La Corona Bronzea

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CAPITOLO 5

Cultura è quella cosa che i più ricevono,

molti trasmettono e pochi hanno.

(Karl Kraus)

Anche quella mattina, Lucia si risvegliò, con i primi raggi del sole che filtravano dalla persiana, tra le braccia confortanti di Andrea. Il suo corpo nudo, saturo d’amore, dell’amore dato e ricevuto durante la nottata, era protetto dalle braccia forti e muscolose del suo amato, che lo racchiudevano come un guscio. Conosceva Andrea da così poco tempo eppure ne era talmente innamorata che non avrebbe più potuto concepire la sua vita senza di lui. Se in quel momento si fosse svegliata su un letto da sola, già si sarebbe ritrovata con una sigaretta accesa fra le dita, ancor prima di alzarsi. E invece ora no, ora c’era Andrea ad appagarla, e non c’era bisogno di nient’altro. Aveva scoperto in lui un uomo appassionato di cultura, di storia, di letteratura antica e moderna, e questo faceva di quel giovane il compagno ideale per lei, con cui condividere interessi e passioni, oltre la dimora e il letto. Gli aveva chiesto più di una volta che lavoro facesse e lui aveva sempre risposto in maniera evasiva: l’antropologo, l’archeologo, il geologo. Insomma, ancora non aveva capito quale fosse esattamente la sua fonte di sostegno economico. Per essere un ricercatore, come si definiva, doveva avere un supporto, essere un borsista in una qualche Università come minimo, italiana o straniera che fosse. Oppure avere finanziamenti da qualche importante organizzazione privata interessata ai suoi studi. Sapeva bene lei come fosse difficile portare avanti delle ricerche con gli scarsi fondi messi a disposizione dal governo e dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Sembrava invece che Andrea avesse disponibilità economiche sufficienti per realizzare tutto quello che gli passava per la testa. Ma forse era supportato dalla ricchezza della sua famiglia di origine. Chissà, magari i Franciolini, nel tempo, avevano saputo amministrare i loro beni in maniera più efficace e produttiva rispetto ai Baldeschi-Balleani. Ma che importava? Lei ora godeva ancora del calore del contatto pelle contro pelle, contrastato dal fresco delle lenzuola che ricoprivano in parte i loro corpi. Fuori ben presto il sole avrebbe picchiato forte, ma le spesse mura dell’antico Palazzo Franciolini mantenevano l’ambiente fresco anche in piena estate, senza bisogno di installare alcuno split di aria condizionata.

Aveva cercato di limitare al massimo i suoi movimenti, ma a un certo punto Andrea aveva percepito il suo risveglio, aveva appena aperto le palpebre a fessura, aveva avvicinato le labbra al suo viso, le aveva stampato un bacio su una guancia e l’aveva sciolta dall’abbraccio con delicatezza. A quel punto Lucia, anche se a malincuore, decise di alzarsi. Raggiunse il bagno e fece scivolare a lungo l’acqua tiepida della doccia sul suo corpo, poi, ancora in accappatoio e con i capelli bagnati, guadagnò la cucina e preparò il caffè, per lei e per Andrea. Si sedette al tavolo, con la tazza fumante avanti a sé, riprendendo con avidità la lettura del testo che aveva lasciato lì sopra la sera precedente. Attirato dal forte odore della bevanda, in breve apparve Andrea, che tirò giù il suo caffè dal bricco e si sedette di fronte a lei, attivando il tablet per leggere le notizie della mattina sul sito dell’ANSA.

«Non capisco perché non accenda la televisione, anziché rovinarti la vista su quel piccolo schermo. In certi canali ci sono notiziari in continuazione e…»

«Non è lo stesso», la interruppe Andrea. «Certe notizie particolari in TV non le passano. Sto seguendo con attenzione le vicende dei siti archeologici oggetto di distruzione da parte dei Jihadisti, degli estremisti islamici. I notiziari ufficiali ci stanno facendo credere che la situazione sia molto più grave di quello che non è nella realtà. Ma comunque, per me, la perdita di reperti vecchi di millenni resta comunque un fatto di estrema gravità. Quando alcune di queste zone saranno liberate, credo che potrei essere pronto a partire subito per valutare i danni e aiutare alla ricostruzione storica delle antiche città. Abbiamo visto lo scorso anno con Ninive che si è potuto recuperare molto di ciò che i militanti dell’ISIS avevano mostrato come distrutto.»

«E lasceresti me qui da sola per dei ruderi vecchi di millenni?», si rivolse a lui afferrandogli la mano e trattenendola tra le sue.

«Se tu non volessi seguirmi, sì. Il lavoro è lavoro, e il mio lo ritengo molto appassionante. Certo, non che smetterei di amarti, ma non rinuncerei comunque ai miei impegni.»

Fingendo di fare un po’ l’offesa, Lucia ritirò le mani, cercò il pacchetto delle sigarette e ne accese una.

«Senza magari disdegnare qualche avventura amorosa esotica, eh? Mmmm… Mai fidarsi degli uomini: sono traditori per natura.»

Lucia aspirò a lungo dalla sigaretta e sbuffò il fumo verso di lui, che gliela prese via dalle mani e fece a sua volta una tirata.

«Oh, non io. Sono un uomo fedele!»

«Questa affermazione è tutta da valutare. Hai trent’anni suonati e fai l’amore come una persona “esperta della materia”. Non so niente della tua vita precedente. Chissà quante donne hai avuto prima di me!»

Come per non invischiarsi in un discorso che non volesse affrontare per nessun motivo al mondo, Andrea cambiò argomento.

«Ma veniamo al tuo lavoro, piuttosto. Che cosa hai trovato di così interessante nell’umile biblioteca di questa dimora, da farti stare in piedi fino alle due di notte e ritrovarti qui alle sette della mattina che già hai ripreso la lettura?»

In attesa di una risposta, Andrea schiacciò nel posacenere la sigaretta consumata solo per metà. Lucia, non soddisfatta della dose di nicotina assunta, tirò fuori dall’astuccio la sigaretta elettronica e agì sul tasto d’accensione. Il vapore sbuffato dalla giovane si dileguò nell’aria della cucina.

«Questi documenti si riferiscono alla storia di questa città nei primi decenni del XVI secolo, e sono interessanti, perché descrivono gli eventi succeduti alla morte del Cardinal Baldeschi, in maniera diversa da come li conoscevo e da come sono descritti nei testi ufficiali della storia di Jesi. È molto strano come la copia de “La Storia di Jesi” conservata in questo edificio, che dovrebbe essere gemella delle altre due rinvenute nel Palazzo Baldeschi–Balleani e nella Biblioteca Petrucciana, non abbia le pagine strappate, ma sia integra. Ma quello che è più interessante è che alcuni particolari sono riportati in maniera difforme rispetto agli altri testi che ho avuto modo di avere sotto mano.»

«Ad esempio?», chiese Andrea incuriosito.

«Ad esempio, io ero convinta che un alto prelato della famiglia Ghislieri fosse succeduto alla carica Vescovile al Cardinale mio avo. Invece sembra che le cose fossero andate ben diversamente e il Ghislieri sia giunto a ricoprire questa carica solo dopo un certo periodo di tempo. Pensavo che mai la mia antenata Lucia Baldeschi avrebbe assunto la carica di Capitano del Popolo e invece qui viene riportato che dal 1522, per un certo periodo, il governo della città fu portato avanti, anche se in collaborazione con la nobile casta jesina, da una donna, che addirittura aveva scongiurato una ribellione popolare, riappacificando gli animi infiammati con la sua sensibilità femminile. Molto strano per quei tempi!»

«Credo che di certe notizie si debba valutate la veridicità. Non è infrequente che in documenti di epoche remote siano riportati clamorosi falsi storici. E poi spesso chi redigeva queste cronache tendeva a mescolare realtà e leggende in maniera davvero facile. Su, vestiamoci e usciamo a fare quattro passi per il centro storico, prima che l’aria, là fuori, si scaldi troppo. A volte le pietre rivelano molto più dei libri, se uno le sa interpretare. Lasciati guidare da un archeologo, e non te ne pentirai!»

Convinta che Andrea sapesse molte più cose di quelle che nel giro di alcuni mesi le aveva rivelato, corse in bagno, diede una botta di fon ai capelli per finirli di asciugare, si truccò, si infilò una maglietta e un paio di jeans e si ripresentò in cucina pronta per uscire. Sentì l’occhiata compiaciuta di Andrea su di lei, rendendosi conto che, non essendosi affatto preoccupata di indossare un reggiseno, la forma dei suoi capezzoli era distintamente stampata sulla t-shirt. Ma chi se ne importava. Se anche Andrea fosse stato geloso delle sue grazie, meglio così: uomo geloso, uomo innamorato!

Mentre risalivano, mano nella mano, le scalette di Costa Baldassini, godendo dell’aria ancor fresca delle prime ore del mattino, Lucia lasciava che le pietre delle antiche costruzioni le sussurrassero storie vecchie di secoli, rimuginando nella sua testa quanto aveva letto la sera precedente.

MISERIA

Le scorrerie degli eserciti invasori non erano terminate e, tra il 1520 e il 1521 sostarono dalle nostre parti gli uomini di Giovanni De’ Medici prima e quelli di Leone X poi. Erano, questi ultimi, Svizzeri assoldati dal Papa, e che si erano trattenuti per ventisei giorni, recando danni infiniti alla città e al contado.

Oltre ai danni e alle angherie, la peste era tornata come un incubo a terrorizzare la popolazione. In un Consiglio generale del 6 dicembre 1522, trattandosi di provvedere sopra un minacciato passaggio di 2.500 spagnoli militanti al


soldo del Papa, si deliberò di fare il possibile per allontanarli, anche con qualche dono, e se volessero venire ad ogni modo, di riceverli fuori della città, essendo risaputo che essi portavano con loro il contagio. Tutta l’Italia, del resto, in quegli anni era ridotta nelle più misere condizioni. Alle rovine e carneficine causate dalle battaglie e dalle scorrerie degli eserciti stranieri, si aggiungevano le alluvioni e la peste, che continuava ovunque a fare le sue vittime. Nonostante l’opera preventiva dei cittadini, il terribile morbo, secondo alcuni, in particolare secondo lo storico Antonio Gianandrea, sarebbe giunto a Jesi per via d’Ancona, in certe balle di corde. Dicesi anche che detta peste venne per giusto giudizio di Dio, perché l’anno avanti alcuni giovani, trovando un corpo morto di un forestiero in casa Caldora, tutto intero, per gioco, lo portarono nei giorni di Carnevale in maschera per la città e, non essendo stati di ciò puniti, ma piuttosto da tutto il popolo aiutati, in sogno apparve loro l’immagine di un uomo nero che li avvertiva che poco appresso sarebbero morti di peste. Sta di fatto che la peste gettò la popolazione nella miseria più nera.

 

Già l’anno prima una moltitudine di locuste avevano quasi mangiato tutte le biade, apportando una grandissima fame e tante altre miserie, che fu opinione universale che, se il Magistrato non avesse aiutato molti col denaro pubblico e ordinato che si premiassero quelli che ammazzavano una certa quantità di locuste, l’anno seguente una buona parte della cittadinanza sarebbe morta di fame. Fu tale la miseria che i più poveri, non avendo di che sfamarsi, erano costretti a cibarsi di erbe, come le bestie, e di qualche quantità di semola.

Intanto i due giovani, quasi col fiatone, erano giunti in cima alla salita, avevano percorso un breve tratto di Via Roccabella ed erano sbucati in Piazza Colocci, illuminata dal sole di una splendida giornata di luglio, fermandosi ad ammirare la facciata del Palazzo del Governo, dai più conosciuto come Palazzo della Signoria.

«Non capisco perché si insista a chiamarlo Palazzo della Signoria, quando a Jesi una vera e propria Signoria non è mai esistita», esordì Lucia rivolta al suo erudito compagno, sperando nel suo solito competente intervento.

«E in effetti Jesi era una Repubblica, come vediamo riportato in diverse scritte sulle icone delle pareti di questo palazzo. Una repubblica comunque assoggettata al più alto potere papale, che estendeva fin qui le sue ali protettive: “Res Publica Aesina, Libertas ecclesiastica - Alexander VI pontifex maximus”. Questo per ricordare a tutti che lo stesso Papa Alessandro VI, nell’anno 1500, inaugurò e benedì questo palazzo, opera dell’architetto Francesco di Giorgio Martini, concedendo alla città di Jesi di continuare a essere una repubblica indipendente e di continuare a poter fregiare il simbolo della città, il leone rampante, con la corona regale, purché fosse comunque ossequiosa del potere della Chiesa, e nel contempo accettasse l’importante presenza di un legato pontificio.»

«Interessante. Quindi è evidente che il nome Palazzo della Signoria sia legato all’architetto che lo ha realizzato, e che è tra coloro che progettarono il Palazzo Vecchio a Firenze.» In quel momento Lucia posò lo sguardo sull’icona in marmo, raffigurante in rilievo il leone rampante, sovrastato da una posticcia corona di bronzo. Sotto l’icona, una scritta in un latino poco comprensibile. «Sembra che quella corona, al di sopra del leone, c’entri ben poco con il resto dell’opera. Perché lo scultore che ha realizzato l’opera non ha scolpito anche la corona sopra la testa del leone? E questa iscrizione? Un latino molto approssimativo, direi. Neanche le date sono scritte in maniera corretta!»

MCCCCLXXXXVIII

AESIS REX DEDIT FED IMP

CORONAVIT RES P. ALEX

VI PONT INSTAURAVIT

«Certo», replicò Andrea. «È un latino piuttosto “maccheronico”, ma che vogliamo farci, qui siamo tra la fine del 1.400 e l’inizio del 1.500. Forse la grammatica latina era caduta nel dimenticatoio. Ma il senso della frase è che nel 1498, con la benedizione di Papa Alessandro VI - Rodrigo Borgia - nella facciata del Palazzo della Signoria di Jesi al leone rampante fu aggiunta la corona, in onore dei natali dati dalla città all'Imperatore Federico II. Ma se sollevi lo sguardo vedi anche che il Papa fece aggiungere un’altra icona, quella raffigurante le chiavi incrociate, simbolo del vaticano, e la frase “LIBERTAS ECCLESIASTICA – MCCCCC”, per rafforzare il concetto di cui parlavamo poc’anzi.»

«Cercando di tradurla alla lettera, il senso della frase mi sembra un po’ diverso», proseguì Lucia. «Prendendo il leone come soggetto sottinteso della frase, si potrebbe tradurre: Re Esio lo diede, Federico imperatore lo coronò, a simbolo della “Res publica”, Alessandro VI Pontefice lo instaurò. Ossia, Re Esio, il mitico fondatore della città di Jesi, indicò il leone come simbolo della stessa; in seguito, l’Imperatore Federico II, che ebbe i natali qui a Jesi, lo fece incoronare proclamando la città “regia”, ossia fedele all’Impero; infine Papa Alessandro VI fece installare il simbolo sulla facciata del palazzo, a suggellare il fatto che Jesi rimaneva comunque una repubblica indipendente, sia pur soggetta all’autorità ecclesiastica.»

Dubbioso, Andrea rimase qualche istante in silenzio, poi riprese, non senza una punta di scetticismo.

«Dovrei consultare alcuni testi per risponderti in maniera adeguata. In ogni caso, su un fatto hai di certo ragione: la corona in bronzo è stata aggiunta in maniera posticcia in un tempo posteriore all’esecuzione della scultura vera e propria.


CAPITOLO 6

Tutto prendeva luce da lei: era lei il sorriso che illuminava tutto, d’ogni intorno.

(Leone Tolstoj: Anna Karenina)

Le luci del pomeriggio gettavano ombre sinistre sui volti della folla infuriata. Lucia fu lesta a risalire di corsa la Costa dei Pastori, percorrere in diagonale la buia strada che correva sotto le mura della Rocca e spuntare nella Piazza del Governo, prima ancora che il primo dei facinorosi giungesse in quel luogo risalendo la Costa dei Longobardi. Salì i tre gradini che conducevano al sagrato della Chiesa di Sant’Agostino, rimanendo così in posizione più elevata rispetto alla Piazza. Di fronte a lei, dalla parte opposta del piazzale, si ergeva il Palazzo del governo, da poco terminato e rifinito anche all’interno grazie all’opera di illustri architetti, quali Giovanni di Gabriele da Como, Andrea Contucci, detto il Sansovino, e altri insigni scultori e intagliatori di legno. Solo il fabbro lignario doveva ancora completare il suo lavoro: gli era stato assegnato il delicato compito di intagliare e lavorare di rilievo i soffitti della Sala Grande, di quella della cancelleria, della Camera del Podestà e di altre stanze.

Quando le prime persone armate di rudimentali attrezzi, quali forconi, asce, vanghe, ma anche coltelli e lance rimediate chissà dove, iniziarono a giungere rumoreggiando nella Piazza del Governo, Lucia cercò di ergersi in tutta la sua altezza, per farsi notare da tutti, sovrastando la folla. Era emozionata, aveva il cuore in gola, non sapeva se le parole che sarebbero uscite dalla sua bocca potevano essere quelle giuste. Ma doveva tentare il tutto per tutto. Qualcuno iniziò a riconoscerla, indicandola ad altri, a coloro che man mano stavano invadendo la Piazza.

«È la nobile Lucia Baldeschi! La promessa sposa del mancato Capitano del Popolo!»

«Già, avessimo avuto Andrea dei Franciolini a capo della città e del contado, non saremmo di certo ridotti così!»

Lucia temeva che qualcuno, a quel punto, potesse dire che lei era d’accordo con il suo malvagio zio per far fuori Andrea, e che se quest’ultimo non era stato giustiziato era stato per un puro caso, e non certo per la sua intercessione. Non si era nemmeno resa conto che tutto intorno a lei si stava formando come un’aura luminosa, così intensa che la gente ne ebbe quasi timore. Mentre il sole calava, la Piazza era illuminata dalla luce che lei stessa sprigionava da lì, dal sagrato della chiesa. Quando alzò le braccia e tutti si ammutolirono, a Lucia non sfuggirono le frasi bisbigliate da chi era più prossimo a lei.

«È una santa. È la Vergine Maria fatta persona!», dicevano inginocchiandosi e lasciando cadere a terra le loro armi. Tutto ciò infuse maggior coraggio in lei, che sapeva di avere poteri al di sopra della norma, che a volte sfuggivano al suo controllo, come in questo caso. Ma non poteva perdere tempo a correre dietro ai suoi pensieri, al fatto che se la nonna avesse avuto il tempo necessario a finirla di istruire, ora avrebbe saputo controllare alla perfezione queste sue capacità. Doveva parlare a chi le stava di fronte. Lasciò dunque che le sue parole fossero ispirate dallo spirito della sua nonna, che forse ancora aleggiava indomito intorno a lei.

«Orsù, signori, sollevarsi contro le autorità non ha alcun senso. Là dentro quel Palazzo, i nobili e gli anziani di Jesi, quelli che noi chiamiamo il Consiglio dei Migliori, stanno solo aspettando una guida forte. E questo è il momento giusto. Sì, perché il Papa Adriano VI ha deciso di richiamare il legato pontificio, ritenendo che il Cardinal Cesarini sia più utile a Roma, che non qui a Jesi, dove peraltro non è quasi mai presente. E questo è un bene per noi!»

La notizia, ancora sconosciuta alla maggior parte dei presenti, anche perché solo in parte vera, fece il suo effetto e il brusio cominciò a sollevarsi tra la folla, costringendo Lucia ad alzare il tono della voce, fin quasi a provare dolore alla gola.

«Come dicevo questo è un bene per noi. Abbiamo pieno diritto di cacciare gli esosi vicari del Cardinale. E lo faremo senza spargimento di sangue. Già so di avere l’appoggio del Papa, a cui ho inviato delle missive in proposito, tramite dei messaggeri che sono già in viaggio per Roma. Padre Ignazio Amici, il Domenicano Inquisitore, sta già facendo i bagagli, ma state certi che non sarà il solo a lasciare la città nei prossimi giorni. E avremo di nuovo un Vescovo Jesino, il Cardinale Ghislieri. Avanti, dunque, deponete le armi, tornate a casa e dormite sonni tranquilli. Anche perché – e questa è una solenne promessa da parte mia – domani mattina stessa varcherò quel portone, sì, il portone del Palazzo del Governo. Mi presenterò al Consiglio dei Migliori e reclamerò la carica che mi spetta di diritto, per essere stata promessa in sposa ad Andrea Franciolini: SARÒ IL VOSTRO CAPITANO DEL POPOLO!»

L’entusiasmo esplose tra gli astanti, chi era in ginocchio si sollevò, tutti abbandonarono attrezzi e armi che avevano in mano, qualcuno si diresse verso la giovane nobildonna per sollevarla e portarla in trionfo lungo Via delle Botteghe fino a Piazza del Mercato. Lucia, sollevata dalle braccia di alcuni energumeni, sorrideva, e il suo sorriso illuminava tutto e tutti. A un certo punto anche le campane delle varie chiese iniziarono a suonare a festa. Quando il corteo giunse dinanzi a Palazzo Baldeschi, Lucia chiese di essere messa a terra, perché era molto stanca e voleva rientrare nella sua dimora per riposare.

«Andate ora, e ritornate domani a festeggiare il nuovo Capitano del Popolo e il nuovo Vescovo di Jesi.»

Mentre la folla si disperdeva e Lucia stava per varcare la soglia del suo palazzo di famiglia, a molti non sfuggirono i movimenti là, all’ingresso di Palazzo Ripanti. Il vicario del Cardinal Cesarini stava facendo caricare in fretta e furia i suoi bagagli su un carro trainato da cavalli.

Quel bastardo ha mangiato la foglia e se ne sta già andando!, disse tra sé e sé. Meglio così. Non sono così sicura di poter controllare tutti coloro che reclamano la sua testa.

Le emozioni di quel giorno erano state tali e tante da far sprofondare Lucia in un sonno profondo, senza aver neanche cenato. Avrebbe desiderato fare un bagno caldo prima di coricarsi, ma a palazzo non aveva più neanche un’ancella che si prendesse cura di lei. Inoltre, col fatto che aveva preferito adottare per le bambine la residenza di campagna, aveva trasferito là la maggior parte dei domestici e nell’austero palazzo Baldeschi era rimasta ben poca servitù, per lo più maschile, che si occupava delle cucine e delle stalle.

Fu risvegliata da un insistente bussare alla porta della sua camera, che ancora non si era fatto neanche giorno. A fatica, si sollevò dal letto, si diede una sistemata alla bell’e meglio e aprì la porta di uno spiraglio, per vedere chi fosse che la disturbava a quell’ora insolita. Un giovane ragazzo, ancora imberbe, ma vestito di tutto punto in farsetto, calze braghe e con in testa un cappello dalla lunga piuma, fece una riverenza e cercò di scusarsi per l’orario, quasi balbettando.

 

«Scusatemi tanto, Madonna, ma quello che devo riferirvi è della massima urgenza. Mi manda il boia, dalla Piazza della Morte.»

A Lucia salì un groppo alla gola e la sua mente, da assonnata qual era, ritornò lucida all’improvviso, ricordandosi che quello era l’orario deciso per l’esecuzione capitale di Mira. Che stava succedendo? Perché mai il boia aveva mandato questo giovane a scomodarla?

«Attendi qualche istante, ragazzo. Mi rendo presentabile e sono subito da te. Accomodati in una delle seggiole lungo il corridoio. Faccio prima che posso.»

Si acconciò i capelli, indossò un abito sobrio che le concedesse libertà di movimenti, e in breve raggiunse il giovane nel corridoio.

«Allora? Cosa succede?»

«Il boia vi vuole in Piazza della Morte.»

«Perché mai?», rispose Lucia indignata. «Avevo detto chiaramente che giammai avrei voluto assistere all’esecuzione della mia ancella! Quindi, perché disturbarmi?»

«C’è un problema. L’ultimo desiderio di un condannato a morte è sacro e deve essere esaudito. Il boia non può procedere finché la vittima non sia stata soddisfatta. È una legge non scritta, ma per Gerardo, il nostro boia, è una questione d’onore.»

«E io cosa c’entro, di grazia? Quale sarebbe l’ultimo desiderio di Mira?»

«È questo il punto. La vostra ancella ha chiesto che voi le siate vicina in punto di morte. Dovete venire.»

«Non se ne parla nemmeno. Ho giurato a me stessa che non avrei mai più assistito a un’esecuzione capitale.»

«In questo caso sarò costretto ad andare a svegliare il giudice Uberti, che non ne sarà molto contento...»

Avendo capito l’antifona, e sapendo che in quei giorni era meglio non mettersi a piantare grane con le autorità della vecchia guardia, Lucia decise di seguire il giovane in Piazza della Morte. In fin dei conti, da lì a poche ore si sarebbe presentata a Palazzo del Governo e avrebbe per sempre dato il ben servito alle vecchie “cariatidi”, che ormai non avrebbero più continuato a ricoprire cariche pubbliche. Quindi era meglio non iniziare a inimicarsi giudice e quant’altri prima del tempo.

Camminando lungo via delle Botteghe nell’umidità dei primi albori, Lucia si strinse nel vestito percorsa da un brivido di freddo, nonostante si fosse già nel pieno della stagione estiva. Attraversò Porta della Rocca continuando a seguire il ragazzo che le faceva strada, ma quando intravide la sua giovane ancella, il cuore le fece un balzo, lo sentì pulsare in gola e non riuscì a trattenere le lacrime che cercavano di sgorgare dai suoi occhi. Mira aveva la testa già appoggiata sul ceppo. Il boia era lì a fianco a lei, col cappuccio in testa e la scure affilatissima poggiata in terra. Non aveva dovuto prendersi neanche la briga di raccoglierle i capelli della condannata in una coda o in una crocchia, in quanto il giorno precedente ci avevano pensato i torturatori di Padre Ignazio Amici a farglieli tagliare quasi a zero. La nobildonna si sentì addosso lo sguardo supplichevole della sua ancella e non poté fare a meno di avvicinarsi, carezzandole la nuca e avvicinando le sue labbra alla guancia della ragazza.

«Mira…»

L’ancella abbassò lo sguardo e si rivolse alla sua vecchia padrona con un filo di voce.

«Adesso posso morire felice. Ho voi qui accanto. So che mi avete risparmiato un più atroce supplizio e volevo ringraziarvi personalmente prima di morire. Pregate per me, e raccomandate la mia anima al Signore.»

Lucia prese la mano di Mira, le si avvicinò di più e le sussurrò delle parole all’orecchio, in modo che né il boia, né il ragazzo che l’aveva accompagnata potessero udire.

«Potrei risparmiarti anche questo di supplizio. Ho delle monete d’oro con me. Potrei pagare il silenzio di questi due. Posso mandare il ragazzo dal falegname a chiedergli di fare una cassa, dicendo che questo era il tuo ultimo desiderio: essere seppellita all’interno di un sarcofago. Il boia non ti ucciderà ma racconterà a tutti di averlo fatto. Gli farò riempire la cassa con delle pietre, in modo che pesi come se contenesse il tuo corpo, e la farò sistemare nei sotterranei della Chiesa della Morte. Nessuno andrà a guardarci dentro. Tu scapperai giù per la discesa e raggiungerai il convento delle Clarisse della Valle. Vestita da suora non ti riconoscerà nessuno. Lascia passare del tempo e poi allontanati da Jesi. Potrai rifarti una vita da qualche altra parte…»

«No, mia Signora. La morte non mi fa più paura. La mia vita finisce qui, oggi, su questa Piazza, su questo ceppo. Provvedete solo a che il mio corpo abbia una degna sepoltura.»

Mira rivolse lo sguardo verso Gerardo, annuendo con la testa. Il boia capì al volo. Il desiderio della condannata era stato esaudito, si poteva procedere. Lucia fece un passo indietro, lasciò la mano di Mira, mentre la scure si sollevava. Guardò gli occhi del boia attraverso i fori praticati nel cappuccio e le sembrò di scorgerli lucidi. Ma non fece in tempo a verificare la veridicità della sua sensazione, perché con un colpo secco lo strumento si abbatté sul collo della vittima. La testa rotolò sul selciato, mentre il resto del corpo fu scosso da convulsioni per alcuni brevi istanti, fino a che si irrigidì e cadde di lato. Gli schizzi di sangue provenienti dal collo sfiorarono Lucia, ma non una goccia andò a imbrattare le sue vesti.

Dopo un attimo di silenzio assoluto, si sentì in lontananza il canto di un gallo. Si stava facendo giorno, quando la Piazza della Morte fu attraversata da un grido prolungato, un grido proveniente dalla viscere di Lucia Baldeschi.

«Noooooooo…!»