posso esser felice che con te. – Temo… temo che tu sia infelice… sono così incapace di capirti…

– Non vi è bisogno, che tu mi capisca – soggiunse lui – nessuna donna capisce mai un uomo e viceversa. Io sono perfettamente felice, del resto, con te che non mi capisci: te lo assicuro. Amami e basta.

Infatti, in quell’amore, così quieto e così uniforme, in quel sentimento rudimentale che di nessun altro si addoppiava e si facea difficile, in quell’espansione semplice quotidiana, senza grandi scene tragiche come senza troppo fini scene di commedia, in quella bontà costante e suadente, in quell’affetto dove mancava qualunque sorta di enigma, egli trovava l’ambiente migliore per il suo spirito stanco e per il suo cuore disgustato di eccentricità. Per troppo tempo, la donna era stata per lui elemento di curiosità vivacissima nella vita e nell’arte ed era, quindi diventata sorgente di disordine e di squilibrio: per troppo tempo, egli aveva errato per i paesi dove il peccato era anche romanzo e dove il romanzo conduceva al peccato: per troppo tempo, egli aveva cercato nella donna il pascolo della immaginazione artistica e l’urto obliquo e complicato dei sensi. Adele Cima era il riposo della sua stanchezza, era l’equilibrio dell’asse della sua vita, era la relazione posata e lunga, lunga e sicura, dove il peccato perdeva ogni tinta turpe e acquistava gentilezza mite coniugale. Mentr’ella era fuori centro, spostata, messa a contatto di una esistenza che aveva capovolte tutte le sue poche idee, messa a contatto con un uomo cento volte a lei superiore, della cui superiorità ella era un’adoratrice ma anche una vittima, mentre Adele Cima non giungeva più a riunire le sue forze per vivere, disperse in un’atmosfera troppo alta per i suoi polmoni, Paolo Spada si sprofondava nella beatitudine egoistica di colui che ha trovato, per una rarissima fortuna, lo strumento più adatto alla propria felicità. Per pensare, per leggere, per lavorare, egli aveva bisogno di non aver più nè lettere amorose da scrivere o da andar a prendere alla posta; di non aver più convegni da chiedere o da aspettare; di non aver più sciarade da sciogliere o drammi da annodare, tutte cose che impediscono, a uno scrittore, il pensiero, la letteratura, la scrittura. Adele Cima, in quei tempi di travaglio, mentre era intorno a lui, non vi era, camminava piano, non urtava gli oggetti, non chiudeva i libri, non muoveva le carte, spariva, riappariva, senza domandare di uscire, di pranzare, di dormire: nella sua semplicità o, piuttosto, nella sua stupidaggine, era un arnese umile e perfetto di pace amorosa e di paziente tenerezza.

III.

A un tratto, nel cuore innamorato di Adele Cima, e battuto e mortificato dal sentimento di non essere una donna degna dell’amore di Paolo Spada, surse una volontà improvvisa, che si maturò nell’ombra e nel silenzio, che fu covata e si schiuse al calore della passione, di cui ella ardeva per il grand’uomo. Ella si decise, così, senz’altro, a diventare una donna intelligente e colta; perchè, almeno, non tutto il mondo dove l’artista viveva le fosse vietato; perchè ella, almeno, potesse seguirlo in un discorso, in una divagazione, perchè ella non restasse più sola e abbandonata ad amarlo, mentre egli se ne andava negli orizzonti dei sogni e delle visioni a cui ella, misera, non partecipava. Ella concepì questo audace disegno nelle ore di solitudine e anche d’infinita mestizia in cui cadeva, quando Paolo Spada lavorava e si scordava assolutamente di lei: ella accarezzò entusiasticamente il suo disegno, nel tempo in cui maggiormente l’esistenza con Paolo le diventava grave e tormentosa, sentendovisi come una povera creatura perduta e senza guida; ella ostinatamente studiò questo disegno, quanto più amara e più insopportabile le pareva la sua inferiorità. Non disse nulla a Paolo. Era taciturna, sempre: e non avendo mai trovato modo di raccontargli la sua lunga miseria, la miseria della sua stupidaggine e della sua ignoranza, non volle neppure rivelargli il rimedio che il suo cuore aveva trovato o credeva di aver trovato. Con l’eroismo muto dei cuori che sanno amare e amare soltanto, ma che dall’amore traggono ogni coraggio e ogni luce, ella si accinse allo scopo, sebbene lo sentisse arduo, lontano, forse inaccessibile.

La prima cosa che ella tentò, per aprire la sua intelligenza, fu la lettura dei libri di Paolo Spada. Dopo pranzo, quando egli, fumate nervosamente quattro o cinque sigarette, si levava come mosso da un impulso automatico, per sedersi a scrivere, ella si levava e spariva. Nella sua borsa da lavoro, accanto al merletto all’uncinetto, delizia borghese di altri tempi, ella aveva sempre un volume, dei varii fra romanzi e novelle scritte da Paolo Spada: e in camera sua, si metteva a leggere. Lo stile prezioso, ricercato con quella tortura mentale che era una delle grandi qualità di Paolo Spada, le produceva la prima impressione d’incomprensibilità: vi erano delle parole che non aveva mai lette o udite e dei giri di frase, il cui senso le sfuggiva: talvolta, delle frasi ripetute le davano fastidio, come il ronzìo di un moscone nell’orecchio. Non so come, ella aveva udito a parlare del vocabolario: e finì per ricorrervi, per conoscere il senso vero delle parole strane adoperate da Paolo Spada. Con molta gravità, teneva il libro aperto sul tavolino e con l’altra sfogliava il vocabolario: alla ricerca della parola, lasciava perdere il filo del racconto e, dopo, non si raccapezzava più. E, spesso, il vocabolario non le spiegava bene, tutto: ella restava sospesa, pensando troppo per la sua piccola mente, affaticata, e non trovando più nulla. Se contrariamente, erano i soggetti di quei romanzi, di quelle novelle che la turbavano immensamente. Ella aveva letto, come tutte le donnine della sua levatura, dei romanzi di Montépin e di Ponson du Terrail, qualche romanzo di Dumas padre e qualcuno, italiano, di Guerrazzi: ma le istorie di Paolo Spada erano così stranamente diverse da quanto era stato il poco pascolo della sua fantasia! Tutti i protagonisti di Spada le sembravano degli ammalati o dei pazzi: spesso la inorridivano per il cinismo: e quando s’interessava a qualcuno, più simpatico, ecco, egli moriva. In quanto alle protagoniste, ebbene, ebbene, malgrado che qualcuna di esse fosse buona e virtuosa, malgrado che quasi tutte fossero immensamente infelici, per le lotte con sè stesse, col mondo e con l’amore, ebbene, Adele Cima le odiava, tutte! La innamoratissima donna leggeva i romanzi e le novelle, più col cuore che con la mente: e la sua curiosità d’ignorante, era anche fatta di gelosia. Con quanta carezzosa voluttà Paolo Spada dipingeva certe figure di donna e Adele Cima vi ricercava, quasi, i ritratti delle donne che egli aveva amate: con quanta crudeltà egli ne disegnava delle altre ed erano forse quelle che lo avevano respinto, o, accettandolo, lo avevano reso infelice! Ella aveva troppo partecipato alla vita di Paolo Spada e dei suoi amici artisti, per non avere capito, a forza di udirlo dire, che quanto essi raccontavano nei loro libri, era loro accaduto: non aveva visto Paolo Spada copiare le lettere di amore, nelle novelle? Così, la lettura di questi volumi lenta, ma continua, produsse sullo spirito di Adele Cima, come una rivelazione sempre più triste, sempre più torturatrice, del passato di Paolo Spada. Ah egli aveva palpitato, e pianto, e sofferto, e spasimato, il suo amante, non per lei, ma per altre donne, egli aveva molto e troppo vissuto, il suo amante, e non con lei; egli aveva avuto delle scene di passione e di disperazione come giammai con lei! Quante volte in quelle eterne veglie, in cui ella aspettava che Paolo Spada si levasse dal tavolino e, chiamandola, le dicesse che era ora di riposarsi, quante volte ella posò il libro, pallida, disgustata, avvelenata, sentendo di essere giunta troppo tardi, quando già la vita aveva detto tutto al suo amante! Quante volte ella si sentì inutile, inutile a quest’uomo, adesso più che mai, adesso che conosceva o che le pareva di conoscere tutto il passato, e come pensò, spesso, che sarebbe stato meglio liberarlo della sua sciocca presenza! Le si ripeteva, nell’anima, fatidicamente, l’impressione della prima visita, quando aveva trovato le fotografie delle altre amanti e aveva tanto sofferto: perchè non era fuggita via, in quel giorno? Pure, un accanimento la teneva, di legger tutto, di saper tutto. Involontariamente, qualche parte del suo segreto le sfuggiva:

 

– Perchè hai fatto morire quel povero Attilio Venturi? – ella chiese un giorno, al suo amante.

– Attilio Venturi? Chi?

– Il protagonista del tuo racconto: L’ucciso.

– Tu hai letto il racconto?

–… sì – diss’ella, profondamente sconvolta.

– E perchè l’hai letto?

– Mah… perchè era scritto da te…

– Non vi era obbligo, anima mia.

– Ho fatto tanto male? Sono dunque così sciocca, da non poter aprire un tuo libro? – e quasi piangeva.

– Non importa, cara – diss’egli, indulgentemente – se ciò ti diverte, fa pure. Ti è proprio dispiaciuto tanto, che Attilio Venturi sia morto?

– Oh, tanto!

– Egli doveva morire – pronunziò Paolo Spada, col tono dogmatico dello scrittore.

– Oh! – mormorò ella, senz’altro, sentendo il peso della sua ignoranza più forte, sulle spalle.

Altri dialoghi simili, consecutivamente, accaddero. Un giorno, un amico di Paolo Spada aveva elogiato vivamente il volume delle Storie crudeli, in presenza di Adele Cima: e Paolo Spada aveva sorriso alle lodi. Ella riprese il discorso e arrossendo, disse:

– Tutti i tuoi libri sono così belli e mi piacciono tanto, Paolo! Ma perchè sei così cattivo, nelle Storie crudeli?

– Perchè la vita è cattiva, mia cara – disse lui, con un lieve rammarico nella voce.

– Oh no, Paolo!

– Che ne sai, tu? Tu non sai nulla.

– Hai ragione – ella disse, soffocando un singhiozzo.

E un’altra volta:

– Non pensavi che la vita era cattiva, Paolo, quando hai scritto L’amore di Maria?

– Quella storia è bruttissima.

– Oh, no!

– Bruttissima, ti dico.

– A me è piaciuta – soggiunse ella, con timidità.

– Questo è il segnale più certo della bruttezza – disse lui, duramente.

Poi quando la vide piangere, cercò di consolarla, carezzandola, baciandola.

– Tu leggi troppo, ti fa male, Adele.

– Perchè, mi fa male?

– La tua testa è debole, non leggere tanto.

– Come, neppure i tuoi libri?

– I miei meno degli altri. Già, non valgono niente.

– Non dire questo, non dirlo. Perchè li hai scritti, se li disprezzi?

– Così, Adele – rispose lui, enigmaticamente, chiudendosi nel suo silenzio.

Ma, oramai, il male era fatto. Nel cervello confuso di Adele Cima turbinavano le frasi e i fatti in disordine: ed ella non afferrava più il nesso delle cose, ella imbrogliava i nomi dei personaggi e delle città, ella spesso faceva a Paolo Spada delle domande, dove appariva anche più chiaramente che ella aveva letto e non aveva inteso nulla. Due o tre volte, egli la redarguì, vivamente offeso nel suo amor proprio di artista: ed Adele che non conosceva la sensibilità sempre raccapricciante delle vanità di scrittore, due o tre volte giunse a ferirlo: e il modo come egli le si rivoltò contro, modo insolito, di animale irritato e ingiusto, la sgomentò talmente che, per un pezzo ella smise di parlargli delle sue letture. Ma il male era fatto. La serenità della mente di Adele Cima era smarrita, per sempre. Ella era entrata in una via d’intrichi e di spine che la pungevano e la soffocavano: nè conosceva più il sentiero per tornare indietro. In quella confusa e incerta rivelazione di un mondo per lei incomprensibile e in cui ella intravedeva le perfidie della menzogna, le malvagità del cuore freddo e duro, le perversità dei sensi non governati da nessuna delle schiette e fluide correnti del sentimento, la ingenua anima di Adele si arretrava, compresa di spavento: ma i suoi occhi avevano intravisto e il fiore del suo candore sentimentale era per sempre appassito. Sovra tutto, il maggior tossico le veniva da quelle donne ignote a lei, che Paolo Spada aveva conosciute e amate, che erano rimaste così impresse nella memoria dell’uomo, che l’artista aveva voluto renderle nelle sue storie.

Tutte diversamente belle e attraenti sotto la viva penna dello scrittore, tutte dotate del fascino della vita che vibra, più forte, nei ricordi e par vita, tutte variamente strane e seducenti, tutte quante davano al cuore innamorato di Adele Cima le trafitture, e i sussulti, e i pallori, e gli scoramenti di una gelosia invincibile. Con curiosità tormentatrice, ella ritornava a rileggere quelle pagine dove la natural poesia dell’arte ingrandiva e affinava quelle creature muliebri: e nella loro essenza, nella loro forma, Adele Cima le invidiava, sentendosi da loro così diversa, così lontana, sentendosi a loro tanto inferiore da soffrirne come per persone umane che l’avvilissero con la loro superiorità, ogni giorno, ogni ora:

– Tu hai conosciuto quell’Angelica, del tuo romanzo? – disse, in uno dei momenti di più forte pena.

– Sì.

– L’hai amata?

– Sì.

– Era molto seducente?

– Molto.

La povera semplice donna tacque. Ah che egli era una persona troppo sincera, mentre avrebbe potuto risparmiarle queste verità così atroci!

– Perchè hai finito di amarla?

– Mi ha tradito.

– Ah! E se non ti tradiva?

– Io tradiva lei.

– Così… tutti questi vostri amori… finiscono col tradimento?

– Quasi tutti.

– Finirà anche il nostro, così? – chiese lei, desolatamente, mordendosi le labbra per non iscoppiare in singhiozzi.

– Speriamo di no.

– Speriamo? Non è che la speranza?

– In fatto di amore, tutto è fallace. Ma perchè continui a chiedere di cose spiacevoli? Che ti importa? A che scavi nel passato? Quando mai tu hai scavato? Amami e basta.

– Anche io ho un cuore e una mente – ella mormorò, mortificata di essere sempre respinta nelle sue umili e taciturne funzioni di donna innamorata.

– Credilo, il cuore ti è sufficiente – egli concluse, un po’ sul serio, un po’ ironicamente.

Ella sentì l’ironia e non sentì la serietà del consiglio. Una gran voglia di rassomigliare a qualcuna di quelle donne, di essere meno monotona, meno semplice, meno limpida, adesso le sconvolgeva l’anima. I suoi vestiti, dapprima graziosi e carini, ma di una grande povertà d’invenzione, cominciarono a diventare più ricercati: ella ebbe una vestaglia di lana bianca, con merletti pioventi e un grosso cordone di seta bianca che la serrava: ella portò delle camicette insaldate, da uomo, con una cravatta maschile: ella tentò di tagliarsi i capelli, ma il parrucchiere la consigliò di non farlo. Queste nuove fogge, però, la mettevano in imbarazzo e la rendevano goffa. Alle pareti quasi nude delle sue due camerette ella attaccò dei vecchi ventagli giapponesi, dei pezzetti di stoffa antica racimolati fra le cianfrusaglie del quartierino di Paolo Spada e vi sospese dei quadretti che erano stati donati a lui, e che egli aveva dichiarati orribili; e questo scemo tentativo di adornamento artistico contrastava con la semplicità e anche con la volgarità del resto dei mobili. Adele Cima non aveva mai voluto fumare; anzi il fumo della sigaretta e dei sigari di Paolo Spada, dei suoi amici, le dava gran fastidio. Si forzò a imparare: ebbe tre o quattro emicranie feroci, accompagnate dal mal di stomaco, ma fumò. Soltanto si scolorava come una morta, fumando: e faceva sforzi enormi per esser disinvolta. Non aveva mai bevuto liquori, con un disgusto tutto borghese: ella provò il cognac, e siccome aveva inteso parlare del gin, come di un liquore singolare, assaggiò anche quello. Paolo Spada, malgrado le sue profonde distrazioni, i suoi egoistici assorbimenti, notò a poco a poco tutte queste fittizie manifestazioni di bizzarria: e il sorriso con cui le accoglieva, aveva della bontà compassionevole. Due o tre volte, egli rise della goffaggine di Adele Cima: ed ella fu colpita da quel riso come da una pugnalata. Una sera, quando più ella era stata tentata di essere eccentrica e raffinata, e quando meno vi era riescita, quando più era stata ridicola nei suoi esperimenti, Paolo Spada, le aveva detto, con durezza: