Soldato, Fratello, Stregone

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“Traditore!”

“Assassino!”

Calarono i fischi, seguiti da insulti e frutta lanciata dalla finestre, e quella fu la parte più dura. Tano aveva pensato che quella gente lo rispettasse, e che sapessero che non avrebbe mai fatto quello di cui lo accusavano, eppure inveivano contro di lui come fosse il peggiore dei criminali. Non tutti lo insultavano, ma erano in parecchi a farlo, e Tano si trovò a chiedersi se davvero lo odiassero così tanto, o se volessero solo mostrare al nuovo re e a sua madre da che parte stavano.

Lottò quando vennero a prenderlo, trascinandolo fuori dalla gabbia. Diede calci e pugni, si dimenò e cercò di liberarsi, ma qualsiasi cosa facesse non bastava. Le guardie gli presero le braccia, le girarono dietro alla schiena e gliele legarono. Tano smise di lottare allora, ma solo perché voleva avere un po’ di dignità in quel momento.

Lo condussero, passo dopo passo, al patibolo che avevano costruito. Tano salì senza dover essere spinto sullo sgabello che avevano sistemato sotto al cappio. Se fosse stato fortunato, magari la caduta gli avrebbe spezzato il collo, privandoli del resto del loro crudele sport.

Mentre gli mettevano il cappio attorno al collo si trovò a pensare a Ceres. A tutto ciò che sarebbe potuto essere diverso. Aveva voluto cambiare le cose. Aveva voluto che le cose andassero meglio, e aveva voluto stare con lei. Avrebbe voluto…

Ma non c’era tempo per i desideri, perché Tano sentì le guardie calciare via lo sgabello e il cappio stringersi attorno al suo collo.

CAPITOLO SEI

A Ceres non importava che il castello fosse l’ultimo impenetrabile bastione dell’Impero. Non le interessava che avesse pareti simili a ripide scogliere o porte capaci di sopportare le armi di un assedio. Tutto questo terminava qui.

“Avanti!” gridò ai suoi seguaci, e loro insorsero seguendo il suo esempio. Magari un altro generale avrebbe condotto dal retro, pianificando tutto con attenzione e lasciando che fossero gli altri a correre il rischio. Ceres non poteva farlo. Voleva fare a pezzi ciò che era rimasto del potere dell’Impero con le sue mani, e sospettava che metà del motivo per cui così tanta gente la stava seguendo fosse lo stesso.

Ora c’erano anche più persone di quante ce ne fossero state nell’arena. La gente della città era uscita nelle strade, la ribellione si era allargata di nuovo come braci ardenti nuovamente alimentate. C’erano persone vestite da mozzi e macellai, stallieri e mercanti. C’erano addirittura alcune guardie adesso, i colori imperiali strappati di fretta quando avevano visto l’ondata di gente che si avvicinava.

“Saranno pronti per il nostro arrivo,” disse uno dei combattenti accanto a Ceres mentre marciavano verso il castello.

Ceres scosse la testa. “Ci vedranno arrivare. Non è la stessa cosa che essere pronti.”

Nessuno poteva essere pronto per questo. A Ceres non poteva interessare quanti uomini avesse adesso l’Impero, o quanto forti fossero le loro pareti. Aveva un’intera città dalla sua parte. Lei e i combattenti correvano nelle strade, lungo la lunga via che portava ai cancelli del castello. Erano la punta della lancia, con la gente di Delo e ciò che era rimasto degli uomini di Lord West al seguito dietro di loro in una marea di speranza e rabbia popolare.

Ceres udì delle grida avanti mentre si avvicinavano al castello, e il suono di corni mentre i soldati cercavano di organizzare una qualche significativa difesa.

“È troppo tardi,” disse Ceres. “Non possono fermarci adesso.”

Eppure c’erano cose che potevano fare comunque, lo sapeva. Le frecce iniziarono a cadere dalle pareti, non tante quante quelle che avevano formato una pioggia mortale per le truppe di Lord West, ma pur sempre abbastanza pericolose per coloro che non avevano armatura. Ceres ne vide una colpire al petto un uomo accanto a lei. Un po’ più indietro una donna cadde gridando.

“Quelli che hanno scudo o protezione vengano a me,” gridò Ceres. “Tutti gli altri siano pronti all’attacco.”

Ma i cancelli del castello già si stavano chiudendo. Ceres ebbe la visione dei suoi seguaci come di un’onda che ci si schiantava contro, come contro lo scafo di una qualche grossa nave, ma non rallentò. Le onde potevano anche sommergere le navi. Anche quando i grandi cancelli sbatterono insieme con un suono simile al tuono, non si fermò. Sapeva solo che ci sarebbe voluto più sforzo per sconfiggere il male dell’Impero.

“Arrampicatevi!” gridò ai combattenti infilando le sue due spade nel fodero in modo da poter saltare sul muro. La pietra ruvida aveva abbastanza appigli per chiunque fosse abbastanza coraggioso da provarci, e i combattenti erano ben più che coraggiosi. La seguirono, le loro figure muscolose che tiravano verso l’alto lungo la parete come se fosse un ordinario esercizio di allenamento ordinato dal loro maestro d’armi.

Ceres udì quelli dietro di lei che chiedevano delle scale, e capì che la gente comune che faceva parte della ribellione li avrebbe presto seguiti. Per ora però si concentrò solo sulla granulosa sensazione della pietra sotto alle mani, sullo sforzo necessario per tirarsi da un appiglio all’altro.

Una lancia le passò accanto, ovviamente lanciata da qualcuno di sopra. Ceres si appiattì contro la parete lasciandola passare, poi continuò ad arrampicarsi. Fintanto che fosse rimasta sulla parete sarebbe stata un bersaglio, e l’unica soluzione era continuare ad avanzare. Ceres si trovò a sentirsi riconoscente che non avessero abbastanza tempo per preparare l’olio bollente o la sabbia incandescente come protezione contro la loro arrampicata.

Raggiunse la cima del muro e subito trovò una guardia pronta in difesa. Ceres era felice di essere la prima ad essere arrivata lassù, perché solo la sua velocità la salvò, permettendole di allungare le braccia e afferrare l’avversario tirandolo giù dal suo posto in cima al parapetto. L’uomo cadde con un grido, precipitando in mezzo alla furente massa dei suoi seguaci.

Ceres allora saltò sulla parete, sguainando entrambe le spade per tirare fendenti a destra e a sinistra. Un secondo uomo le si avventò contro e lei parò mentre lo spingeva, sentendo la lama che si conficcava. Una lancia arrivò di lato puntando alla sua parziale armatura. Ceres la respinse con forza brutale. Nel giro di pochi secondi si era tagliata uno spazio libero in cima alla parete, e i combattenti si riversarono oltre il varco.

Alcune delle guardie presenti cercarono di combattere per respingerli. Un uomo tentò di colpire Ceres con un’ascia. Lei si abbassò, udendo il tonfo mentre colpiva la pietra dietro di lei, poi gli piantò una delle sue spade nel ventre. Gli girò attorno, dandogli un calcio e gettandolo verso il cortile. Fermò un colpo con le lame e spinse indietro un altro uomo.

C’erano abbastanza uomini a protezione delle pareti. Alcuni fuggirono. Quelli che attaccarono, morirono. Uno corse incontro a Ceres con una lancia e lei lo sentì graffiarle la gamba mentre schivava senza spazio dove andare. Colpì in basso per azzoppare il suo aggressore e poi incrociò le lame all’altezza delle sua gola.

La sua breve strategia di ponte in cima alla parete rapidamente si espanse in qualcosa di simile a un’ondata frontale. Ceres trovò dei gradini che conducevano giù ai cancelli e li scese quattro alla volta, fermandosi solo per parare un colpo da una guardia che aspettava e ribattere con un calcio che mandò l’uomo a terra. Mentre il combattente dietro di lei saltava addosso alla guardia, l’attenzione di Ceres si spostò sui cancelli.

C’era una grossa ruota vicino ai cancelli, ovviamente lì per aprirli. C’erano almeno una dozzina di guardie attorno ad essa in cerchio, nel tentativo di proteggerla e tenere alla larga l’orda di gente di fuori. Altri stavano agli archi, pronti a colpire chiunque cercasse di aprire i cancelli.

Ceres corse verso la ruota senza esitare.

Colpì nel mezzo l’armatura di una guardia, tirò fuori la sua spada e si abbassò sotto al colpo di un altro. Fece ruotare la spada contro il suo polpaccio, saltò in piedi e ne colpì un terzo. Sentì una freccia colpire i sassi e tirò una lama sentendo le grida quando andò a segno. Rubò la spada di una guardia morente, si riunì alla battaglia e in un istante gli altri furono con lei.

Nei momenti successivi ci fu il caos, perché le guardie sembravano capire che quella era la loro ultima possibilità di tenere fuori la ribellione. Uno si presentò contro Ceres con due spade e lei lottò con lui colpo dopo colpo, sentendo l’impatto mentre parava ogni fendente, probabilmente più veloce di quanto la maggior parte degli altri potesse fare. Poi tirò fra i colpi prendendo la guardia alla gola e spostandosi in avanti prima che potesse collassare a terra, usandolo come scudo umano per parare il colpo di un’ascia diretto contro un combattente.

Non poteva salvarli tutti. Attorno a lei Ceres vedeva una violenza che sembrava non potersi mai fermare. Vide uno dei combattenti che era sopravvissuto all’arena che guardava una spada che gli trafiggeva il petto. Tirò verso il suo aggressore mentre cadeva, colpendolo con un ultimo colpo della sua lama. Ceres vide un altro uomo che lottava contro tre guardie. Ne uccise una, ma mentre lo faceva la sua lama rimase incastrata e un altro poté pugnalarlo al fianco.

Ceres si lanciò in avanti, abbattendo tutti quelli che erano rimasti. Attorno a lei la battaglia per la ruota che apriva la porta imperversò verso la sua inevitabile conclusione. Era inevitabile, perché di fronte ai combattenti le guardie apparivano come granturco maturo in attesa di essere mietuto. Questo però non rese certo la violenza meno reale, e neppure la minaccia. Ceres si abbassò giusto in tempo evitando un colpo di spada e tirò indietro l’aggressore in mezzo agli altri. Non appena lo spazio fu libero, Ceres mise le mani sulla ruota e spinse con tutta la forza datale dai suoi poteri. Sentì il cigolio delle carrucole e il lento scricchiolio delle porte che iniziavano ad aprirsi.

 

La gente si riversò all’interno inondando il castello. Suo padre e suo fratello furono tra i primi ad entrare e corsero ad unirsi a lei. Ceres fece cenno con la spada.

“Sparpagliatevi!” gridò. “Prendete il castello. Uccidete solo quelli che dovete uccidere. Questo è un momento di libertà, non di massacro. Oggi l’Impero cade!”

Ceres andò a capo dell’ondata di gente, dirigendosi verso la sala del trono. In tempi di crisi la gente sarebbe andata lì per cercare di capire cosa stesse succedendo, e Ceres immaginò che coloro che si occupavano del castello sarebbero rimasti fintanto che avessero osato, cercando di mantenere il controllo.

Attorno a lei vide la violenza che esplodeva, impossibile da contenere, impossibile da rallentare. Vide un giovane nobiluomo portarsi davanti a loro, e la folla gli andò addosso, colpendolo con qualsiasi arma potessero trovare. Una servitrice si mise in mezzo e Ceres la vide spinta contro il muro e pugnalata.

“No!” gridò Ceres vedendo alcune persone comuni che iniziavano ad afferrare la tappezzeria o a rincorrere i nobili. “Siamo qui per fermare tutto questo, non per fare razzia!”

Ma la verità era che era ormai troppo tardi. Ceres vide i ribelli rincorrere uno dei servitori, mentre altri afferravano gli ornamenti dorati che riempivano il castello. Aveva lasciato entrare là dentro un’ondata enorme, e ora non c’era speranza di farla tornare indietro solo con le parole.

Uno squadrone di guardie del corpo stava davanti alle porte del grande salone. Sembravano formidabili con le loro armature dorate, rigonfie in quella che appariva una finta muscolatura e decorate da immagini disegnate per intimidire.

“Arrendetevi e non vi faremo del male,” promise Ceres, sperando di poter mantenere la parola data.

Le guardie del corpo non si fermarono neanche. Si lanciarono in avanti con le spade sguainate e in un istante ci fu di nuovo il caos. Le guardie del corpo erano tra i migliori guerrieri dell’Impero, con abilità che derivavano da lunghe ore di allenamento. Il primo a lanciarsi in avanti fu abbastanza veloce che anche Ceres dovette portare la sua lama in alto abbastanza nettamente da intercettare il colpo.

Parò di nuovo e la sua seconda lama scivolò attorno a quella della guardia del corpo colpendo l’uomo alla gola. Accanto a lei poté udire i versi di gente che lottava e moriva, ma non osò guardarsi indietro. Era troppo impegnata a respingere un altro avversario, spingendolo nell’ondeggiante mischia.

Poi non ci furono altro che corpi che crollavano. Le spade sembravano emergere dalla massa come da una vorticante pozza di carne. Vide un uomo schiantato contro le porte, spinto lì dal peso della gente dietro di lui, proprio come spingevano lei in avanti.

Ceres aspettò fino a che non fu più vicina, poi diede un calcio alla porta della grande sala. I cancelli dei castello erano stati solidi, ma queste si aprirono di schianto sotto il potere del suo colpo, ruotando indietro fino a sbattere contro le pareti da entrambi i lati.

All’interno della grande sala Ceres vide gruppi di nobili che aspettavano come se insicuri su dove andare. Sentì diverse delle nobildonne che gridavano come se alcune orde di assassini fossero discesi su di loro. Da dove stavano Ceres immaginò che probabilmente non fosse poi tanto diverso dal solito.

Vide la regina Atena in mezzo al gruppo, seduta sull’alto trono che doveva essere stato del re, affiancata da un paio delle più robuste guardie del corpo lì presenti. Corsero in avanti all’unisono e Ceres avanzò per affrontarle.

Fece più che avanzare: rotolò.

Si lanciò in avanti tuffandosi sotto le lame che ruotavano, rimbalzando e rialzandosi con un fluido movimento. Si girò fendendo con entrambe le sue spade insieme e colpendo le guardie del corpo con tanta forza da perforare le loro armature. I due caddero senza emettere suono.

Un rumore riecheggiò al di sopra del fragore delle lame alla porta: la regina Atena che batteva le mani con deliberata lentezza.

“Oh, molto bene,” disse mentre Ceres si girava verso di le. “Molto elegante. Degna di ogni giullare. Quale sarà il tuo prossimo numero?”

Ceres non abboccò alla sua esca. Sapeva che ad Atena non erano rimaste altro che le parole. Ovviamente avrebbe cercato di trarne il massimo.

“Poi porterò l’Impero alla fine,” disse Ceres.

Vide la regina Atena fissarla con uno sguardo impassibile. “Con te al suo posto? Ecco che arriva il nuovo Impero, uguale al vecchio.”

Questo andò più a segno di quanto Ceres avesse voluto. Aveva udito le grida dei nobili mentre i ribelli con lei si erano sparpagliati come un incendio selvaggio nel castello. Aveva visto alcuni di quelli che avevano abbattuto.

“Io non sono per niente come te,” disse Ceres.

Per un momento la regina non rispose. Invece rise, e alcuni dei nobili si unirono a lei, ovviamente da lungo abituati a ridacchiare a comando quando la loro regina trovava divertente qualcosa. Altri sembravano fin troppo spaventati e si ritrassero.

Allora Ceres sentì la mano di suo padre sulla spalla. “Non sei per niente come loro.”

Ma non c’era tempo di pensare a questo, perché la folla attorno a Ceres stava diventando inquieta.

“Cosa facciamo con loro?” chiese uno dei combattenti.

Un ribelle diede una rapida risposta. “Uccidiamoli!”

“Uccidiamoli! Uccidiamoli!” divenne un canto e Ceres vide l’odio crescere in mezzo alla folla. Assomigliava fin troppo alle grida che c’erano state nell’arena, desiderose di sangue. Che chiedevano sangue.

Un uomo si fece avanti diretto verso una delle nobildonne con un coltello in mano. Ceres reagì di istinto e questa volta fu veloce abbastanza. Andò a colpire l’aspirante assassino e lo fece cadere in modo che potesse fissarla da terra scioccato.

“Basta così!” gridò Ceres e nella stanza calò per un momento il silenzio.

Si guardò attorno, facendoli vergognare e retrocedere, incontrando i loro sguardi senza riguardo per chi fossero.

“Niente più uccisioni,” disse. “Niente più.”

“E allora cosa ne facciamo?” chiese un ribelle indicando i nobili. Era ovviamente più coraggioso del resto, o magari semplicemente odiava di più i nobili.

“Li arrestiamo,” disse Ceres. “Papà, Sartes, potete occuparvene? Accertatevi che nessuno li uccida, né faccia male a qualcun altro.”

Poteva immaginare tutti i modi in cui sarebbe potuta andare storta. C’era così tanta rabbia tra le gente della città e tra tutti coloro che avevano subito torti dall’Impero. Sarebbe stato facile che questo si trasformasse in qualche sorta di massacro nello stile di Lucio, con gli orrori in cui Ceres non avrebbe mai voluto trovarsi coinvolta.

“E tu cosa farai?” chiese Sartes.

Ceres poteva capire la paura che sentiva in questo. Suo fratello aveva probabilmente pensato che lei sarebbe stata lì per organizzare tutto, ma la verità era che non c’era nessuno più di lui di cui Ceres si fidasse.

“Devo finire di conquistare il castello,” disse Ceres. “A modo mio.”

“Sì,” disse la regina Atena intromettendosi. “Impregna le tue mani di altro sangue. Quante persone sono morte fino ad ora per i tuoi cosiddetti ideali?”

Ceres avrebbe potuto ignorarla. Sarebbe potuto andare via e basta, ma c’era qualcosa della regina che semplicemente era impossibile tralasciare, come una ferita non ancora del tutto guarita.

“Quanti sono morti così che tu potessi prendere loro quello che volevi?” ribatté Ceres. “Hai fatto così tanto per fare a pezzi la ribellione, quando avresti potuto semplicemente ascoltare e imparare qualcosa. Hai fatto del male a tantissime persone. E la pagherai cara.”

Vide il sorriso teso della regina. “Senza dubbio con la mia testa.”

Ceres la ignorò e fece per andarsene.

“Eppure,” disse la regina Atena. “Non sarò sola. È troppo tardi per Tano, cara.”

“Tano?” disse Ceres, e la parola bastò a farla fermare. Si girò verso il trono dove la regina Atena ancora sedeva. “Cos’hai fatto? Dov’è?”

Vide il sorriso della regina allargarsi. “Davvero non lo sai, eh?”

Ceres poteva sentire la rabbia e l’impazienza che salivano. Non per il modo in cui la regina si stava prendendo gioco di lei, ma per ciò che sarebbe potuto significare se Tano fosse stato veramente in pericolo.

La regina rise ancora. Questa volta nessuno la imitò. “Hai fatto tutta la strada fino a qui, e non sai neanche che il tuo principe preferito sta per morire per aver assassinato il suo re.”

“Tano non avrebbe mai assassinato nessuno!” insistette Ceres.

Non sapeva perché doveva dirlo. Sicuramente nessuno credeva veramente che Tano potesse mai fare qualcosa del genere!

“Eppure morirà per questo,” rispose la regina Atena, con una nota di calma che fece correre Ceres verso di lei e puntarle la lama alla gola.

In quel momento tutti i pensieri di fermare la violenza caddero dimenticati nella sua mente.

“Dove si trova?” chiese “Dove si trova?”

Vide la regina impallidire e ci fu una parte di Ceres felice di questo. La regina Atena meritava di avere paura.

“Il cortile meridionale, è lì in attesa della sua esecuzione. Vedi, non sei diversa da noi.”

Ceres la trascinò giù dal trono. “Qualcuno la prenda prima che faccia qualcosa di cui potrei pentirmi.”

Ceres corse fuori dalla sala, facendosi strada in mezzo ai combattimenti che la circondavano. Dietro di sé sentì la regina Atena che rideva.

“Sei arrivata troppo tardi! Non arriverai mai in tempo per salvarlo.”

CAPITOLO SETTE

Stefania stava seduta guardando l’orizzonte, facendo del suo meglio per ignorare i sussulti della barca e cercando di giudicare il momento giusto per uccidere il capitano.

Che dovesse farlo non era da mettere in dubbio. Felene era stata come un dono dagli dei quando Stefania e la sua damigella l’avevano incontrata a Delo. Felene era stata il mezzo per uscire dalla città, e un mezzo per raggiungere Cadipolvere. E tutto datole da Tano stesso.

Ma dato che era di Tano, doveva morire. Il solo fatto che gli fosse così leale da portarle tanto distante significava che era troppo leale per fidarsi di tutto ciò che Stefania intendeva fare poi. L’unica questione ora era il tempismo.

Quella era un’azione da bilanciare. Stefania sollevò lo sguardo e vide gli uccelli di mare che volavano sopra le loro teste.

“Sono un segno che ci stiamo avvicinando a riva, no?” chiese.

“Molto bene, principessa,” disse Felene spostandosi da dove si trovava e cercando di spiegare ad Elethe come pescare e standole leggermente più vicino di quanto fosse necessario. La familiarità del suo tono fece venire la pelle d’oca a Stefania, ma lei fece del suo meglio per mascherarlo.

“Quindi saremo presto arrivate?”

“Ancora un po’ e vedremo la terraferma,” disse Felene. “Un altro attimo dopo quello e raggiungeremo il villaggio di pescatori dove Elethe dice che troveremo la gente di suo zio. Perché? Felice di smettere di vomitare?”

“Felice di fare un sacco di cose,” rispose Stefania. Anche se rimettere finalmente i piedi a terra era una di quelle. Le nausee della mattina non andavano perfettamente a braccetto con il mal di mare.

Era solo uno dei motivi per cui aveva bisogno di uccidere Felene il prima possibile. Prima o poi si sarebbe resa conto che Stefania era incinta, e questo non calzava con la storia che le aveva raccontato di Lucio che l’aveva costretta a bere la pozione.

Quando l’avrebbe capito? Non sarebbe potuto essere più ovvio ora a Stefania che era incinta, il vestito che le stava teso sulla pancia sempre più larga, il corpo che sembrava cambiare in così tanti modi mentre quella vita cresceva dentro di lei. Si mise automaticamente una mano sull’addome con l’intento di proteggere la vita dentro di lei, volendo che crescesse e diventasse forte. Ma Felene continuava a trascorrere il suo tempo con Elethe, così distratta dal suo bel viso.

Quella era un’altra cosa da considerare nel pensare a come agire. Stefania doveva lasciar passare il tempo sufficiente da permettere loro di arrivare abbastanza vicini alla terra, ma più il tempo passava e più c’era il pericolo che la lealtà della sua damigella venisse messa alla prova. Per quanto Felene fosse utile, Elethe lo sarebbe stata ancora di più nell’aiutarla a trovare lo stregone. E poi la damigella era sua.

 

Ma per ora Stefania aspettava, perché non voleva dover guidare quella bagnarola quando ancora non c’era terraferma in vista. Aspettava e guardava mentre Felene aiutava la sua damigella a tirare su un grosso pesce, decapitandolo con un coltello dall’aspetto molto affilato. Solo il fatto che la guardasse mentre lo faceva le fece capire che il suo tempo stava per scadere.

I pensieri del motivo per cui si trovava lì spinsero Stefania ad agire, rinsaldando la sua risoluzione. Cadipolvere ospitava lo stregone che aveva ucciso gli Antichi. Cadipolvere le avrebbe fornito un modo per eliminare Ceres. Dopodiché… dopodiché avrebbe potuto occuparsi di Tano, facendo di suo figlio l’arma di cui aveva bisogno.

“Non doveva andare così,” disse Stefania, alzandosi in modo da poter guardare oltre il parapetto.

“Cosa c’è, principessa?” chiese Felene.

“Ho detto, è terra quella laggiù?” chiese Stefania.

Lo era, la polvere nera della costa che si ergeva all’orizzonte. All’inizio apparve solo come una debole linea tra le onde, che si sollevava come una specie di sole di roccia, ma poi iniziò a riempire lo sguardo di Stefania.

“Ehi,” disse Felene portandosi al parapetto e guardando in fuori. “Presto sarete al sicuro sane e salve sulla terraferma, principessa.”

Stefania affondò la mano nel suo mantello. Con infinita cura, nota solo a coloro che lavoravano con i veleni, afferrò un dardo. “Felene, c’è una cosa che volevo dirti da quando siamo partite.”

“Cosa, principessa?” chiese Felene con un sorrisino di scherno.

“È semplice,” rispose Stefania sorridendo a sua volta. “Non chiamarmi principessa!”

La sua mano scattò, il dardo scintillò alla luce del sole portandosi verso la pelle scoperta del volto di Felene.

Il dolore le si sprigionò nel polso e ci volle a Stefania un momento per rendersi conto che Felene aveva sollevato il gomito e lei ci era andata a sbattere contro con il braccio. La mano di Stefania si aprì in uno spasmo e il dardo rimbalzò a terra.

E poi il dolore si propagò alla guancia quando Felene la schiaffeggiò, abbastanza forte da farla quasi ruotare. Non era il delicato e femmineo schiaffetto di una nobildonna. Era il colpo dato da un marinaio e c’era del peso in esso, tanto che Stefania si sedette pesantemente sulle tavole del ponte.

“Pensi che sia stupida?” chiese Felene. “Pensi che non sappia che lavori a questa cosa da quando siamo partite?”

“Io…” iniziò Stefania, ma il ronzio nelle orecchie non le permise di andare avanti.

“Sei fortunata che porti in grembo il figlio di Tano, o adesso ti darei direttamente in pasto agli squali!” disse Felene seccamente. “Oh sì, ho visto i segni! E ora sono dibattuta se venderti a un mercante di schiavi, ucciderti non appena il figlio di Tano sarà nato o semplicemente dire che l’intera faccenda è stata un cattivo affare e tornare subito a Delo!”

Stefania fece per alzarsi in piedi e Felene la spinse di nuovo giù. “Oh no, principessa, puoi startene dove sei. È più sicuro per tutti noi così, fino a che non troverò un pezzo di fune per legarti all’albero maestro.”

Allora Stefania guardò oltre, verso Elethe. Le diede un minimissimo cenno, sperando che bastasse.

Bastò. La damigella sguainò una lama corta e curva e si lanciò in avanti. Sembrava che Felene fosse pronta anche per quello però, perché si girò e parò il primo colpo con il suo pugnale già pronto in mano.

“Peccato,” disse Felene. “Avremmo potuto divertirci un sacco. Sono sopravvissuta all’Isola dei Prigionieri. Pensate che non possa gestire voi due?”

Stefania dovette sedersi ad ammirare il combattimento che seguì per un momento, e non solo perché la testa le stava ancora girando per lo schiaffo di Felene. Normalmente non aveva tempo per i giochi di lame, o per le attente abilità dei guerrieri. Quelle due però facevano danzare i loro coltelli alla luce del sole mentre si muovevano, con le mani che afferravano a vicenda le braccia dell’altra, alla ricerca dei giusti angoli. Stefania vide Felene scegliere un calcio basso, e poi schivare un colpo. Si portò vicino ad Elethe, lottando con lei mentre entrambe cercavano di conficcare le loro armi al posto giusto.

Fu a quel punto che Stefania si alzò in piedi, sguainò il suo coltello e lo piantò nella schiena di Felene.

Stefania la vide cadere in ginocchio, il volto colto dalla sorpresa mentre metteva una mano sulla ferita. Il suo coltello cadde sul ponte mentre le sue dita si aprivano.

“Non sono per niente stata sull’Isola dei Prigionieri,” disse Stefania. “Quale di noi è più furba?”

Felene si girò verso di lei, ma Stefania vide che anche quello le costava fatica. Sorrise ad Elethe.

“Ben fatto. La tua lealtà verrà ripagata. Ora dovremmo tagliarle la gola e gettarla fuori bordo. Non possiamo mostrarci a Cadipolvere trascinando con noi un corpo, e poi è finita, sono sicura che vorrai vendicarti.”

Stefania vide Elethe esitare prima di annuire, ma era qualcosa che poteva aspettarsi. Nessuno poteva essere pratico quanto lei in cose del genere. Stefania poteva capirlo, ed Elethe aveva già più che dato prova della sua lealtà. Forse l’avrebbe fatto da sé. Dopotutto Felene non era più armata.

Stefania fece un passo avanti.

“Fino a che non mi hai colpito, non è stato niente di personale,” disse. “Semplicemente era necessario. Ora… sai che c’è un veleno che usano in alcune terre del sud e che uccide irrigidendo i muscoli? Nella giusta dose non uccide, ma paralizza. Meglio che te lo dia prima di gettarti in acqua?”

Fece un altro passo e vide Felene alzarsi in piedi a fatica. Non importava: con l’aiuto di Elethe sarebbe stato facile dominarla di nuovo.

“No, ti devo più di questo per averci portato fino a qui. La gola tagliata è la cosa migliore.”

Vide Felene irrigidirsi, come se fosse pronta a lanciarsi in un ultimo scatto di violenza. Stefania si preparò, tirandosi indietro mentre preparava l’ultimo scatto violento.

In quel momento la donna fece l’unica cosa per cui Stefania non era pronta. Si lanciò di lato, oltre il parapetto della barca. Stefania udì il tonfo in acqua e vide la schiuma delle onde alzarsi abbastanza da schizzare sul ponte.

Stefania corse al parapetto ed Elethe fu subito accanto a lei, guardando con un’espressione di preoccupazione che rese Stefania felice di non averle dopotutto tagliato la gola, perché questo avrebbe potuto spingere la sua damigella un po’ troppo oltre.

“So che è dura,” disse Stefania, mettendo una mano sulla spalla di Elethe. “Ma a volte sono cose da fare. E tu hai fatto bene. Sono orgogliosa di te.”

“E Felene?” chiese la damigella. “Pensi che dovremmo aspettare e vedere se sopravvivrà?”

C’era una nota di speranza che Stefania dovette spazzare via rapidamente. “L’hai sentita dire anche tu che ci sono squali. La ferita era profonda, e manca molto per arrivare a terra. È finita.”

Vide la damigella annuire.

“Ben fatto Elethe,” rispose Stefania. “Sei stata la più leale tra tutte le mie dame.”

Doveva ricordare alla sua damigella a chi apparteneva, c’erano preoccupazioni più urgenti.

“Abbiamo sempre bisogno di portare questa barca a riva,” disse Stefania. “E poi dobbiamo trovare lo stregone.”

“Ho imparato molto su come si guida una barca nel tempo trascorso in mare,” la rassicurò Elethe. “Felene era felice di farmi vedere.”

Quello probabilmente non era stato tutto, ma ora era finita. La marinaia era morta. Erano quasi arrivate a Cadipolvere e dopotutto era solo questione di tempo prima che trovassero lo stregone.

Finalmente le cose stavano andando per il verso giusto, soprattutto dato che la sua damigella sembrava sapere come manovrare la barca adesso, guidandola senza errori verso la terraferma. Tutto quello che Stefania doveva fare era stare seduta a poppa, lasciando che Elethe facesse il suo dovere.

Olete lõpetanud tasuta lõigu lugemise. Kas soovite edasi lugeda?