Tasuta

L’ascesa dei Draghi

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Sari: Re e Stregoni #1
Märgi loetuks
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Kyra guardò con orrore, sentendosi inutile, mentre il drago cadeva nelle acque rabbiose del fiume di sotto.

“NO!” gridò correndo in avanti.

Ma non c’era nulla che potesse fare. Le forti rapide portarono Theo, che si dimenava e ruggiva, lungo il fiume, nel mezzo della foresta. Svoltata una curva scomparve alla vista.

Kyra lo vide sparire e sentì il cuore spezzarsi. Aveva sacrificato ogni cosa, la sua vita, il destino del suo popolo, per salvare quella creatura, e ora non c’era più. A cosa era valso tutto questo? Era veramente accaduto?

Kyra si voltò e guardò i cinque uomini morti che ancora giacevano nella neve; vide Leo, ferito, accanto a lei; sentì il bruciore sulla guancia e vide il sangue: capì che era tutto vero. Era sopravvissuta a un incontro con un drago. Aveva ucciso cinque uomini del Lord.

Dopo quella notte era certa che la sua vita non sarebbe più stata la stessa.

Kyra notò le tracce lasciate dal cavallo che si perdevano nel bosco e ricordò il ragazzo che stava correndo ad allertare la sua gente. Capì che gli uomini del Lord sarebbero andati dal suo popolo.

Si voltò e scattò nel bosco, con Leo al suo fianco, determinata a tornare a Volis, ad avvertire suo padre e tutto il suo popolo, sempre che non fosse ormai troppo tardi.

CAPITOLO DODICI

Vesuvio, re dei troll di Marda, si trovava nell’enorme caverna sotterranea, su un rialzo di pietra alto una trentina di metri, e guardava in basso controllando il lavoro del suo esercito di troll sotto di lui. Migliaia di troll lavoravano sodo nell’enorme caverna sottoterra, scalfendo la roccia con martelli e piccozze, frantumando pezzi di terra e di pietra, il rumore della miniera pesante nell’aria. Innumerevoli torce erano posizionate lungo le pareti mentre fiumi di lava attraversavano il pavimento, sprizzando scintille, baluginando, illuminando la grotta e tenendo la temperatura calda mentre i troll sudavano e annaspavano nel calore là sotto.

Vesuvio sorrise, il volto da troll grottesco, deforme, due volte più grande di quello di un uomo. Aveva due lunghi denti, come zanne, che gli spuntavano dalla bocca e gli occhi piccoli e rossi che osservavano con soddisfazione la gente che soffriva. Voleva che la sua gente lavorasse sodo, faticasse più che mai perché sapeva che solo attraverso l’estremo sforzo lui avrebbe ottenuto ciò che suo padre non era riuscito ad avere. Due volte più grande di un normale troll e tre volte più robusto di un uomo, Vesuvio era tutto muscolo e rabbia e sapeva di essere diverso, sapeva di poter ottenere ciò che nessuno prima di lui aveva avuto. Aveva programmato un piano che nemmeno i suoi antenati avrebbero mai potuto architettare, un piano che avrebbe portato gloria alla sua nazione per sempre. Sarebbe stata la galleria più grande mai creata, una galleria che li avrebbe portati sotto Le Fiamme, fino ad Escalon. A ogni colpo di martello la galleria si faceva sempre più profonda.

Mai una volta nel giro di secoli la sua gente aveva pensato di attraversare Le Fiamme in massa. Singoli troll erano stati capaci di passare attraverso il fuoco qua e là, ma la maggior parte di essi erano morti in quella missione suicida. Quello di cui Vesuvio aveva bisogno era un intero esercito di troll che attraversasse insieme, all’unisono, per distruggere Escalon una volta per tutte. I suoi padri non avevano capito come farlo ed erano diventati compiacenti, rassegnati a una vita lì nel territorio selvaggio di Marda. Ma non lui. Lui, Vesuvio, era più saggio di tutti i suoi padri, più duro, più determinato, e decisamente più spietato. Un giorno, rimuginando, aveva pensato a come potesse mai essere possibile che non esistesse un modo per attraversare Le Fiamme, né per oltrepassarle al di sopra. Allora gli era venuto in mente che si poteva dopotutto passare sotto. Attratto dall’idea aveva immediatamente messo in moto il suo piano e da allora non si era più fermato, assoldando migliaia dei suoi soldati e schiavi per costruire quella che sarebbe stata la creazione più grandiosa del regno dei troll: una galleria sotto Le Fiamme.

Vesuvio guardò con soddisfazione mentre uno dei supervisori frustava uno schiavo umano, uno che avevano catturato dall’occidente, incatenato ora a centinaia di altri schiavi. L’uomo gridò e cadde, venendo frustato a morte. Vesuvio sorrise, soddisfatto di vedere gli altri uomini lavorare ancora più sodo. I suoi troll erano grandi quasi il doppio degli umani e avevano un aspetto anche più grottesco, con grossi muscoli e volti deformi pieni di insaziabile sete di sangue. Aveva scoperto che gli umani erano per il suo popolo un buon modo per scatenare la loro violenza.

Eppure anche guardando questa scena Vesuvio si sentiva frustrato: non importava quanta gente avesse piegato in schiavitù, quanti dei suoi soldati avesse messo al lavoro, non importava con quanta forza li frustasse, quanto li torturasse o uccidesse per motivarli. Il lavoro procedeva comunque lentamente. La roccia era troppo dura, il lavoro troppo grande. Di questo passo, lo sapeva, non avrebbero mai completato la galleria nella sua vita e il suo sogno di invadere Escalon sarebbe rimasto un sogno e basta.

Ovviamente avevano spazio più che a sufficienza lì a Marda, ma non era uno spazio che Vesuvio voleva. Lui voleva uccidere, soggiogare altri umani, prendere tutto ciò che apparteneva loro, solo per il divertimento di farlo. Voleva tutto. E sapeva che se fosse arrivato lì, sarebbe giunto il tempo per misure più drastiche.

“Mio signore e re?” disse una voce.

Vesuvio si voltò e vide numerosi dei suoi soldati che stavano lì, con indosso la caratteristica armatura verde della nazione dei troll, la loro insegna – la testa di un orso ruggente con un cane in bocca – raffigurata davanti. I suoi uomini abbassarono la testa in segno di rispetto, guardando a terra come era stato loro insegnato in sua presenza.

Vesuvio vide che tenevano un soldato troll tra loro, con indosso un’armatura lacera, il volto coperto di terra e cenere, oltre ad alcuni segni di bruciature.

“Dovreste rivolgervi a me,” ordinò.

Lentamente alzarono il mento e lo guardarono negli occhi.

“Questo qua è stato catturato dentro Marda, nel Bosco del Sud,” disse uno di essi. “È stato preso mentre tornava da sotto Le Fiamme.”

Vesuvio guardò il soldato prigioniero, incatenato, e si sentì riempire di disgusto. Ogni giorno mandava uomini ad occidente, attraverso Marda, nella missione di attraversare Le Fiamme ed emergere dall’altra parte, ad Escalon. Se sopravvivevano al viaggio avevano ordine di cercare le due torri e rubare la Spada di Fuoco, l’arma mitica che si supponeva mantenesse vive Le Fiamme. La maggior parte dei suoi troll non tornava mai dal viaggio: rimanevano uccisi nel passaggio attraverso il fuoco oppure dagli umani di Escalon. Era una missione a senso unico: avevano ordine di non tornare mai, a meno che non lo facessero con la Spada di Fuoco in mano.

Ma ogni tanto alcuni dei suoi troll fuggivano, piuttosto sfigurati dal passaggio attraverso le Fiamme, avendo fallito la missione ma tentando comunque di scappare e trovare porto sicuro a Marda. Vesuvio non sopportava quei troll, li considerava disertori.

“Quali notizie porti dall’occidente?” gli chiese. “Hai trovato la spada?” aggiunse già conscendo la risposta.

Il soldato deglutì, terrorizzato.

Scosse lentamente la testa.

“No, mio signore e re,” disse con voce spezzata.

Vesuvio avvampò di collera in silenzio.

“Allora perché sei tornato a Marda?” gli chiese.

Il troll teneva la testa bassa.

“Alcuni umani mi hanno teso un’imboscata,” disse. “Sono stato fortunato a scappare e tornare indietro.”

“Ma perché sei tornato?” insistette Vesuvio.

Il soldato lo guardò confuso e nervoso.

“Perché la mia missione era terminata, mio signore e re.”

Vesuvio era furioso.

“La tua missione era di trovare la spada. O morire provandoci.”

“Ma sono riuscito a passare attraverso Le Fiamme!” lo implorò. “Ho ucciso molti umani! E sono riuscito a tornare!”

“Dimmi un po’,” disse Vesuvio gentilmente, facendo un pasto avanti e posandogli una mano sulla spalla continuando a camminare lentamente insieme a lui verso il limitare della piattaforma. “Hai davvero pensato che tornando ti avrei lasciato in vita?”

Vesuvio afferrò improvvisamente il troll per la camicia, fece un passo avanti e lo scagliò oltre il bordo.

Il soldato si dimenò in aria per quanto le sue catene gli consentissero, gridando. Tutti i lavoratori di sotto si fermarono e sollevarono lo sguardo, guardandolo cadere. Precipitò per una trentina di metri e infine atterrò con un tonfo sulla dura roccia.

Tutti i lavoratori guardarono Vesuvio e lui ricambiò l’occhiata sapendo che sarebbe stato per loro un buon promemoria.

Rapidamente tornarono tutti al proprio lavoro.

Vesuvio, ancora infuriato e bisognoso di sfogarsi su qualcuno, si voltò allontanandosi dal ciglio del balcone e scendendo lungo gli scalini di pietra intagliati nella parete del canyon, seguito dai suoi uomini. Voleva vedere con i suoi occhi l’avanzamento dei lavori, e mentre si trovava laggiù immaginò di poter trovare uno schiavo patetico da picchiare a sangue.

Vesuvio si fece strada lungo le scale, intagliate nella pietra nera, scendendo piano dopo piano per tutta la strada fino alla base della vasta caverna, che diveniva sempre più calda man mano che si proseguiva. Decine di suoi soldati lo seguivano mentre attraversava la grotta, facendosi strada tra fiumi di lava e orde di lavoratori. Mentre procedeva migliaia di soldati e schiavi smettevano di lavorare e si facevano da parte per lasciargli libero il passaggio, abbassando la testa in segno di rispetto.

Era caldo là sotto e la base era scaldata non solo dal sudore degli uomini, ma anche dalle scie di lava che attraversavano l’ambiente e colavano dalle pareti; dalle scintille che volavano dalle rocce mentre gli uomini le colpivano ovunque con asce e piccozze. Vesuvio marciò attraverso la vasta caverna fino a che raggiunse l’ingresso di un cunicolo. Si fermò lì davanti a guardarlo: largo una trentina di metri e alto quasi venti, era stato scavato in modo da scendere gradualmente, sempre più a fondo sottoterra, abbastanza in profondità da sostenere un esercito quando fosse giunto il momento di farsi largo sotto Le Fiamme. Un giorno sarebbero entrati ad Escalon, sarebbero emersi in superficie e avrebbero fatto schiavi migliaia di umani. Sarebbe stato il giorno migliore della sua vita, ne era certo.

 

Vesuvio continuò a marciare, afferrò una frusta dalle mani di un soldato e la sollevò in aria iniziando a frustare soldati a destra e a manca. Tornarono tutti al lavoro, colpendo la roccia al doppio della velocità, picchiando contro la pietra nera fino a che nuvole di polvere riempirono l’aria. Si diresse poi verso gli schiavi umani, uomini e donne che avevano sottratto ad Escalon e che erano riusciti a portare lì. Quelle erano le missioni delle quali godeva di più, missioni che servivano solo a terrorizzare l’occidente. La maggior parte degli umani moriva nel viaggio di ritorno, ma abbastanza di essi sopravvivevano, anche se gravemente ustionati e menomati, e poi lavoravano fino allo stremo nelle sue gallerie.

Vesuvio prese di mira uno di essi. Mise la frusta nelle mani di un umano e puntò una donna.

“Uccidila!” gli ordinò.

L’uomo rimase fermo, tremando, e scosse lievemente la testa.

Vesuvio gli strappò nuovamente la frusta di mano e iniziò a frustarlo ripetutamente, fino a quello smise di opporre resistenza, morto.

Gli altri tornarono al lavoro, consapevoli del suo sguardo, mentre Vesuvio gettava via la frusta, respirando affannosamente, e fissava l’imboccatura della caverna. Era come guardare la sua nemesi. Era una creazione formata a metà che conduceva da nessuna parte. Tutto stava procedendo troppo lentamente.

“Mio signore e re,” disse una voce alle sue spalle.

Vesuvio si voltò lentamente e vide diversi soldati di Mantra, la sua divisione principale di troll, vestiti con le armature verdi e nere riservate al meglio delle sue truppe. Stavano lì fieri, con le alabarde al fianco. Questi erano i pochi troll che Vesuvio rispettava, e a vederli lì il suo cuore accelerò. Poteva significare solo una cosa: c’erano delle novità.

Vesuvio aveva inviato gli uomini di Mantra in una missione molte lune prima: dovevano trovare il gigante che si trovava nascosto nel Bosco Grande e che si diceva avesse ucciso molti troll. Il suo sogno era di catturare quel gigante, portarlo lì e usare il suo vigore per completare quella galleria. Vesuvio aveva inviato missione dopo missione e nessuno era mai tornato: erano stati trovati sempre tutti morti, uccisi dal gigante.

Mentre Vesuvio guardava i suoi uomini il cuore gli trepidava in petto per la speranza.

“Parlate,” ordinò.

“Mio signore e re, abbiamo trovato il gigante,” disse uno di essi. “L’abbiamo accerchiato. I nostri uomini aspettano un tuo ordine.”

Vesuvio sorrise lentamente, deliziato per la prima volta dopo tanto tempo. Il suo sorriso si fece ancora più grande mentre un piano si faceva spazio nella sua mente. Alla fine si rese conto che tutto si poteva realizzare; finalmente avrebbe avuto l’occasione per fare breccia attraverso Le Fiamme.

Fissò il suo comandante, colmo di risoluzione, pronto a fare ciò che andava fatto.

“Portatemi da lui.”

CAPITOLO TREDICI

Kyra arrancava nella neve che ora le arrivava sopra le ginocchia, facendosi strada lungo il Bosco di Spine appoggiata al suo bastone, cercando di procedere contro quella che era diventata una bufera vera e propria. La tempesta infuriava con tale forza ora da penetrare addirittura attraverso i rami del bosco, soffiando contro quegli alberi enormi, con folate di vento così forti da piegarli quasi a metà. Folate di neve e vento le sferzavano il volto rendendole dura la visibilità, e mettendola in difficoltà anche nel tenersi in piedi. Mentre il vento aumentava ogni momento di più, le ci voleva sempre più forza per fare anche pochi passi.

La luna rosso sangue era sparita da tempo, come inghiottita dalla bufera, e ora non c’era più luce per orientarsi. Anche se avesse potuto, riusciva a vedere a malapena le cose. Tutto ciò che le era rimasto a farle strada era Leo, che camminava lentamente, ferito, appoggiato a lei, la sua presenza come unica consolazione. A ogni passo sembrava che i piedi affondassero sempre più e si chiese addirittura se stesse procedendo o no. Provava un’estrema urgenza di tornare dal suo popolo, di avvisarli, e questo rendeva ogni passo ancora più frustrante.

Kyra cercò di sollevare lo sguardo, strizzando gli occhi contro il vento, sperando di trovare qualche segnale distante – qualsiasi cosa – cercando di vedere se stava andando nella giusta direzione. Ma era persa in un mondo totalmente bianco. Le bruciava la guancia per il graffio del drago e le pareva fosse in fiamme. Allungò una mano e toccò la ferita, trovandosi la mano macchiata di sangue, l’unica cosa calda rimastale all’universo. La guancia le pulsava anche, come se il drago l’avesse infettata.

Quando una raffica particolarmente forte la spinse indietro Kyra finalmente si rese conto che non poteva andare avanti: dovevano trovare un riparo. Voleva con tutta se stessa raggiungere Volis prima degli uomini del Lord, ma sapeva che se avesse continuato a camminare a quel modo, sarebbe morta là fuori. Il suo solo conforto era il fatto che gli uomini del Lord non sarebbero stati capaci di attaccare con quel tempo, se anche lo scudiero ce l’avesse fatta a giungere a casa.

Kyra si guardò attorno, questa volta per cercare riparo, ma trovarlo sembrava difficile. Non vedendo altro che bianco, con il vento che ululava con tale forza da renderle difficile anche respirare, Kyra iniziò a provare un’ondata di panico, ad avere visioni di lei e Leo che venivano trovati congelati nella neve, oppure mai scoperti. Sapeva che se non avesse presto trovato un qualche riparo sarebbero morti prima che facesse giorno. Quella sensazione si era fatta strada in lei e ora si sentiva disperata. Si rendeva conto ora che tra tutte le notti per lasciare Volis aveva proprio scelto la peggiore.

Come a intuire la sua nuova intenzione, Leo iniziò a piagnucolare e improvvisamente si voltò e corse via da lei. Attraversò una radura e raggiunse la parte opposta, iniziando a scavare con forza contro un cumulo di neve.

Kyra lo guardò con curiosità mentre ululava, grattando selvaggiamente, scavando sempre più a fondo nella neve, e si chiese cosa avesse trovato. Alla fine qualcosa apparve e Kyra fu sorpresa di vedere che Leo aveva dissotterrato una piccola grotta che si apriva nel fianco di un enorme masso. Con il cuore che le batteva per la speranza si affrettò a raggiungerla e si accucciò vedendo che l’interno era sufficientemente grande per dare riparo ad entrambi. Inoltre constatò con emozione che là dentro era asciutto e al riparo dal vento.

Si chinò e baciò Leo sulla testa.

“Ce l’hai fatta amico mio.”

Lui le leccò il dorso della mano.

Kyra si inginocchiò e strisciò nella grotta, Leo al suo fianco, e non appena fu entrata ebbe un’immediata sensazione di sollievo. Alla fine c’era silenzio, il rumore del vento attutito, e per la prima volta il freddo non le pungeva più il viso e le orecchie; per la prima volta si trovava all’asciutto. Si sentì come se potesse respirare di nuovo.

Strisciò su degli aghi di pino all’interno della grotta, chiedendosi per quanto si inoltrasse all’interno, fino a che raggiunse la parete di fondo. Si sedette appoggiandosi contro di essa e si guardò attorno. Di tanto in tanto delle folate di neve entravano, ma la grotta rimaneva per la maggior parte all’asciutto, e niente arrivava in fondo dove si trovava lei. Per la prima volta poteva veramente rilassarsi.

Leo le strisciò accanto, appoggiando la testa sulle sue gambe, e lei lo strinse al petto riappoggiandosi alla pietra, tremando e cercando di tenersi calda. Si spazzò i fiocchi di neve dalle pellicce e dal pelo di Leo, cercando di asciugarli, poi esaminò la ferita del lupo. Fortunatamente non era profonda.

Usò la neve per pulirla e lui gemette mentre lo toccava.

“Shhh,” gli disse.

Mise una mano in tasca e gli diede un pezzo di carne secca che lui mangiò avidamente.

Mentre stava seduta e appoggiata lì al buio, ascoltando l’infuriare del vento e guardando la neve che si riammassava all’ingresso impedendole di vedere oltre, Kyra si sentì come se quella fosse la fine del mondo. Cercò di chiudere gli occhi: si sentiva a pezzi, ghiacciata, disperatamente bisognosa di riposo, ma il graffio alla guancia, ancora pulsante, la teneva sveglia.

Alla fine gli occhi si fecero pesanti e iniziarono a chiudersi. Gli aghi di pino sotto di lei si rivelarono stranamente comodi e mentre il suo corpo si faceva tutt’uno con la roccia, si ritrovò, nonostante i suoi migliori sforzi, a cedere all’abbraccio del sonno.

*

Kyra volava sul dorso del drago, tenendosi saldamente e muovendosi più veloce di quanto credesse possibile, mentre la bestia ruggiva e sbatteva le ali. Erano così ampie e magnifiche e si facevano sempre più grandi mentre le guardava, come se dovessero allungarsi al di sopra del mondo.

Abbassò lo sguardo e lo stomaco ebbe un sussulto quando vide, in lontananza, le ondeggianti colline di Volis. Non le aveva mai viste da quell’angolatura, così in alto. Volarono sopra una florida campagna, con colline verdeggianti, distese di boschi, fiumi impetuosi e fertile vegetazione. Era un terreno familiare e presto Kyra riconobbe il forte di suo padre, di forma irregolare, con le antiche pareti di pietra che ricoprivano la campagna e le pecore che girovagavano attorno.

Ma quando il drago scese in volo, Kyra sentì subito che c’era qualcosa che non andava. Vide del fumo che si levava, non fumo che proveniva dai camini, ma fumo nero e fitto. Guardando con maggiore attenzione fu disgustata dal vedere che il forte di suo padre era in fiamme e che grandi lingue di fuoco circondavano ogni cosa. Vide un esercito di uomini del Lord che si allungava all’orizzonte, circondando il forte e appiccando il fuoco. Udendo le grida capì che stavano uccidendo tutti coloro che conosceva e amava.

“NO!” cercò di gridare.

Ma le parole, bloccate in gola, non uscirono.

Il drago allungò il collo, si voltò e la guardò negli occhi: Kyra fu sorpresa di vedere lo stesso drago che aveva salvato, i suoi penetranti occhi gialli che la fissavano intensamente. Theo.

Mi hai salvato, lo udì dire nella sua mente. Ora io salverò te. Ora siamo una cosa sola, Kyra. Siamo una cosa sola.

Improvvisamente Theo si voltò di scatto e Kyra perse l’equilibrio cadendo.

Gridò mentre precipitava in aria e il terreno si faceva rapidamente più vicino.

“NO!” gridò Kyra.

Si mise a sedere gridando nel buio, insicura di dove si trovasse. Respirando affannosamente si guardò attorno fino a che capì: era nella grotta.

Leo mugolava accanto a lei, la testa sulle sue gambe, leccandole una mano. Kyra fece un respiro profondo, cercando di ricordare dove si trovasse. Era ancora buio fuori e la tempesta stava ancora infuriando: il vento ululava e la neve si ammassava. Il dolore alla guancia era peggiorato e toccandola vide che c’era del sangue fresco. Si chiese se avrebbe mai smesso di sanguinare.

“Kyra!” la chiamò una voce mistica, più simile a un sussurro.

Kyra sussultò, chiedendosi chi potesse esserci in quella grotta con lei: scrutò nell’oscurità, in allerta. Sollevò lo sguardo e vide una figura non familiare che le stava accanto nella caverna. Indossava una tunica lunga e nera e un mantello e teneva un bastone in mano: sembrava essere un vecchio, con i capelli bianchi che si intravedevano sotto il cappuccio. Il bastone brillava, emettendo una debole luce nell’oscurità.

“Chi sei?” gli chiese sedendosi dritta, in guardia. “Come hai fatto ad entrare?”

Lui fece un passo avanti e lei avrebbe voluto vedergli il volto, ma era ancora nell’ombra.

“Cosa cerchi?” le chiese con voce antica che in qualche modo la metteva a suo agio.

Lei ci pensò, cercando di capire.

“Cerco la libertà,” rispose. “Cerco di diventare una guerriera.”

Lentamente lui scosse la testa.

“Dimentichi qualcosa,” le disse. “La cosa più importante di tutte. Cosa cerchi?”

Kyra lo guardò confusa.

Alla fine lui fece un altro passo avanti.

“Cerchi il tuo destino.”

Kyra rifletté sulle sue parole.

 

“E ancora,” continuò, “cerchi di capire chi sei.”

Fece un altro passo, ora così vicino, ma ancora oscurato dall’ombra.

“Chi sei, Kyra?”

Lei lo guardò inespressiva, volendo rispondere ma non avendone idea in quel momento. Non era più sicura di nulla.

Chi sei tu?” le chiese con voce così forte che riecheggiò tra le pareti facendole male ai timpani.

Kyra si portò le mani al viso, tenendosi stretta mentre si avvicinava.

Riaprì gli occhi e fu scioccata di vedere che non c’era più nessuno. Non riusciva a capire cosa stesse accadendo. Abbassò lentamente le mani e si rese conto che questa volta era completamente sveglia.

La luce del sole brillava nella grotta e la luce si rifletteva sulla neve, contro le pareti della caverna, accecandola. Strizzò gli occhi, disorientata, cercando di rimettersi in sesto. Il vento furioso si era placato, la neve accecante era finita. Al suo posto c’era della neve che bloccava parzialmente l’ingresso della grotta e oltre si vedeva un mondo di bianco con un cristallino cielo blu. Gli uccelli cantavano. Era come se il mondo fosse rinato.

Kyra faceva fatica a crederci: era sopravvissuta a quella lunga notte.

Leo le mordicchiava delicatamente i pantaloni e la spingeva, impaziente.

Disorientata si alzò lentamente in piedi e subito le girò la testa per il dolore. Non solo tutto il corpo era indolenzito per il combattimento, per i colpi che aveva ricevuto; soprattutto la guancia le bruciava come se fosse in fiamme. Ricordò l’artiglio del drago e si toccò con una mano. Sebbene fosse solo un graffio era ancora misteriosamente umido, ricoperto di sangue.

Alzandosi in piedi sentiva di avere la testa leggera e non sapeva se fosse per la stanchezza, per la fame o per il graffio del drago. Camminò con gambe instabili, sentendosi diversa dal solito, seguendo Leo che la conduceva impazientemente fuori dalla grotta, alla luce del giorno, grattando le neve per allargare l’uscita.

Kyra si accucciò e uscì. Rialzandosi in piedi si ritrovò immersa in un mondo di accecante biancore. Sollevò le mani portandosele agli occhi e la testa le girò alla vista. Si era fatto decisamente più caldo, il vento non c’era più, gli uccelli cinguettavano e il sole filtrava tra gli alberi nella radura. Udì un fruscio e si voltò vedendo un cumulo di neve scivolare pesantemente da un ramo di pino atterrando a terra. Abbassò lo sguardo e vide che ora la neve le arrivava ai polpacci.

Leo fece strada, saltellando nella neve, diretto nuovamente verso Volis, ne era certa. Lo seguì, sforzandosi di tenere il passo.

Faceva fatica a ogni passo. Si leccò le labbra sentendosi sempre più stordita. Il sangue le pulsava sulla guancia e iniziò a chiedersi se quella ferita fosse infetta. Si sentiva cambiare. Non era in grado di spiegarlo, ma era come se il sangue del drago le stesse pulsando dentro.

“Kyra!”

Era un richiamo distante, come proveniente da mondi lontani. Fu seguito da numerose altre voci che gridavano il suo nome, grida che venivano assorbite dalla neve e dai pini. Le ci volle un momento per capire e riconoscere quelle voci: gli uomini di suo padre. Erano là fuori, la stavano cercando.

Kyra provò un’ondata di sollievo.

“Qui!” rispose, pensando di gridare, ma sorpresa di udire la propria voce solo poco più forte di un bisbiglio. In quel momento si rese conto di quanto debole era. La sua ferita le stava facendo qualcosa, qualcosa che non capiva.

Improvvisamente le ginocchia barcollarono sotto di lei e Kyra si trovò a cadere nella neve, incapace di resistere.

Leo guaì, poi si voltò e corse verso le voci lontane.

Avrebbe voluto chiamarlo, chiamare tutti loro, ma ora era troppo debole. Rimase lì, affondata nella neve, e guardò il mondo bianco, l’accecante sole invernale. Chiuse gli occhi mentre un torpore al quale non poteva più resistere la portava via.