L'Ombra Del Campanile

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Così dicendo, l’anziana si sfilò il medaglione e passò la catena intorno al collo di Lucia. Il talismano dorato rappresentava una stella a cinque punte, il sigillo di Salomone. Lo stesso disegno fu tracciato a terra dall’anziana per mezzo di una verga appuntita e la ragazza fu fatta distendere in modo che la sua testa, le sue mani all’estremità delle braccia allargate e i suoi piedi in fondo alle gambe divaricate corrispondessero con esattezza alle punte della stella. Sara prese dell’olio d’oliva, segnando con esso in sequenza la mano sinistra, il piede sinistro, il piede destro, la mano destra e la fronte di Lucia.

«Acqua, aria, terra, fuoco: tu sai come governare i quattro elementi. Essi possono essere invocati e usati da ognuno di noi, ma solo il tuo spirito è in grado di unirli e potenziare al massimo i loro poteri e le loro qualità. Ricorda, Lucia! Userai i tuoi poteri solo a fin di bene e combatterai, fino a sacrificare la tua stessa vita, contro chiunque voglia abusare di te e delle tue capacità per scopi malvagi.» Poi versò dell’acqua sulla mano sinistra della ragazza, ancora distesa, soffiò sul suo piede sinistro, gettò una manciata di terra sul suo piede destro e avvicinò leggermente un bastoncino infuocato alla mano destra. Infine baciò la sua fronte. «E ora alzati. Il tuo lungo cammino è iniziato.»

La cerimonia di iniziazione era pertanto stata molto semplice, non era stata traumatizzante come la ragazza aveva temuto. Il rito si era svolto nella maniera tramandata da tempi remoti, senza costrizioni, senza violenza alcuna, senza interventi di strane figure assomiglianti a caproni o ad altre bestie. Il Demonio non era di certo nascosto tra i partecipanti al rito. Lucia era spiazzata, ma iniziava a capire molte cose, che la nonna l’avrebbe aiutata a definire nei mesi successivi. La magia, la stregoneria, così come l’aveva concepita fino a quel momento, non esisteva. La nonna le avrebbe spiegato quali fossero i limiti del pensiero umano, come ogni individuo fosse dotato di enormi potenzialità legate all’uso di esso, ma che solo qualcuno era in grado di esercitare certe funzioni, sia per capacità innata, sia grazie all’esercizio. Ma allora, si chiedeva Lucia, la sfera fluttuante che si materializzava tra le sue mani era puro frutto della sua fantasia, della sua suggestione? Eppure era in grado di visualizzarla distintamente. Già, ma solo lei, gli altri non la vedevano. Ma aveva provato i suoi effetti devastanti lanciando una palla di fuoco verso quella ragazzina, Elisabetta, che si era ritrovata davvero avvolta dalle fiamme. Ed era in grado di leggere i pensieri di chi le stava di fronte, ed era in grado di ascoltare le voci degli spiriti, e riusciva a prevedere il futuro in qualche maniera. Tutto questo come si spiegava?

«Per tutto c’è una spiegazione razionale», le aveva detto la nonna una sera avanti al caminetto acceso. «Alcuni nostri adepti, alla luce di quanto già fatto in passato da antichi studiosi, di cui alcuni testi sono sfuggiti ai roghi delle autorità ecclesiastiche, hanno aperto il cranio di cadaveri di uomini e donne per studiarne il contenuto, il cervello. La superficie del nostro cervello non è liscia, ma presenta tante pieghe, che vengono dette dagli studiosi di anatomia “circonvoluzioni” e che sono in grado di aumentare di tantissime volte la superficie utile di questo nostro importante organo. Non è il cuore, come tutti dicono, la sede dei nostri sentimenti, è la nostra mente ad essere la loro depositaria. Così come tutti i nostri ricordi, vicini e lontani, vengono qui accantonati. È la mente, il pensiero, che ci consente di riconoscere i suoni, i colori, gli odori, che ci fa associare gli oggetti a un nome, che ci fa apprendere i simboli della scrittura in modo che le persone più intelligenti, o le più fortunate se vuoi, siano in grado di leggere, scrivere e far di conto. È la mente, inoltre, che invia ai nostri occhi i sogni durante il riposo. La nostra mente, quindi, ha potenzialità enormi, ma sconosciute ai più. Così, chi riesce ad allenare la propria mente, riesce poi a eseguire attività che i comuni mortali neanche si sognano. Ed ecco che si possono percepire discorsi pronunciati in un luogo anche in tempi remoti. Ogni parola pronunciata lascia la sua traccia nell’aria, niente si perde. Se tu puoi captare questi discorsi, queste parole, non è che stai parlando con gli spiriti, non è possibile dialogare con persone scomparse da mesi, o da anni, o da secoli, ma è possibile ascoltare quello che loro hanno detto anche tantissimo tempo fa.»

«E la preveggenza?»

«Questo è un po’ più complicato, ma anche qui alcuni studiosi hanno ipotizzato che chi prevede il futuro capti i pensieri di qualcuno che ha già intenzione di mettere in atto determinati comportamenti. È per questo che la preveggenza si limita al breve periodo, e non è possibile prevedere il futuro a lungo termine. Chi asserisce di poterlo fare, è un ciarlatano!»

«E il fatto di poter spostare oggetti, farli levitare, o accendere una lampada solo con la forza del pensiero?»

«Ecco, anche queste sono potenzialità sconosciute alla maggior parte degli individui. Esercitando e allenando la nostra mente e il nostro pensiero, simao in grado di utilizzare gli elementi che ci stanno intorno a nostro vantaggio, in pratica possiamo fare di tutto. Noi siamo abituati a usare i cinque sensi che conosciamo, la vista, il tatto, l’udito, il gusto e l’odorato, senza neanche immaginare quali siano le nostre effettive potenzialità. Gli antichi sapevano bene come utilizzare certi poteri, così da poter costruire opere mastodontiche senza il minimo sforzo. Vedi, i Romani, quando giunsero a conquistare l’Egitto, non si potevano spiegare come avessero fatto gli egiziani, tanto tempo prima del loro arrivo, a costruire opere colossali, come le piramidi e la sfinge. Gli enormi blocchi di pietra con cui erano stati costruiti non potevano essere spostati neanche da centinaia di schiavi che lavorassero insieme.»

«Vuoi dire che…»

«Non voglio dire niente: trai tu le tue conclusioni.»

Lucia era ogni giorno più affascinata dai discorsi della nonna. Le disquisizioni sulla mente l’avevano entusiasmata, ma ancor di più era interessata alla cura delle malattie con le erbe officinali. Durante la primavera, diverse volte con la nonna Elena si era recata di nuovo a Colle del Giogo, ma anche nelle campagne e nei boschi intorno Jesi, per la raccolta di erbe medicamentose. Ogni volta la nonna le spiegava proprietà e uso di una determinata erba: il Giusquiamo, la Trementina, la Liquirizia, la pericolosa Belladonna. Elena aveva promesso a Lucia che, a partire dalla tarda estate e per tutto l’autunno successivo, le avrebbe insegnato a riconoscere i funghi, a distinguere quelli mangerecci da quelli velenosi, a prevenire e curare le intossicazioni dovute a questi ultimi, e come utilizzare le spore di determinati miceti su ferite infette. Ma in quegli ultimi giorni di primavera, il corso della storia aveva preso la piega per cui in quel momento si trovava ad assistere il giovane Franciolini, ferito dai nemici della città.

Erano ormai più di dieci giorni che Lucia era indaffarata attorno al capezzale di Andrea, quando il ragazzo riprese conoscenza. Questi aprì gli occhi e Lucia si sentì subito osservata in maniera strana. Leggeva in quegli occhi lo smarrimento del giovane, che forse credeva di essere già morto, di aver raggiunto il paradiso e di avere a disposizione un angelo che si prendeva cura di lui. Certo, era un nobile e, come aveva dei servitori in Terra, di certo la sua testa lo portava a pensare che avrebbe avuto della servitù anche lì in Paradiso. Ma poi, pian piano, Lucia capì che Andrea stava cominciando a riconoscere le pareti, i mobili e gli ornamenti della sua camera.

«Chi sei tu, che ti prendi così amorevolmente cura di me? E che fine ha fatto il resto della mia famiglia? E i miei servi? Dov’è Alì? Che sia dannato, quel miserabile Turco! Quando c’è bisogno di lui, è sempre capace di dileguarsi, magari lo trovi col sedere all’aria che prega il suo Dio…», iniziò a dire Andrea, con le guance infiammate dalla febbre, agitandosi a tal punto che un accesso convulso di tosse riuscì a interrompere a metà il suo discorso. Lucia prese la mano del giovane tra le sue, cercando di tranquillizzarlo e, nel contempo, godendo di quel contatto fisico.

«Dovete stare tranquillo, o piomberete di nuovo nell’incoscienza e nel delirio febbrile. E non dovete inveire contro Alì. Se non fosse per lui sareste già sottoterra! In quanto a me… Beh, io sarei Lucia Baldeschi, la vostra promessa sposa.» Pronunciando queste parole, un lieve rossore si impossessò delle gote della ragazza, che poté in quel momento affondare i suoi occhi nocciola in quelli azzurri del giovane, occhi magnetici, che attraevano il suo viso, le sue labbra tutto il suo corpo verso di lui.

«Non immaginavo che il Cardinale mi volesse riservare un simile dono. Ma non è che mi state mentendo? Il nemico ci ha travolto poco prima di raggiungere il palazzo del Cardinale, e credo proprio che questi non sia estraneo all’imboscata!» Con la forza della rabbia, si tirò un poco su, e Lucia si affrettò a disporgli i cuscini dietro la schiena per aiutarlo a sostenersi. «Lo dovevo immaginare che era un trucco, altro che matrimonio politico! Vostro zio si è messo d’accordo con i nemici, per uccidere mio padre, me, disperdere la mia famiglia e accentrare su di sé i poteri civili e religiosi, una volta liquidati col denaro gli invasori. Ma quali invasori? Il Duca di Montacuto e l’Arciduca di Urbino erano di certo d’accordo con lui! Scommetto che anche mia madre non si sa dove sia, magari rapita, o forse uccisa anche lei dal nemico. E tu?» Dopo essere passato al “voi” di rispetto era tornato a rivolgersi a Lucia dandole del “tu”, come si faceva con la servitù. «Non sei la nipote del Cardinale Baldeschi, non puoi esserlo, egli non permetterebbe mai che sua nipote stia qui accanto a me. Tu sei una serva, una sgualdrina inviata dal Cardinale perché non sono ancora morto e devi cogliere l’occasione buona per finirmi. Coraggio, allora! Dove nascondi il pugnale? Piantalo nel mio petto e facciamola finita, tanto queste ferite mi porteranno alla morte nel giro di qualche giorno. E allora tanto vale abbreviare le sofferenze.»

 

Così dicendo afferrò il braccio di Lucia e la tirò verso di sé. Si ritrovarono con i rispettivi volti a pochissima distanza tra loro, ognuno sentiva il respiro ansimante dell’altro sfiorare la propria guancia. Lucia lesse negli occhi del giovane Franciolini la paura di morire, non la cattiveria. L’istinto sarebbe stato quello di ritrarsi, e invece fece il contrario, poggiò delicatamente le sue labbra su quelle di lui, non fece neanche in tempo ad avvertire la ruvidità della barba non rasata da qualche giorno, che fu travolta in un vortice di lingue che si aggrovigliavano tra loro, mani che cercavano la pelle nuda sotto i vestiti, carezze che l’avrebbero isolata dalla realtà per raggiungere altezze celesti, e poi sensazioni mai provate prima, fino a un intenso piacere, accompagnato però da un profondo dolore. Ora il sangue era il suo, e proveniva dalle sue parti intime violate da quel dolce incontro; non aveva mai provato niente di simile in vita sua, ma si sentiva appagata.

«Come vi ha potuto solo sfiorare il pensiero che io fossi qui per uccidervi? Vi amo, vi ho amato fin dal primo momento che vi ho visto, qualche giorno fa, che uscivate da questo palazzo in sella al vostro destriero. Vi ho salvato la vita, vi ho curato, e ora voi mi avete reso donna, e io ve ne sono grata.»

Si finì di liberare dei vestiti e, del tutto nuda, si infilò nel letto accanto al suo amore. Gli aprì la camicia da notte, cominciò a carezzargli il petto, a baciarglielo, poi prese la mano di lui e la guidò a sfiorare i suoi turgidi capezzoli. E furono baci e carezze e sospiri, per interminabili e magici minuti. Poi lei si mise a cavalcioni sul ventre di lui e, guidata dall’istinto che le diceva di fare così, iniziò a dondolare su e giù, prima lentamente, poi sempre più velocemente.

L’orgasmo fece sprofondare di nuovo Andrea nell’incoscienza. La ragazza avrebbe voluto parlargli con dolcezza, ma con in mente il chiaro obiettivo di portare il discorso sui simboli legati allo strano pentacolo a sette punte, visto nei sotterranei della cattedrale, riportato sul portale di Palazzo Franciolini e richiamato da Andrea nei suoi deliri. C’erano tanti argomenti di cui avrebbe voluto parlare insieme a lui, adesso che si era ripreso, ma in quel momento era di nuovo impossibile.

Mentre Lucia recuperava i suoi vestiti dal pavimento e si risistemava, provando ancora in grembo sensazioni che stimolavano la pulsazione delle sue zone intime, alle sue orecchie giunsero voci concitate dall’ingresso del palazzo.

«Non potete entrare in questa dimora, non ne avete il permesso!», stava urlando Alì. Poi la sua voce si affievolì fino a spegnersi.

«Arrestate il moro, uccidetelo se oppone resistenza. E perlustrate l’abitazione. Il Cardinale rivuole subito la signorina Lucia a palazzo. In quanto al giovane Franciolini, se è ancora vivo, arrestatelo senza fargli del male. Dovrà essere processato per alto tradimento ed eresia. Non saremo noi a ucciderlo, ma la giustizia, quella divina e quella degli uomini. E la punizione sarà esemplare, per far capire al popolo a chi bisogna essere sottomessi: a Dio e a Sua Santità il Papa!»

Lucia aveva appena riconosciuto la voce di chi aveva pronunciato queste ultime parole, il Domenicano Padre Ignazio Amici, che insieme al suo zio presiedeva il locale tribunale dell’Inquisizione, quando la porta della stanza si spalancò e sul suo arco si disegnarono i ghigni soddisfatti di due guardie armate.

CAPITOLO 4

La cultura è l’unica cosa che ci rende felici

(Arnoldo Foà)

Il suono insistente della sveglia riuscì a catapultare di nuovo Lucia nella realtà quotidiana. Con la stessa mano con cui aveva messo a tacere la suoneria, a tentoni aveva trovato sul comodino il pacchetto delle sigarette. Era ormai sua consuetudine accendere la prima sigaretta appena sveglia, ma negli ultimi tempi lo faceva addirittura ancor prima di abbandonare il letto. Poi raggiungeva il bagno con il bastoncino fumante in bocca, si dedicava alla toilette e al trucco aspirando ogni tanto un’ampia boccata di fumo, gettava la cicca nel water e guadagnava la cucina per prepararsi il caffè, bevuto il quale accendeva un’altra sigaretta, concentrandosi sulla nuova giornata lavorativa che l’attendeva. Sul posto di lavoro non le era concesso fumare, per cui, se anche ogni tanto le passava per la testa che quel vizio a lungo andare sarebbe stato ben nocivo, buttava dietro le spalle qualsiasi remora mentre guardava la punta rossa illuminarsi ogni volta che aspirava.

Il mio corpo ha bisogno della sua dose di nicotina, alla faccia di quel puritano del decano della fondazione!, si ritrovava spesso a pensare Lucia, accendendosi la terza sigaretta della giornata, quella che le consentiva un appagamento tale da poter arrivare a un’ora decente senza dover uscire dal suo posto di lavoro prima della pausa prevista per la colazione. Nell’anno 2017 la primavera era stata molto piovosa e, nonostante fosse la fine di maggio, la temperatura non aveva ancora raggiunto le medie estive; così, soprattutto la mattina all’ora di uscire, faceva ancora fresco, ed era difficile decidere quale fosse il vestito più adatto da indossare. Una rapida occhiata al guardaroba, mentre indossava un collant leggero, color carne, quasi invisibile, fece cadere la scelta per quel giorno su un abito rosso, a manica lunga ma non invernale, della lunghezza adatta a lasciare scoperte le gambe poco al di sopra del ginocchio. Un filo di rossetto, due colpi di spazzola ai capelli castani naturalmente ondulati, una linea di matita a sottolineare il nocciola dei suoi occhi, un’ultima tirata dalla sigaretta, la cui cicca rimaneva fumante nel posacenere, e Lucia Balleani, ventotto anni, un metro e settantacinque centimetri di bellezza austera, pressoché irraggiungibile dall’uomo comune, laureata in lettere antiche, specializzata in storia medioevale, era pronta ad affrontare l’impatto con l’ambiente esterno. Era una delle ultime discendenti di una nobile famiglia jesina, i Baldeschi-Balleani e, per ironia della sorte, nonostante dalla nascita non fosse mai riuscita a vivere e abitare nella sontuosa residenza di famiglia in Piazza Federico II - né tantomeno nella stupenda villa fuori Jesi – ora si ritrovava a lavorare proprio in quel palazzo. Aveva accettato di buon grado l’incarico offertole dalla Fondazione Hoenstaufen, che aveva trovato lì la sua naturale sede, proprio nella Piazza in cui tradizione vuole che nel 1194 fosse nato Federico II di Svevia, principe e poi Imperatore della casata Hoenstaufen. Come tutte le famiglie nobili, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, finita la mezzadria, finite le rendite di immensi latifondi agrari ereditati da tempo immemorabile, anche i Baldeschi-Balleani non furono immuni dal giocarsi la maggior parte dei beni di famiglia, vendendoli o svendendoli al miglior offerente, pur di mantenere il tenore di vita a cui erano abituati. Il ramo Baldeschi, un po’ più saggio, si era trasferito in parte a Milano, dove aveva messo in piedi una piccola ma redditizia azienda di design e architettura, in parte in Umbria, dove gestiva un ridente agriturismo in mezzo alle verdi colline di Paciano. Al ramo Balleani erano rimaste le briciole e il padre di Lucia continuava con tenacia e ben poco guadagno a mandare avanti l’azienda agricola che consisteva di appezzamenti di terreno sparsi tra le campagne di Jesi e Osimo. Lucia era una ragazza, oltre che molto bella, davvero intelligente. Grazie ai sacrifici del padre aveva potuto frequentare l’ateneo bolognese e laurearsi con ottimi voti. Il suo pallino era la storia, in particolare quella medioevale, forse perché sentiva in maniera forte, dentro di sé, da un lato l’appartenenza alla città che aveva dato i natali a uno dei più illuminati Imperatori della storia, e dall’altro alla famiglia che per prima aveva dato un Signore a Jesi. Era stata infatti la ghibellina famiglia Baligani – il cognome si era trasformato con il tempo in Balleani - che nel 1271 aveva istituito la prima Signoria a Jesi. Con alterne vicende, Tano Baligani, a volte schierandosi con i guelfi, altre volte con i ghibellini, a seconda di come tirava il vento, aveva cercato di conservare il dominio della città, contro altre famiglie nobili, in particolare contro i Simonetti, i quali anche avevano in certi periodi preso le redini del comando della città. Nei due secoli a seguire, i Balleani si sarebbero imparentati con la famiglia Baldeschi, che aveva dato alla città diversi Vescovi e Cardinali, al fine di suggellare un tacito accordo tra Guelfi e Ghibellini, soprattutto per contrastare il nemico esterno e tamponare le mire espansionistiche dei Comuni limitrofi, in particolare di Ancona, ma anche di Senigallia e di Urbino. Proprio per questa sua passione, il decano della fondazione Hoenstaufen aveva voluto assumere Lucia per la riorganizzazione della biblioteca del palazzo appartenuto alla nobile famiglia. Biblioteca che vantava pezzi molto rari, come una copia originale del Codice Germanico di Tacito, ma che non erano mai stati classificati a dovere. Oltre alla classificazione dei libri presenti, Lucia aveva altri interessi, dei quali aveva cercato di parlare col decano, come quello di raccogliere tutte le fonti storiche sulla città di Jesi presenti sia in questa che nelle altre biblioteche della zona, al fine di poter dare alle stampe un’interessante pubblicazione. Oppure quello di mappare il sottosuolo del centro storico, ricco di vestigia appartenenti a epoca romana, al fine di avere una ricostruzione dell’antica città di Aesis il più vicina possibile a quello che era stata nella realtà.

«Hai molte belle idee, sei giovane e piena di entusiasmo, e ti capisco, ma la maggior parte degli accessi ai sotterranei è interdetta, in quanto si deve passare dalle cantine di palazzi privati, i cui proprietari il più delle volte negano il consenso.»

L’anziano decano scrutava la ragazza con i suoi occhi grigio verdi da dietro le lenti degli occhiali. La barba grigia non riusciva a celare il senso di disapprovazione che provava nei confronti della sigaretta elettronica, dalla quale ogni tanto Lucia aspirava una nuvola di vapore denso e biancastro, che nel giro di brevi istanti si dileguava nell’aria della stanza.

«Non è necessaria l’esplorazione fisica dei sotterranei. Si potrebbe far sorvolare la città da un elicottero per ottenere delle rilevazioni radar. La tecnica adesso è questa e dà ottimi risultati.», cercava di insistere Lucia, per veder realizzato uno dei suoi più grandi sogni.

«Chissà quanti soldi occorrerebbero per un progetto simile. Abbiamo fondi, ma sono abbastanza limitati. L’Italia non è ancora uscita dalla crisi economica che la affligge ormai da diversi anni, e tu mi vieni a proporre progetti faraonici? La cultura è bella, sono io il primo ad affermarlo, ma dobbiamo stare con i piedi in terra. Vedi quello che riesci a realizzare esplorando i sotterranei di questo palazzo. Comunicano direttamente con la cripta del Duomo, chissà che tu non riesca a tirar fuori qualcosa di interessante. Ma fallo al di fuori delle ore per cui vieni pagata. Il tuo compito qui è ben definito: riorganizzare la biblioteca!» Il decano stava per lasciare la ragazza al suo lavoro, e alla sua delusione, quando si rigirò: «E, un’ultima cosa! Elettronica o no, qui dentro non si fuma. Ti pregherei di evitare di usare quell’aggeggio mentre lavori.»

Con gesto plateale, Lucia sfilò la sigaretta elettronica dal collo cui era appesa con l’apposito cordoncino, ne spense l’interruttore e la ripose nel suo astuccio, che andò a infilare dentro la borsa. Dalla stessa prese pacchetto di sigarette e accendino e guadagnò l’androne di ingresso per andare a fumare in santa pace una vera sigaretta all’esterno.

Martedì 30 Maggio 2017 si presentava, fin dalle prime ore del mattino, una giornata serena, tersa, di tarda primavera. Il cielo era azzurro e, nonostante il sole fosse ancora basso, Lucia fu abbagliata dalla luce non appena chiuso dietro di sé il portone di casa. Aveva trovato un’ottima sistemazione, affittando un appartamento ristrutturato in Via Pergolesi, nel centro storico, a poche centinaia di metri dal suo posto di lavoro. Ma quello che era più interessante per lei era il fatto di trovarsi proprio nel palazzo che aveva ospitato, a piano terra, nel XVI secolo, una delle prime stamperie jesine, quella del Manuzi. L’enorme salone adibito a tipografia era stato nel tempo utilizzato per altri scopi, finanche come palestra e come sala riunioni di qualche partito politico. Ma questo non toglieva comunque fascino a quel luogo. Uscita dal portone e attraversato un piccolo cortile, Lucia era solita attardarsi a rimirare l’arco da cui si usciva sull’antica strada lastricata, Via Pergolesi, un tempo il Cardo Massimo dell’epoca Romana, poi chiamata Via delle Botteghe o Via degli Orefici, per le attività preminenti che vi si erano svolte nei vari periodi.

 

Delle splendide botteghe di un tempo, in effetti, ne erano rimaste ben poche. Molte avevano le serrande abbassate ormai da diversi anni, e quelle aperte ostentavano in vetrina beni e servizi che con l’antichità, con il fasto e lo splendore dei negozi orafi di un tempo, avevano ben poco a che spartire. Il cartello turistico imbrattato dalle cacate dei piccioni stava a indicare che l’ arco del Palazzo dei Verroni non era di origine romana, come l’aspetto poteva portare a credere, ma era stato realizzato nel XV secolo da tale Giovanni di Gabriele da Como, architetto che aveva lavorato a fianco del più noto Francesco di Giorgio Martini nella realizzazione del vicino Palazzo della Signoria. Tanto che qualcuno in passato aveva attribuito anche quell’arco al Di Giorgio Martini. Secondo Lucia, i romani non dovevano essere del tutto estranei a quell’opera, che si affacciava proprio sul Cardo Massimo. Magari gli architetti rinascimentali si erano limitati a restaurare un antico arco, le cui vestigia erano sopravvissute ai secoli e al rovinoso terremoto dell’anno 848.


Pochi passi tra gli austeri palazzi del centro storico furono sufficienti per far passare Lucia dall’ombreggiata Via Pergolesi alla luminosa Piazza Federico II. Mancava ancora qualche minuto alle otto, ora in cui doveva attaccare a lavorare. Avrebbe fatto in tempo a fumare un’altra sigaretta prima di entrare nel Palazzo, ma la sua attenzione fu attirata dalle quattro statue di marmo che sorreggevano come cariatidi il balcone del primo piano. Per un momento, ebbe l’impressione che i quattro “telamoni” fossero animati di vita propria, quasi volessero venire verso di lei per parlarle, per raccontarle storie vecchie di secoli, di cui si era persa la memoria. Ebbe come un giramento di testa, che le fece immaginare la balconata, non più sorretta dalle possenti statue, inclinarsi verso il suolo, e le riportò alla mente il sogno che ormai da parecchie notti la rendeva protagonista di una storia avvenuta cinque secoli prima, in quegli stessi giorni dell’anno e in quegli stessi luoghi. Le immagini dei sogni scorrevano nella sua mente durante il sonno come le scene di un romanzo a puntate. Erano talmente nitide che Lucia si impersonava nella sua omonima antenata come stesse rivivendo una sua vita passata, da un lato come interprete, dall’altro come spettatrice.

Suggestione, solo suggestione!, ripeté per l’ennesima volta la giovane a se stessa. Tutta colpa dei libri su cui sto lavorando e delle parti mancanti della Storia di Jesi. Il mio inconscio mi fa inventare la parte mancante del libro!

Tirò due profondi respiri, raggiunse una panchina, si mise seduta e osservò che la facciata del palazzo era lì, integra e indenne. Decise di attraversare la Piazza, raggiungere il bar e prendersi un espresso forte, prima di entrare al lavoro. Quel diversivo le avrebbe costato un ritardo di qualche minuto, ma tanto il decano non arrivava mai prima delle nove. Trangugiato il caffè e uscita dal Bar Duomo, in pochi passi raggiunse il lato della Piazza in cui confluiva Via Pergolesi. Alla sua sinistra lo sbocco della salita di Via del Fortino, alla sua destra l’inizio di Costa Lombarda, attraverso la quale si poteva raggiungere la parte a valle della città. Proprio sotto i suoi piedi, su una grossa piastrella in bronzo era incisa la mappa dell’antica Aesis. Poco più in là la scritta in varie lingue, compreso l’arabo, sulle piastrelle bianche lungo tutto il perimetro della piazza: “Il 26 dicembre 1194 nasce in questa Piazza l’Imperatore Federico Secondo di Svevia”. Ancora un giramento di testa, ancora una visione. Ora la piazza non aveva più l’aspetto attuale. La fontana dei leoni, con l’obelisco, non campeggiava più al centro, ma lo spazio era del tutto libero. Il Duomo, dal lato opposto a quello in cui si trovava, era una costruzione bianca, di dimensioni più esigue rispetto a quella che era abituata a vedere, dallo stile gotico, con guglie e archi a sesto acuto, una specie di Duomo di Milano in piccolo. Il campanile era alla destra della facciata, isolato e in posizione avanzata rispetto alla chiesa. Il Palazzo Baldeschi, sulla sinistra rispetto alla Cattedrale, era diverso, più massiccio, più sontuoso; la facciata era sovrastata, a mo’ di abbellimento, da tre archi in pietra, presi da chissà quale antica costruzione romana e messi lassù in maniera posticcia, come elemento decorativo, ma di nessuna utilità. La statua della Madonna col bambin Gesù in braccio già era presente in una nicchia tra le finestre dell’ultimo piano, mentre non c’era traccia dei quattro “telamoni” a sorreggere la balconata del primo piano. Anzi la balconata, anche se non del tutto assente, era assai esigua rispetto a quella che era abituata a vedere. Tutto il lato destro della piazza era occupato, in luogo dei Palazzi Vescovili e di Palazzo Ripanti, da un’enorme fortezza, una specie di castello, ornato dalle tipiche archettature e dai merli ghibellini a coda di rondine. Sul lato sinistro la Chiesa di San Floriano con la sua cupola e il suo campanile e il palazzo Ghislieri, non ancora terminato, circondato dalle impalcature dei muratori. Lucia gettò uno sguardo verso l’inizio di Via del Fortino, dov’era la bottega di un tintore, davanti alla quale l’artigiano aveva acceso un fuoco per mettere a bollire l’acqua in un pentolone incrostato di nerofumo. Una ragazzina si era avvicinata troppo al fuoco e un lembo del suo vestito si era incendiato. In breve la ragazza si era trovata avvolta dalle fiamme. Lucia avrebbe voluto correre verso di lei per soccorrerla, ma non riusciva a muovere un passo. Inorridì, sentendo risuonare nelle sue orecchie le grida disperate della ragazza. Poi una, due gocce di pioggia, uno scroscio, le fiamme si spensero. La sensazione di non toccare più i piedi per terra. Lucia era distesa sul selciato. Quando riaprì gli occhi vide l’azzurro del cielo, un cielo dal quale non poteva essere caduta neanche una goccia di pioggia. Un uomo distinto, il vestito elegante, una valigetta ventiquattrore in mano, cercò di aiutarla a rialzarsi.

«Tutto bene?»

«Sì, sì», e rifiutando qualsiasi aiuto, Lucia si rialzò in piedi. «È stato solo un mancamento, uno sbalzo di pressione. Ora è tutto a posto, grazie!»

Attraversò la piazza, che ora aveva l’aspetto consueto, di buon passo, per cercare di raggiungere il posto di lavoro il prima possibile, prima che il decano potesse accorgersi del suo ritardo, ma con ben stampate nelle mente le immagini che aveva vissuto per qualche attimo.