Solo chi è coraggioso

Tekst
Loe katkendit
Märgi loetuks
Kuidas lugeda raamatut pärast ostmist
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

CAPITOLO SEI

Genevieve camminava furtivamente nel castello alle prime luci del giorno, timorosa a ogni passo, sapendo che stava correndo un rischio solo a fare quella parte. Se Altfor si fosse accorto che era lì, allora si sarebbe trovata in pericolo anche se era incinta, ma lui aveva lasciato le loro stanze prima di lei, e Genevieve immaginava che si trovasse da qualche parte con Moira.

“La ucciderò,” disse, anche se sapeva bene che avrebbe avuto difficoltà a uccidere chiunque. Ne aveva già avuto la prova con Altfor, quando si era trovava incapace di piantargli un coltello in corpo pur avendone l’occasione.

“Troverò qualcosa,” promise a se stessa, nello stesso modo in cui lo aveva promesso quando si era trattato di Altfor. Se non poteva farlo direttamente, allora avrebbe contribuito ad eliminarli indirettamente, e poi si sarebbe accertata che venissero giustiziati per i loro crimini. Se lo meritavano.

Odiava Moira, se possibile, ancora più di Altfor. Altfor non aveva mai finto di essere suo amico: l’aveva solo tradita in modi che Genevieve si era aspettata da lui. Moira si era trovata quasi nella sua medesima posizione, sposata a un altro dei figli del duca e immersa in un mondo di cui non avrebbe mai dovuto essere parte. Avrebbe dovuto essere un’alleata di Genevieve, una sua amica. Invece era andata da Altfor, e l’aveva tradita. E aveva fatto anche di peggio quando aveva consegnato Garet ai soldati del re.

Almeno Genevieve poteva iniziare dal risolvere questo.

Continuò a camminare, muovendosi con cautela da un nascondiglio all’altro, cercando di farsi vedere come se stesse sbrigando delle faccende, affari legittimi. Muoversi di soppiatto non aveva senso in un edificio pronto alla guerra, dove c’erano in giro troppe persone e troppa paura di spie per poter mai sperare di nascondersi del tutto. Il meglio che Genevieve poteva sperare era che la gente credesse che lei stava facendo qualcosa che doveva fare.

Si avvicinò alle prigioni, sapendo che il suo tragitto attraverso la fortezza era stata la parte più facile. La gente poteva immaginare un sacco di ragioni per cui lei si potesse trovare in quasi ogni parte del castello, e in ogni caso nessuno avrebbe osato mettere in questione la nobile moglie del nuovo amico del re. Ma Genevieve dubitava che una cosa del genere avrebbe funzionato nelle prigioni.

Ora si trovava di fronte all’ingresso, dove una robusta guardia stava seduta su uno sgabello, le chiavi alla cintura e la spada al fianco. Genevieve aveva bisogno di un modo per far allontanare l’uomo dalla porta, e in quel momento non le veniva in mente nulla. Cosa avrebbe fatto spostare un uomo che aveva ordine di restare al suo posto?

La risposta era niente. Non c’era nessuna sottigliezza per poter ottenere il risultato desiderato, nessun modo di distrarre la guardia e scivolare dentro senza essere vista. L’unica opzione era quella diretta, e se Genevieve avesse scelto quella, quello che sarebbe successo poi sarebbe stato ovvio. Non c’era modo che lei potesse restare lì. Genevieve era davvero pronta ad abbandonare tutto e scappare, quando poteva esserci ancora qualche possibilità di scoprire altri dettagli che potessero essere di aiuto per vincere la guerra?

“E cosa succederà a Garet se aspetto?” chiese a se stessa. Poteva già immaginare la risposta. Aveva visto quello che il re faceva a coloro che gli si opponevano, e non aveva dubbio che intendesse quello che diceva quando parlava di tortura. Doveva far uscire il fratello di Royce da lì, anche se questo le impediva poi di restare.

Magari sarebbe anche stato a suo vantaggio. Genevieve avrebbe potuto tornare verso l’esercito di Royce se avesse avuto Garet con lei. Sarebbe stato una prova che lei stava dalla loro parte, e Royce finalmente avrebbe creduto alla verità.

“Lo sto facendo davvero,” disse fra sé e sé, e poi avanzò fino alla guardia presso la porta della prigione. L’uomo la guardò con la lenta pigrizia di chi non ha alcuna intenzione di muoversi.

“Cosa vuoi?” le chiese.

“Cosa vuole, mia signora,” lo corresse Genevieve, adottando la voce più arrogante che poteva. “O pensi forse che siamo allo stesso livello?”

Era facile pensare a come farlo: immaginò semplicemente il modo in cui Altfor l’avrebbe detto. Fu sufficiente a far sgranare gli occhi della guardia per la paura, o almeno per lo shock.

“No, mia signora. Mi perdoni, mia signora.”

“Stai zitto e aprimi la porta,” disse Genevieve. “Sono qui per vedere uno dei prigionieri.”

“Mi spiace, mia signora,” disse la guardia. “Ma non mi è concesso di far accedere nessuno alle celle. Non senza prima il permesso di…”

“Del re?” si intromise Genevieve. Gli mostrò il sorriso più malvagio che le riuscì. “Il re, con cui ho parlato più volte io negli ultimi giorni che tu in tutta la tua vita?”

“Mia signora,” disse l’uomo. Si alzò in piedi, ma ad ogni modo esitò.

“Voglio parlare con uno dei prigionieri,” disse Genevieve. “Quello nuovo, Garet. Tutto qua. Non intendo intrattenermi con nessuna tortura, né chiedere che lo porti al cancello per liberarlo. Voglio parlare con lui. Mi conosce, e mi dirà più di quanto potrebbe mai dire a chiunque altro. Pensi che il re vorrà sentirsi raccontare che hai impedito un’azione che potrebbe farci guadagnare informazioni?”

Ora Genevieve poteva vedere la paura sul volto dell’uomo. C’era una specie di potere in ciò, e nelle cose che era impossibile fare solo con le parole. Ora l’uomo si mosse rapidamente, correndo alla porta, aprendo la serratura con la chiave, poi con un’altra, sollevando la sbarra prima di scostare l’uscio e rivelare l’oscurità che si trovava al di là. C’era una candela fissata alla parete vicino alla porta. La guardia la sollevò e la offrì a Genevieve. Genevieve la prese, muovendosi vicino all’uomo, tanto vicina da poter sentire il suo alito rancido.

Tanto vicina da poter afferrare le sue chiavi.

“Cosa…”

“Dovrò entrare nella cella con lui,” gli disse quando l’uomo notò quello che aveva fatto. “Uscirò da sola quando avrò finito. A meno che tu non abbia delle obiezioni?”

Era ovvio che aveva un sacco di obiezioni, ma non osava darvi voce.

“Si trova nella cella in fondo, mia signora.”

Genevieve gli passò accanto prima che potesse avere il coraggio di dire qualcosa. Si inoltrò nelle profondità delle prigioni, muovendosi rapidamente, sapendo che avrebbe avuto solo un certo tempo limitato prima che la guardia si rendesse conto che sarebbe stato meglio controllare se le era davvero permesso di entrare là sotto. A un certo punto, avrebbe pensato di chiederlo al re – probabilmente già lo voleva fare – e Genevieve poteva solo sperare che sarebbe passato sufficiente tempo prima che l’uomo potesse raccogliere il coraggio di abbandonare la sua postazione.

Genevieve avanzava nelle prigioni, seguendo una contorta serie di scale che in certi punti erano scivolose perché ricoperte di muffa. Era certa di sentire il gocciolio dell’acqua da qualche parte lì vicino. Poteva sentire anche dell’altro: c’erano grida che venivano da qualche parte più in profondità, e lei voleva solo sperare che non fossero le grida di Garet.

Non riusciva a vedere nulla oltre al piccolo cerchio di luce che le offriva la candela. Era un’illuminazione cupa e intermittente, che le permetteva di vedere solo pochi metri del corridoio di pietra in entrambe le direzioni. C’erano porte su entrambi i lati, di legno e con sbarre di ferro disposte ad altezza degli occhi in modo che il carceriere potesse controllare i prigionieri.

Probabilmente c’erano prigionieri in molte delle celle, e una parte di Genevieve desiderava poterli liberare tutti, ma sapeva che non c’era modo di farlo. Poteva. Poteva far sgattaiolare fuori Garet, soprattutto se poi fosse riuscita a trovare un posto dove nascondersi con lui fino al ritorno della messaggera di sua sorella. Non c’era modo di poter far uscire di lì una processione di prigionieri, però.

Camminò fino all’ultima cella, riconoscente di non dover guardare in ciascuna di esse per tentare di trovare Garet. Genevieve non era sicura di poter impedire che le si spezzasse il cuore se avesse visto ogni persona che avevano catturato e torturato.

Raggiunse l’ultima cella e sollevò la candela per guardare attraverso il buco. La luce non era sufficiente a vedere chiaramente le cose, ma Genevieve poté distinguere una figura, poco più illuminata dalla luce che proveniva da una stretta finestrella. La persona se ne stava rannicchiata e mezza avvolta in un mantello. Poteva benissimo essere Garet, e questo bastò a farle fiorire la speranza in cuore.

“Garet?” lo chiamò lei. “Garet, sono Genevieve.”

Lui non rispose, ma poi, lui e i suoi fratelli non avevano voluto parlarle neanche quando era andata da loro al castello del vecchio duca. Pensavano che li avesse traditi, tradendo anche Royce. Garet probabilmente pensava volesse aiutare Altfor.

“Garet, ti prego, parlami. Ti posso aiutare.”

Genevieve rovistò tra le chiavi che aveva preso alla guardia. Le ci vollero diversi tentativi per trovare quella giusta, e sentire lo scatto della serratura che si apriva. Genevieve entrò nella cella, sperando che Garet vedesse che era sola, sperando che fosse propenso a tentare una fuga, anche se non credeva che lei fosse lì per aiutarlo.

“Garet, so che pensi che stia aiutando Altfor, ma non è così,” disse Genevieve. “Sono qui per aiutare te. Sono qui per aiutarti a scappare.”

Ancora nessuna risposta dalla figura rannicchiata nell’angolo. Genevieve si trovò a sperare che non fosse per quello che avevano fatto a Garet là sotto, che non lo avessero torturato al punto che lui non poteva parlarle.

 

“Garet, ti prego,” disse Genevieve. “Sono dalla tua parte. Voglio tirarti fuori da qui. So che tante cose che ho fatto mi fanno apparire dalla parte di Altfor, ma ti posso promettere che le ho fatte tutte perché amo Royce. Gli ho mandato dei messaggi, dicendogli dei piani di Altfor. Sai che programma di fare un finto attacco dal sud e che manderà invece delle navi da nord?

“Sì,” disse la figura, e quelle parole furono sufficienti per farle gelare il sangue nelle vene. Conosceva quella voce, e non era quella di Garet.

La figura si alzò in piedi, lasciando cadere il mantello a terra. Lì davanti a lei, illuminato a metà, si trovava Altfor, il suo sorriso reso ancora più crudele dal bagliore della candela.

“Immaginavo che avresti fatto una cosa del genere,” disse, avanzando verso di lei. Genevieve era talmente stupefatta che neanche reagì quando lui le strappò le chiavi di mano. “Immaginavo che la presenza del ragazzo ti avrebbe indotta a uscire allo scoperto, dandomi la scusa per fare quello che desidero.”

Genevieve sapeva di cosa la stava minacciando, e subito la sua mente andò all’unica protezione che sapeva di possedere. “Sono tua moglie.”

“Una moglie che ama il mio nemico!” gridò Altfor. “E anche un traditore. Essere una nobildonna non ti proteggerà adesso.”

“Sono incinta di tuo figlio,” sottolineò Genevieve.

“Sì,” disse Altfor. “È vero.”

Le passò accanto e si diresse alla porta, attraversandola e sparendo prima che Genevieve potesse reagire. Il suo volto apparì attraverso il foro nella porta.

“Deciderò cosa fare con te,” disse. “Magari aspetterò fino a che avrai mio figlio in grembo e poi ti farò giustiziare. O magari no. Ma stai certa, Genevieve, che morirai per questo.”

CAPITOLO SETTE

Mentre navigavano, Royce era consapevole del senso di speranza che aleggiava sulla barca. Avevano trovato suo padre, lo specchio stava nella sua borsa sul fondo dell’imbarcazione e ora erano diretti verso casa. Avevano davvero fatto quello che avevano programmato di fare, nonostante tutte le sfide che si erano trovati davanti sulle Sette Isole. Se erano riusciti a fare questo, probabilmente sarebbero riusciti a completare anche tutto il resto.

“È davvero il re,” sussurrò Mark, guardando verso il punto in cui si trovava seduto il padre di Royce, intento a osservare le onde. Il ragazzo sembrava stupefatto e attento a seguire ogni singola mossa di re Filippo, come se fosse in attesa di istruzioni da parte sua.

“Ed è anche mio padre,” disse Royce. Per quanto lo riguardava, quella era la cosa più importante.

“Tuo padre, il re,” confermò Mark. “Mi spiace, so come suona, e hai fatto un sacco di cose impressionanti anche tu, ma te ti conosco.”

“E con il tempo conoscerai anche mio padre,” disse Royce. Lui stesso voleva conoscere meglio suo padre. Dopo tutto quel tempo divisi, avevano tantissime cose da recuperare. Royce voleva sapere tutto ciò che suo padre aveva fatto da quando se n’era andato, e voleva capire di più che genere di uomo era.”

Iniziò ad avanzare, andando verso il punto in cui sedeva suo padre. Questo significava passare accanto a Matilde e Neave che stavano appollaiate nel mezzo. Le due sembravano discutere su una qualche storia che riguardava le imprese di suo padre.

“Te lo dico io,” disse Matilde. “Era un grande eroe. Ha lottato contro i nobili.”

“Era un nobile,” ribatté Neave. “E poi ha perso contro i nobili.”

“Ha combattuto contro dei mostri.”

“Anche noi abbiamo combattuto contro dei mostri,” sottolineò Neave.

“Ha dato la caccia ai banditi per tenere le strade sicure.”

“Alcuni di loro erano Picti.”

“È questo il problema? Non ti piace perché ha combattuto contro i Picti? Perché pure io ho combattuto contro i Picti. Ti ho battuta, ricordatelo.”

“Va tutto bene?” chiese Royce, prima che la discussione potesse decollare e andare oltre. Era sempre difficile dire se quelle due stessero davvero discutendo o meno.

“Neave non pensa che tuo padre sia qualcuno che vale la pena di seguire,” disse Matilde.

Neave scosse la testa. “Sei tu quella che pensa che dovremmo seguirlo alla cieca, senza pensare.”

“Neave?” disse Royce accigliandosi. La ragazza Picti aveva qualche genere di problema con il ritorno di suo padre?

“Sono felice che l’abbiamo trovato,” disse lei, “e so che ci tornerà utile nelle battaglie che ci saranno, ma Mark e Matilde lo stanno guardando come… è quasi il modo in cui guardavamo Lethe. Niente discussioni, nessuno pensiero: solo meraviglia.”

“Perché abbiamo ritrovato il re legittimo!” insistette Matilde. “Cosa vuoi di più? Pensavo che i Picti seguissero sempre coloro che davano mostra dei giusti segni magici.”

“Coloro che possono far cantare le pietre e che sanno manovrare la vecchia magia hanno tutto il nostro rispetto,” confermò Neave. “Ma non li seguiamo alla cieca. A volte c’è qualcuno che deve fare da guida, ma ciò non vuol dire che noi ci andiamo dietro senza pensarci, senza decidere con le nostre teste cosa sia giusto.”

“Il ritorno di mio padre porterà dei problemi tra i Picti?” le chiese Royce.

“Non lo so,” ammise Neave. “È un uomo che ha fatto un sacco di cose impressionanti, ma è stato anche quello che ha lasciato il regno nelle mani di re Carris e dei suoi nobili. Avrebbe potuto restituirci il nostro posto nel mondo e non l’ha fatto. Avrebbe potuto fare di più.”

“Magari questa volta lo farà,” suggerì Royce.

“Forse,” disse Neave. “In ogni caso, continuerò a seguire te. Ho sentito che tu fai cantare le pietre, almeno, e mi hai mostrato che sei una persona che fa le cose giuste, Royce.”

Royce provò un certo orgoglio davanti a quelle parole. Era riconoscente della fiducia di Neave dopo tutto quello che avevano passato. Dopotutto forse era un bene che ci fosse qualcuno di meno ammaliato rispetto a Mark e Matilde, perché così le cose sarebbero rimaste sotto controllo, aiutandoli ad assicurarsi di seguire la strada giusta e per i giusti motivi.

Intanto si accontentò di proseguire lungo la barca, portandosi al punto dove suo padre stava seduto, intento a guardare davanti a loro, insieme al bhargir Gwylim che gli stava accanto. Sembrava quasi che suo padre stesse discutendo qualcosa con la bestia, con la testa di Gwylim che si muoveva come in segni di assenso man mano che l’uomo parlava.

“Se potrò farti tornare ciò che eri, lo farò,” diceva suo padre. “Ma devi anche conoscere i pericoli delle cose che verranno. Senza la tua pelle, potrai anche essere in trappola ma sei pur sempre potente.

“Padre?” disse Royce, avvicinandosi di più.

Suo padre si voltò e gli sorrise. “È bello sentire che mi chiami così. Stavo giusto discutendo i piani con il nostro amico qui.”

“E pensi che abbia capito ogni cosa?” chiese Royce. Gli sembrava davvero strano parlare con un essere che assomigliava a un lupo.

“Sai cos’è un bhargir, Royce?” chiese suo padre. “Un uomo che ha potuto assumere le sembianze di una bestia imbevuta di magia e diventare essa. Una cosa antica, e potente. Una creatura come lui può guarire le proprie ferite, può combattere contro gli avversari più feroci e poi tornare al campo col corpo dell’uomo che era un tempo. Solo che questo non può.”

Royce annuì. Lo capiva. Ad ogni modo era comunque difficile a volte pensare a Gwylim come alla creatura che sembrava essere.

“Hai compagni strani e potenti,” disse suo padre, indicando la figura di Bragia, che disegnava cerchi in volo. “Dovrai presto parlare con la tua strega, perché vorrei sapere cosa pensa di fare adesso. Per quanto riguarda me… posso prendere in prestito la tua spada per un po’?”

“È tua, se la vuoi,” disse Royce. Prese la spada ossidiana dalla cintura e la porse quasi con riverenza.

Suo padre scosse la testa. “Non per tenerla. Vivere da solo così a lungo mi ha insegnato delle abilità, e penso di poter migliorare questa lama.”

“Migliorare?” chiese Royce.

“Un guerriero dovrebbe avere una buona spada,” disse suo padre. “Vai, parla con la tua strega. Io qui farò quello che posso.”

Royce avrebbe voluto dire a suo padre che non era così facile, che Lori si presentava a parlargli solo raramente, quando voleva lei. Suo padre sembrava così sicuro, però, che Royce dispiegò i propri sensi verso Bragia, chiamando Lori.

Ebbe l’immagine di uno spazio aperto, in mezzo a un gruppo di antiche rocce. C’era un fuoco acceso nel centro, che ardeva lentamente alimentato da torba, ma anche da qualcos’altro che donava alle fiamme laterali delle sfumature verdi e viola. A Royce parve di entrare nell’immagine, avanzando fino alla luce del fuoco.

“Speravo che venissi,” disse Lori, la strega, fissandolo negli occhi. “Vieni, Royce, siediti accanto al fuoco. Dimmi quello che sta succedendo.”

“Non lo sai?” le chiese. Si portò a sedere vicino al fuoco, in un punto dove c’era una pietra bassa che faceva da sedile. Royce aveva la sensazione di percepirla e allo stesso tempo no. Era come se esistesse e non esistesse allo stesso tempo.

“No,” rispose Lory e Royce vide quanto sembrasse preoccupata. “È questo il problema.” Gettò qualcosa nel fuoco e il colore delle fiamme cambiò di nuovo, ora con le tonalità arancioni di una forgia. “Guarda il fuoco, Royce, e dimmi quello che vedi.”

Royce fissò obbediente le fiamme, guardando sempre più a fondo, immaginando che più profondamente fosse riuscito a osservare, più probabile sarebbe stato trovare visioni di ciò che riservava il futuro. Confronto alle molte possibilità dello specchio, era un metodo più rozzo, ma Royce avrebbe accolto ogni aiuto possibile.

“Vedo… solo fiamme,” ammise dopo qualche minuto di osservazione.

“È questo il problema,” disse Lori. “Anche io. Dovrei vedere di più, ho visto di più, ma dal momento in cui hai guardato in quel tuo specchio, sono riuscita solo a cogliere qualche sprazzo di cose future.”

“Stai dicendo che lo specchio interferisce con altre forme di magia?” chiese Royce, pensando al pezzo di vetro che ancora adesso si trovava al sicuro sulla loro barca.

“Forse,” disse Lori scrollando le spalle. “O forse il fatto che ti abbia mostrato così tanto rende in un certo senso più incerto il mio genere di predizione.”

“Non poter vedere nulla potrebbe essere sconcertante,” disse Royce, “ma non serve che lo facciamo diventare un problema. Ho guardato nello specchio. Ho visto…” Anche lì, in quelle condizioni, sapeva di non poter ammettere con esattezza ciò che aveva visto, e Lori stava già tendendo una mano per interromperlo.

“No,” disse. “Il futuro è troppo fragile. Lo stai trattando come una specie di fune d’acciaio, quando invece è un filo delicatissimo. Stai più attento, Royce.”

Ora la preoccupazione nella sua voce sembrava essersi trasformata in netta paura.

“Lori,” disse Royce. “So che non puoi vedere nulla, ma questo non significa che tutto vada storto.”

“Non ho detto che non posso vedere niente,” disse Lori. “Ti ho spiegato che colgo ancora degli sprazzi, e quegli sprazzi sono cose di ombre e sangue. Vedo violenza, Royce, ovunque io guardi.”

Royce scosse la testa. “È una possibilità, ma non l’unica. Ho trovato mio padre. Torneremo, e la gente lo seguirà. Vedranno il ritorno del vero re, e tutti capiranno che le cose sono cambiate. Se siamo fortunati, addirittura re Carris si ritirerà e scapperà.”

Lori rise a quelle parole. “A volte dimentico quanto tu sia giovane, Royce, o forse quanto io sia vecchia. Non tutti hanno visto… quello che hai visto tu. Non tutti hanno la saggezza che deriva direttamente dallo specchio, o la tua certezza del fatto che tuo padre sia il re perfetto. La gente non si inchinerà in automatico solo perché lui torna.”

“Spero che ti sbagli,” disse Royce.

Lori sorrise, ma era un sorriso amaro. “Lo spero anche io, Royce. Lo spero anche io.”

L’immagine della strega accanto al fuoco sbiadì e Royce si ritrovò sulla barca insieme agli altri. Con sua sorpresa, il sole aveva attraversato il cielo nel tempo che lui aveva speso a conversare con Lori, spostandosi molto più di quanto pensava fosse realmente il tempo trascorso.

“Sei sveglio,” disse Matilde. “Bene. Mi sa che ci stiamo avvicinando alla costa, e dovremo metterci a remare quando saremo più vicini.”

“Non vuoi essere tu a farlo, eh?” ipotizzò Royce.

 

“Dopo tutto il tempo che ho passato a remare nelle Sette Isole?” chiese Matilde scuotendo la testa. “Te lo lascio volentieri.”

Royce era felice che lei e Neave apparentemente avessero smesso di discutere per il momento. Andò verso suo padre, che era ancora seduto a prua, intento a lavorare sulla spada ossidiana.

Royce quasi non la riconobbe. Suo padre aveva lavorato la lama, trasformando l’arma in qualcosa di liscio, affilato e letale. Aveva ricoperto l’elsa con una striscia di cuoio e vi aveva applicato sopra un’asta di legno per formare una guardia a croce. Ora sembrava occupato a sistemare qualcosa su quest’ultima, e Royce ci mise un attimo a riconoscere…

“Il tuo anello con sigillo?” gli chiese.

Suo padre annuì, finendo di premere il simbolo all’interno di un intaglio creato appositamente per contenerlo.

“Non è molto, ma volevo che questa spada fosse qualcosa di personale, qualcosa che potesse essere solo tuo,” gli spiegò.

“È perfetta,” disse Royce, prendendo la spada dalle sue mani. Provò la lama e sentì le regolazioni che erano state fatte. Ora era più leggera e la lama fischiò fendendo l’aria quando tirò un colpo di prova a vuoto. Non era la perfezione scintillante della spada di cristallo, ma era qualcos’altro con tutta una sua dignità, e si muoveva agilmente nelle mani di Royce.

Lui rimase lì con suo padre e la mano di re Filippo gli si posò sulla spalla mentre entrambi guardavano in direzione del regno. Presto la linea scura della costa iniziò ad apparire alla vista e Royce si voltò a guardare suo padre.

“Stiamo andando a casa,” gli disse.

“Sì,” rispose lui. “E poi comincerà la lotta per riconquistarla.”

Olete lõpetanud tasuta lõigu lugemise. Kas soovite edasi lugeda?