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Si era fidato anche di una sacco di scienziati, però. Guardò Ted.

“Non mi sono inventato questa cosa,” gli disse.

“Non ho mai detto che tu l’abbia fatto,” rispose Ted. “La gente cambia ciò che pensa vada bene per loro. Restano delusi perché le cose non funzionano e cercano un capro espiatorio. Iniziano a pensare che prove che hanno visto con i loro stessi occhi siano una scherzo.”

Gli porse la mano e Kevin la strinse. “Grazie, Ted.”

“Stammi bene,” disse Ted. “E… cerca di non permettere alle cose che diranno di colpirti troppo, ok?”

“Ok,” promise Kevin.

Non vedeva come poterlo evitare, però. Aveva promesso al mondo gli alieni e aveva fallito.

Aveva fallito.

Era un imbroglione, dopotutto? Si era inconsciamente immaginato tutto?

CAPITOLO DICIOTTO

C’erano giornalisti attorno alla casa di Kevin quando arrivarono. Giornalisti e gente in protesta e addirittura un po’ di poliziotti, ovviamente lì con il compito di mantenere l’ordine. Kevin tenne la testa bassa seduto al posto del passeggero nell’auto di sua madre, sperando che nessuno lo vedesse, ma non c’era veramente molto da sperare al riguardo. Nel momento in cui videro l’auto entrare, la massa di gente la circondò e la macchina venne praticamente fatta luccicare dai flash delle macchine fotografiche.

“Quando ti apro la portiera, non ti fermare,” disse sua madre. Uscì e Kevin si preparò.

Sua madre aprì la portiera dal suo lato e gli mise un braccio protettivo attorno alle spalle anche se lui era più alto di lei.

“State indietro!” gridò ai presenti. “Fuori dalla mia proprietà.”

I giornalisti arretrarono un poco, ma la calca di gente non si sciolse. Kevin rimase stretto a sua madre mentre spingevano per passare. I poliziotti gridavano alla gente di stare indietro, ma non fecero niente per andare ad aiutarli concretamente. Kevin aveva la sensazione che fossero probabilmente irritati come tutti gli altri per quello che era successo. Quanti di loro avevano creduto che avrebbero parlato direttamente con gli alieni? Quanti di loro ora lo odiavano perché la capsula non si era rivelata quello che si aspettavano?

Lui e sua madre avanzarono comunque, spingendo di lato la gente che li afferrava e pretendendo risposte a domande per cui Kevin non aveva niente da dire.

“Perché non c’erano gli alieni?”

“Perché hai fatto tutto questo?”

“Sai a quanti danni hai fatto alla gente?”

Kevin vide sua madre girarsi furiosa verso di loro e cercò di tirarla indietro, ma era troppo tardi per fare qualsiasi cosa.

“Lasciate stare mio figlio!” gridò. “Non ha fatto niente di male. È malato!”

Si fecero strada in casa, chiudendo la porta dietro di loro. Kevin vide sua madre serrarla a doppia mandata come avrebbe potuto fare se avesse pensato che la gente potesse tentare di fare irruzione all’interno. Attraversò la casa e tirò le tende, bloccando i flash dei fotografi insieme alla luce dall’esterno.

Kevin andò alla TV e la accese. C’era il notiziario, con immagini della loro casa dall’esterno, e un breve video con sua madre, dove appariva una matta mentre spingeva indietro i giornalisti.

“Lasciate stare mio figlio! Non ha fatto niente di male. È malato!”

Le parole Un’ammissione della bufala? ruotavano sullo sfondo dello schermo, in una domanda che riusciva ad essere accusatoria senza accusare direttamente. Facevano apparire la cosa come se la madre di Kevin stesse tentando di scusarlo per aver fatto qualcosa di sbagliato, piuttosto che ergersi in sua difesa come effettivamente aveva fatto.

L’aveva fatto, vero?

“Dovresti spegnere quella roba,” gli disse. Gli passò vicino e lo fece lei, e lo schermo ridivenne nero. “Non ti farà alcun bene stare a guardarli mentre dicono tutte queste cose di te.”

“Mamma,” disse Kevin, “quello che stanno dicendo… fanno sembrare la cosa come se neanche tu mi credessi veramente. Come se pensassi che mi sto inventando le cose perché sono malato.”

Sua madre non rispose per un momento o due.

“Lo pensi davvero,” disse Kevin. Non poteva crederci. Aveva pensato che sua madre, tra tutta la gente, gli avrebbe creduto a questo punto.

“Non so cosa pensare, Kevin,” disse sua madre. Sembrava così stanca in quel momento. “So che credi a tutto questo.”

“Abbiamo trovato il segnale,” insistette Kevin. “Mi hai difeso con il professor Brewster.”

“Sei mio figlio,” disse sua madre. “Non permetterei mai a nessuno di dire qualcosa di male su di te, qualsiasi cosa accada. Che sia vero o no… non lo so. Ne ero convinta, ma tutta la cosa della roccia…”

Kevin provò un senso di nausea. Gli pareva che le cose fossero tornate al momento in cui sua madre lo aveva portato al SETI la prima volta, facendolo solo perché pensava che fosse qualcosa che Kevin doveva fare. Lui non voleva che lei facesse delle cose perché era sua madre e sentiva di doverlo fare. Voleva che gli credesse.

“Alla fine se ne andranno,” gli disse. “Si dimenticheranno tutto questo. Possiamo andare avanti con le nostre vite senza di loro, senza gli alieni, senza niente di tutto questo.”

Pareva che stesse tentando di rassicurare Kevin, ma Kevin non era certo che tutto fosse così rassicurante.

Era sul punto di dirglielo, ma in quel momento il telefono di sua madre suonò.

“Pronto,” disse. “Chi è… No, non ho niente da dire a lei, né a nessun altro giornalista.”

Aveva appena riattaccato che subito arrivò un’altra chiamata, e poi un’altra ancora. Ogni volta lei riattaccava dopo solo pochi secondi di conversazione. Kevin pensava che sua madre avrebbe potuto lanciare il telefono dall’altra parte della stanza. Si fermò invece tenendolo sollevato e guardando lo schermo con aria preoccupata.

“Cosa c’è, mamma?” le chiese.

“È il lavoro,” rispose lei, e qualcosa nel modo in cui lo disse fece capire a Kevin quanto fosse spaventata. Prese la chiamata, facendo cenno a Kevin di stare in silenzio. “Pronto, signor Banks. Si, va piuttosto male. Sì, so che sono mancata, ma mio figlio… sì, lo so. No, capisco, ma… Non può farlo. So che è una cattiva pubblicità, ma non potete…” Rimase in silenzio, ascoltando per diversi secondi. “No, capisco.”

Terminò la chiamata, e questa volta gettò davvero il telefono, sedendosi sul bordo del divano con la testa tra le mani.

“Mamma?” chiese Kevin, allungando un braccio per toccarla. “Cos’è successo?”

“Era il mio datore di lavoro,” disse senza sollevare lo sguardo. “Mi… mi hanno licenziata. Hanno detto che non vogliono la cattiva pubblicità che potrebbe derivare dall’avere come dipendente qualcuno connesso a tutta questa faccenda.”

“Possono farlo?” chiese Kevin. Non gli pareva il genere di cose che la gente potesse permettersi di fare, soprattutto dato che loro non avevano fatto niente di male.

“Dicono di sì,” disse sua madre, “e se mi oppongo, sono piuttosto certa che loro renderebbero la cosa così costosa che non potrei comunque fare nulla, e magari un giudice acconsentirebbe anche riguardo al fatto che io stia causando problemi agli affari restando lì.”

A Kevin non sembrava giusto. Non sembrava corretto. Peggio ancora, non sembrava che ci fosse niente da poter fare.

“Mi spiace mamma,” disse. “Se mi fossi solo tenuto tutto per me…”

“Non è colpa tua,” disse sua madre.

Kevin però sapeva che non era vero. Grazie alla TV sapeva che neanche sua madre lo pensava. Era andato alla NASA a parlare di alieni, e ora sua mamma veniva licenziata, mentre nessuno più credeva a quello che aveva sentito.

“Andrà tutto bene,” disse sua madre. Ma non pareva crederci. “Troveremo un modo per cavarcela.”

Rimase seduta sul divano, senza accendere la TV, e nessuno dei due osò aprire le tende. Alla fine Kevin andò in camera sua e rimase lì seduto nel buio in modo che sua madre non dovesse preoccuparsi troppo di lui.

Dopo un po’ tirò fuori le cuffie che Ted gli aveva dato prima che lasciasse l’istituto, infilandosele più per isolare il rumori dei giornalisti che per il reale pensiero che potesse succedere qualcosa. Se avesse potuto ricevere un altro messaggio che aiutasse a dare un senso a tutto questo, forse sarebbe potuto uscire dai giornalisti e dare loro delle spiegazioni. Magari avrebbe potuto far capire alla gente che questo era reale, e che lui non aveva mentito.

Però c’era solo silenzio nelle cuffie. Nessun segnale, nessuna parola nella sua testa, nessun segno di qualcosa che potesse aiutarlo. Kevin si levò di dosso le cuffie e le lanciò di lato, mettendosi poi a dormire. Forse la mattina le cose sarebbero sembrate migliori.

***

Kevin andò alla finestra della sua camera e guardò fuori come avrebbe fatto se avesse voluto cercare la neve in qualsiasi posto che non fosse la California. Stava cercando i giornalisti, sperando che ormai, passati diversi giorni, si fossero stancati di aspettare vicino alla casa e se ne fossero andati.

Non era così. C’erano ancora macchine fotografiche davanti a casa sua, ancora giornalisti con i microfoni che aspettavano quello che sarebbe stato il loro prossimo passo in quella storia. Kevin voleva che se ne andassero, e pensò per la centesima volta di scendere là fuori e dire loro d farlo, ma non lo fece. Non era lo stesso che tradurre i messaggi mentre la gente guardava la conferenza stampa, e comunque Kevin sospettava che fosse proprio ciò che loro si aspettavano che lui facesse.

Andò invece a vestirsi, e barcollò leggermente, colpito da un lieve capogiro. Seguì un dolore che gli scoppiò nel cranio, e Kevin sentì qualcosa di bagnato in bocca. Quando si portò la mano al naso, la ritrasse rossa di sangue. Si sentiva effettivamente peggio oggi, solo lo sforzo di andare al bagno e lavarsi lo rendevano esausto.

 

Ma lo fece. Non voleva preoccupare sua madre. Si assicurò di avere un aspetto presentabile quando scese al piano di sotto, e cercò di nascondere il leggero tremore delle mani, che ora non spariva mai.

Fino a questo momento non si era reso conto di quanta attenzione e sforzo avesse risposto nell’istituto di ricerca. Si era lamentato di tutti gli esami e delle scansione e del riposo, ma forse da qualche parte in tutto quello, c’era stato qualcosa che aveva rallentato la sua malattia. O magari lui era semplicemente stato troppo impegnato da non notarne l’evoluzione.

“Non posso far preoccupare la mamma,” disse a se stesso.

Quando scese al piano di sotto sentì delle voci.

“Mi spiace, signora McKenzie, ma questo non è uno scherzo. Ci sono dei procedimenti in corso per aver portato suo figlio a imbrogliare la gente, e dobbiamo prenderle seriamente.”

Kevin corse subito lì e vide un paio di persone in abiti eleganti che parlavano con sua madre. Lei sembrava non aver chiuso occhio, e quando guardò verso Kevin, poté vedere i segni viola che aveva attorno agli occhi.

“Oh, ecco qui suo figlio,” disse uno degli uomini. “Magari potremmo raccogliere una sua dichiarazione ora, potrebbe essere di aiuto.”

“No,” disse sua madre, “non ora, e non in questo modo. Voglio solo che la gente lasci in pace mio figlio.”

“Non importa, mamma,” disse Kevin.

“Beh, a me sì,” disse sua madre. “Vai in cucina, Kevin. Devo parlare con queste persone.”

Se avesse gridato, Kevin avrebbe potuto discutere. Invece aveva un tono incredibilmente triste e Kevin fece come gli aveva chiesto, andando in cucina e sedendosi al tavolo. Per tutto il tempo tentò di ascoltare attraverso le pareti ciò che stava accadendo di là.

“Dovrò vendere la casa,” diceva sua madre. “Con quello che tutto questo costerà… non mi viene in mente un altro modo.”

“Capisco quanto sia difficile, signora McKenzie, ma è importante che gestiamo questa faccenda. L’alternativa potrebbe includere la detenzione, per lei o per suo figlio.”

Le dita di Kevin strinsero il bordo del tavolo della cucina con tanta forza da fargli male. Non potevano farlo, giusto? No potevano gettare sua madre in galera, quando lui aveva sempre detto la verità. Rimase seduto lì, una parte di lui intenzionata a correre lì di corsa, parte di lui consapevole che era tutto troppo importante per farlo.

Era ancora seduto lì quando vide una figura sgattaiolare nel cortile posteriore, un berretto a coprirle la testa e uno spesso cappotto tirato su per mascherare i lineamenti. Balzò nel giardino con il genere di agilità di chi aveva fatto una cosa del genere un sacco di altre volte prima, atterrando con compostezza sull’erba.

Se fosse stato un giornalista o un qualche sconosciuto che scavalcava la recinzione, Kevin non sapeva cosa avrebbe fatto. Avrebbe chiamato aiuto forse. Avrebbe interrotto sua madre nonostante la serietà di ciò che stava accadendo. Invece aprì la porta posteriore e lasciò entrare Luna in casa.

“Ehi,” gli disse abbracciandolo all’improvviso, prendendolo quasi alla sprovvista.

“Ehi,” le rispose Kevin. “Immagino che non potessi entrare dalla porta principale.”

“Troppi giornalisti,” confermò Luna facendo un passo indietro. Si tolse il berretto. “Ti piace il mio travestimento?”

“Fantastico,” disse Kevin, ma non poté trattenersi dal sorridere.

“Cosa c’è che non va?” chiese Luna. Scosse la testa. “Domanda scema.”

Kevin tornò a sedersi e Luna andò con lui. Quante volte avevano fatto i compiti insieme lì? Questo però sembrava diverso, molto più serio.

“Ci sono degli avvocati nell’altra stanza,” disse. “Stanno dicendo che mia madre potrebbe finire in prigione, e che potrebbe essere necessario vendere la casa.”

“Per quale motivo?” chiese Luna con quel tono indignato che diceva quanto fosse pronta a fare a botte se necessario, avvocati o no. “Non hai fatto niente di male.”

“Loro pensano di sì,” disse Kevin. “Pensano… immagino che pensino che mi sono inventato tutto per attirare attenzioni, o per convincerli a darmi assistenza medica o cose del genere.”

“Allora sono degli idioti,” dichiarò Luna, con quel genere di ferrea certezza che nessun altro attorno a lui pareva avere. “Hai dato loro dei messaggi provenienti da un altro mondo. Hai detto loro tutto riguardo a pianeti di cui altrimenti avrebbero a malapena saputo qualcosa. Li hai aiutati a trovare quella meteorite, anche se era vuota. Non è colpa tua se gli alieni sono strani e inviano rocce alla gente come regali.”

Quello era un modo di osservare la situazione che Kevin sospettava nessun altro a parte Luna potesse avere. Lo stesso gli dava una bella sensazione.

“Quindi tu mi credi?” le chiese.

Luna annuì. “Ti credo. E credo anche in te. Troverai un modo di gestire questa cosa.”

“E hai scavalcato la recinzione solo per dirmi questo?” le chiese Kevin.

Luna gli mise una mano sulla spalla. “A cosa servono gli amici? Mi piace entrare di soppiatto. E poi, devo portarti in un posto.”

Kevin la guardò sorpreso.

“Dove?” le chiese.

Lei sorrise.

“È una sorpresa.”

CAPITOLO DICIANNOVE

Kevin controllò il suo aspetto nello specchio prima di uscire. Non era vanità: voleva essere certo che non ci fosse alcun modo possibile per poterlo riconoscere. Teneva il cappuccio tirato sulla testa e un paio di occhiali scuri per camuffare i lineamenti del viso. Non era il massimo, ma se si fosse ingobbito a dovere, poteva almeno convincere se stesso che la gente non sarebbe stata capace di dire che era lui.

“Deve andare bene,” disse a se stesso.

Sua madre era uscita qualche minuto prima per andare a parlare con altri avvocati, o forse alla ricerca di un altro lavoro. Non che ci fosse qualcuno pronto ad assumere la madre di un ragazzo che aveva mentito. Le porte erano chiuse contro la continua presenza dei giornalisti davanti alla casa, e probabilmente sarebbero state così anche dopo il suo ritorno.

“Diventa matta se scopre che ho fatto questa cosa,” disse Kevin, ma era parte del motivo per cui stava indossando un travestimento. Era seduto in casa da troppo tempo, senza scuola a causa della sua malattia, senza nessuna possibilità di uscire sia per i giornalisti che per la paura di sua madre che potesse succedergli qualcosa. Stava impazzendo là dentro e sospettava che le cose sarebbero in caso diventate ancora più difficili per sua madre. Doveva uscire almeno per un po’.

Aveva il telefono pieno di messaggi da persone che non conosceva. Alcune erano domande, la maggior parte insulti. Un paio contenevano addirittura delle minacce, o promesse che avrebbero pagato Kevin se lui avesse raccontato la sua storia.

Kevin non era sicuro di voler fare attenzione. Aveva la sensazione di poter esplodere se fosse rimasto ancora un po’ a nascondersi. Guardò verso il retro della casa, cercando di giudicare se fosse possibile uscire da lì nello stesso modo in cui Luna era entrata. Poche settimane prima non avrebbe dovuto preoccuparsene.

Ora pensava ai tremori del suo corpo che andavano e venivano, ai momenti in cui perdeva la consapevolezza del tempo e ai capogiri. Prese una scala da dove sua madre la teneva in garage e la appoggiò alla recinzione usandola per scavalcarla e portarsi a un piccolo sentiero che passava in mezzo ai cortili.

Tenne la testa bassa mentre avanzava, assicurandosi che nessuno gli vedesse il volto. Anche se la parte della città dove viveva non era male: solo un paio di isolati più una zona industriale dove le fabbriche erano disposte come scatole recintate, e qualche macchinario arrugginito che indicava degli affari che non erano andati per il verso giusto.

“Andiamo,” disse Luna dopo che ebbero saltato la recinzione, mettendosi a camminare e facendo strada attraverso alcuni degli edifici abbandonati, accanto a graffiti che sembravano essere stati dipinti a occhi chiusi.

Sbucarono un po’ più vicini al centro cittadino. Kevin tenne su il cappuccio, sicuro che anche lì, lontano da casa, la gente avrebbe potuto scorgerlo.

“Potremmo andare al centro commerciale,” suggerì Luna.

Kevin scosse la testa. “Troppa gente.”

“Allora in piazza,” suggerì ancora Luna.

Kevin annuì. Probabilmente c’erano un sacco di persone anche lì, nel cuore della città, ma più in movimento, con minore probabilità che notassero un ragazzino che stava a testa bassa. Nel centro commerciale la sicurezza avrebbe probabilmente pensato che lui fosse lì per rubare qualcosa, ma fuori all’aperto lui e Luna potevano camminare dove volevano senza che questo fosse un problema.

Si diressero verso il centro, in direzione di una piccola piazza dove si erano spesso trovati con gli amici fin da quando erano bambini. C’era un parco più piccolo lì, con alberi a ogni angolo e una statua in mezzo che una volta era probabilmente stata un monumento in memoria di qualcuno molto importante, ma che ora era stata consumata dal vento e dalla pioggia, diventando anonima. Quando furono arrivati, Kevin era così esausto che iniziò a guardarsi in giro alla ricerca di una panchina dove potersi sedere.

“Kevin,” disse Luna, “cosa c’è che non va?”

“Sono solo stanco,” le rispose.

Luna si accigliò, non credendogli. “Beh, potremmo sempre andare da Frankie.”

La tavola calda era stata uno dei loro posti preferiti per molto tempo. Forse se non fosse stato così esausto, Kevin avrebbe potuto preoccuparsi, ma in quelle condizioni qualsiasi posto poteva andare bene per recuperare un po’ dopo o sforzo della camminata. Annuì.

“Pensavo fossi riuscito a camminare in mezzo alla giungla,” disse Luna.

“Penso che le cose stiano peggiorando,” disse Kevin mentre si dirigevano verso la tavola calda. “È come se dovessi concentrarmi per dire al mio corpo cosa fare.”

Neanche quello era il modo giusto per spiegarlo, ma non era sicuro che ci fossero delle parole appropriate. Quella era una delle cose più difficili dell’avere una malattia rara: significava che non c’erano realmente parole per descrivere qualsiasi cosa stesse accadendo.

“Dovresti andare in ospedale,” disse Luna, e pareva che volesse chiamare un’ambulanza anche in quello stesso istante.

Kevin scosse la testa. “Non ha senso. Sappiamo cosa mi sta succedendo. Non è che possano fare molto per aiutare.”

“Non può essere vero,” disse Luna. Per un momento Kevin sentì la sua voce bloccarsi e pensò che potesse mettersi a piangere. “So… so che non possono curarti, ma possono dare una mano con i sintomi e il resto, giusto? Possono rallentare le cose? Era quello che stavano facendo alla NASA.”

“Perché avevano alcuni dei più intelligenti scienziati del mondo,” sottolineò Kevin. “Non penso che siano intenzionati ad aiutarmi adesso. E… se vado in ospedale adesso, penso che costerebbe troppo. Non penso che mia madre potesse realmente permettersi una cura per me neanche prima. Ora, con gli avvocati e la roba…”

Kevin non sapeva quanto potesse costare un processo. Un sacco, immaginava. Anche la sua cura costava un sacco. Quindi era come dire un sacco per due volte? Un sacco al quadrato? Non avendo idea degli importi, la sua immaginazione non poteva neanche mettersi a ipotizzarli.

“Ok,” disse Luna, “ma dovremmo almeno andare dentro. Coraggio, Frankie non è lontano.”

Entrarono nella tavola calda, che non era affollata a quell’ora del giorno. C’erano un paio di ragazzini che Kevin conosceva di vista, un paio di altri ragazzi più grandi in un angolo e il proprietario, un uomo sulla cinquantina che sembrava passare il più del tempo a pulire il bancone con uno straccio. Era un posto dall’aspetto appositamente vecchiotto, e questo avrebbe dovuto significare non di gradimento per gli amici di Kevin. Però avevano un gelato fantastico.

“Vado a prendere il gelato,” disse Luna indicando il bancone. “Tu resta seduto qui.”

La mise come un ordine, e Kevin obbedì. Ad ogni modo aveva bisogno di sedersi, e se questo significava che Luna avrebbe comprato il gelato, andava ancora meglio. C’era una TV accesa in un angolo del locale, e per un momento o due Kevin pensò che non fosse un problema. Poi arrivò il notiziario con le immagini delle scene attorno a casa sua.

 

Kevin fece del suo meglio per ignorarle, ma non era facile. Che fossero ancora sintonizzati su quel canale era in un certo senso sorprendente. Forse qualcuno ci credeva ancora, o magari non avevano ancora fatto zapping per vedere se facevano qualcos’altro. Lo stesso rimase seduto lì, ripiegato su se stesso. Era difficile pensare che solo poche settimane prima lui e Luna erano venuti qui regolarmente, che tutto era stato normale. Ora se ne stava seduto qui, e per quanto poteva dirne, stava solo aspettando di morire.

Quello era un pensiero che non voleva, ma gli entrava dentro quando non stava attento, sistemandosi nella sua mente e rifiutandosi di andarsene, per quanto lui tentasse di cacciarlo via. Stava per morire. Era stato capace di ignorare quel pensiero quando c’era stata tutta quella roba degli alieni, con i messaggi e il viaggio nella foresta pluviale. Ora non restava altro da fare che stare seduto lì e pensarci.

“Bene,” disse Luna tornando con due coppe piene di gelato fino all’orlo. “Hai un aspetto pietoso. Meglio che ti tiri un po’ su, altrimenti non avrai il tuo gelato.”

Solo Luna lo avrebbe potuto prendere in giro vedendolo in quelle condizioni. Solo Luna poteva sapere che era esattamente quello che serviva a Kevin.

“Stai solo cercando una scusa per mangiarteli tutti e due,” disse Kevin.

Luna sorrise. “Forse. Sei ancora fisso a pensare a come avresti potuto fare le cose in modo diverso?”

Kevin annuì. “Non so perché. Immagino… continuo a sperare che arrivi un senso.”

“La speranza è una buona cosa,” disse Luna. “Penso sia un bene che tu stia ancora ascoltando. Non dovresti arrenderti, neanche se la gente non ti crede.”

Kevin annuì. Aveva bisogno di questo. Aveva bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi, altrimenti…”

“Ehi, aspetta, tu sei Kevin McKenzie, vero? Il ragazzo che ha inventato tutta quella roba sugli alieni? Venivi alla nostra scuola.”

Kevin sollevò lo sguardo e vide che alcuni dei ragazzi stavano guardando dalla sua parte. Stava per dire loro che non voleva casini, ma Luna era già in piedi e stava andando verso di loro.

“Kevin non si è inventato nulla!”

“Ma certo che se l’è inventato,” disse un ragazzo. “Chi potrebbe essere tanto stupido da credere negli alieni?”

“Tu e un sacco di altra gente, a quanto pare,” rispose seccamente Luna.

“Mi stai dando dello stupido?”

Kevin si alzò per unirsi a lei. “Non vogliamo guai.”

“E allora perché l’hai fatto?” chiese una ragazza più indietro. “I miei genitori erano così preoccupati per gli alieni che stavano parlando di vendere la casa e trasferirsi in campagna.”

Ora c’erano altre persone che li fissavano, e altre al telefono. Kevin sapeva di non potersi far vedere lì a quel modo. Sua madre sarebbe andata fuori di testa. E poi aveva visto come potevano comportarsi i grossi gruppi di persone.

“Andiamo,” disse alzando le mani. “Non vogliamo causare problemi.”

“Tu non vai da nessuna parte,” disse il ragazzo che aveva parlato per primo. “Non fino a che non avrai ammesso quello che hai fatto.”

Rimase fermo con le braccia incrociate per far capire che stava parlando seriamente. Era quello il problema, perché più restavano lì e più gente sarebbe venuta a guardare. Luna sembrò pensare la stessa cosa e, essendo Luna, assunse un approccio più diretto al problema: andò dal ragazzo sulla soglia della porta e lo spinse. Forte.

“Corri, Kevin!”

Lei stava già correndo e a Kevin ci vollero un paio di secondi per rendersi conto che doveva fare lo stesso. Per quanto fosse stanco, si era sufficientemente riposato da poter passare oltre al ragazzo, seguendo Luna mentre correva in mezzo alla città. Corse più velocemente che poté, ignorando il modo in cui il suo fiato era ansimante e a scatti, cercando di tenere il passo mentre ripercorrevano la strada di prima, passando in mezzo alle fabbriche e al metallo arrugginito. Kevin corse fino a che gli parve di sentire il cuore sul punto di esplodergli nel petto, i polmoni che bruciavano.

Quando fu abbastanza ovvio che nessuno li stava seguendo, lui e Luna si fermarono, e con su sorpresa Kevin si trovò a ridere.

Anche Luna si mise a ridere. “È stato divertente.”

“Mia mamma mi ammazza,” specificò Kevin, ma in quel momento anche quella non sembrava una cosa poi tanto terribile. La verità era che si sentiva meglio di quanto si fosse sentito negli ultimi tempi. Sembrava essere passato tanto tempo da quando aveva fatto una cosa così semplice come mettersi nei guai insieme a Luna, scappando prima che le cose potessero peggiorare.

“Tua madre non dirà nulla,” disse Luna.

“Non ne sono tanto sicuro,” rispose Kevin, perché si sarebbe arrabbiata per la sua uscita, si sarebbe arrabbiata per il rischio di andare dove la gente potesse vederlo. “Quando torno a casa, dovrò…”

Si interruppe sentendo una sensazione che gli cresceva dentro. Una sensazione che conosceva fin troppo bene, perché l’aveva provata prima della struttura, prima della NASA, prima di tutto.

“Cosa c’è?” chiese Luna. “Cosa dovrai fare?”

Kevin scosse la testa. “Luna, penso…”

“Cosa?” chiese lei.

“Penso che ci sia un altro messaggio in arrivo.”