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Bollettino del Club Alpino Italiano 1895-96

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Autor:
Märgi loetuks
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

Questo effetto di un sollevamento alpino è incontrovertibile; e certo, se i geologi sono concordi nel ritenere che il sollevamento è avvenuto, o almeno che le Alpi, meno consunte dalla incessante e rapida demolizione prodotta dagli agenti atmosferici, erano assai più alte di quel che non lo siano ora, rimane assodata una delle condizioni che debbono aver favorito l’espansione dei ghiacciai. Ma questa condizione non può essere stata la sola: essa è di gran lunga insufficiente a spiegare un fenomeno così grandioso. A questa conclusione negativa io sarei condotto da un ragionamento molto semplice.

In un ghiacciaio si distinguono due regioni: quella, che dirò collettrice, dove la quantità di neve che cade è maggiore della quantità di ghiaccio che si scioglie, e quella, che dirò ablatrice, dove la quantità di ghiaccio sciolto è maggiore di quella che cade. Sia S l’area della prima, s quella della seconda; sia inoltre p l’altezza media di ghiaccio che rimane come residuo attivo per unità d’area della prima in un dato periodo di tempo, p. es. in un anno, e sia α il residuo passivo (medio) che viene sottratto alla seconda per unità d’area nello stesso tempo. Il bilancio del ghiacciaio può allora istituirsi così:

Avere = S × p;       Dare = s × α

e se il ghiacciaio è in un periodo di sosta, ossia se il bilancio chiude in pareggio, deve essere

S × p = s × α

ossia


Il rapporto fra l’area collettrice e l’area ablatrice dipende quindi, in un periodo di sosta del ghiacciaio, esclusivamente dalle condizioni climatologiche da cui dipendono α e p; se queste in una regione montuosa sono presso a poco uniformi, quel rapporto sarà costante. Ciò si verifica con sufficiente approssimazione, secondo le determinazioni di Brückner e Richter38 nei ghiacciai meglio sviluppati della regione alpina, pei quali il valore di quel rapporto oscillerebbe intorno a 3.

Se noi passiamo invece ai ghiacciai della Nuova Zelanda, troviamo un valore assai minore; così pel ghiacciaio Tasman esso è di circa 1/10, cioè 30 volte minore che per le Alpi. Questo fatto, che al sig. Richter sembra inverosimile, si spiega facilmente secondo il nostro calcolo colla maggior copia di precipitazioni nevose che alimentando i ghiacciai di quell’isola continuamente battuta dai venti oceanici, ma più ancora, io credo, dalla bassa temperatura estiva, che diminuisce sensibilmente l’ablazione α.

Deriva da ciò che se in una data regione alpina si suppone invariata la condizione climatologica, da cui dipendono α e p, e variata invece l’area S del bacino collettore per uno spostamento verticale della regione stessa, l’area ablatrice s deve variare proporzionalmente. Se quindi il sollevamento mio-pliocenico delle Alpi si suppone col sig. Forel da 550 a 1000 e più metri in modo che la zona compresa nel limite delle nevi perpetue (supposto ad altezza invariata, quando non si ritengano variate le condizioni climatologiche) fosse anche 10 e più volte maggiore dell’attuale, anche l’area ablatrice, cioè la superficie del ghiacciaio propriamente detta avrebbe dovuto essere altrettante volte l’attuale; quindi, se si tien conto dell’aumento in larghezza, ogni ghiacciaio non avrebbe potuto allungarsi nella valle che per un piccolo multiplo della sua lunghezza attuale. Ora ciò è assai al di sotto della realtà.

Il ghiacciaio del Rodano che ora ha pochi chilometri di lunghezza, arrivava nell’epoca di sua maggiore espansione fin sotto Lione, cioè a 395 chilometri di distanza dalla sua origine. Per argomenti che esporremo in seguito, si ha ragione di ritenere che il limite delle nevi perpetue arrivasse allora press’a poco a una linea che attualmente è a 1200 m. sul mare, e che allora per la supposta maggiore elevazione alpina sarà stata di qualche centinaio di metri più elevata. Il bacino collettore del ghiacciaio veniva così ad assumere una base orizzontale di circa 30 chilometri, mentre alla regione ablatrice ne rimanevano nientemeno che 360; e lungo questi essa non restava più incassata nella valle, ma era distesa a ventaglio su buona parte della Svizzera e della Francia meridionale. L’area s era certamente centinaia di volte più grande della S, e il rapporto s : S che ora è circa 3 deve supporsi ridotto per quell’epoca a una frazione piccolissima. Questo fatto non può spiegarsi, come vedemmo, che con un aumento della precipitazione p e con una diminuzione dell’ablazione α e questa seconda deve ritenersi come la causa più probabile ed efficace, perchè non possiamo supporre una precipitazione nevosa che sia centinaia di volte l’attuale, mentre basta una diminuzione di pochi gradi nella temperatura, specialmente estiva, per annullare quasi l’ablazione, mantenendo prossima a zero la temperatura attorno al ghiacciaio.

5. Tale argomento, che parmi difficilmente oppugnabile, mentre elimina come insufficiente l’ipotesi orografica, conferma la necessità di una causa climatologica, diminuzione di temperatura e aumento di pioggie, a spiegare la gigantesca espansione dei ghiacciai. Le oscillazioni attuali del clima tra uno stadio freddo-umido e uno stadio caldo-asciutto indicherebbero del resto che un abbassamento di temperatura è inseparabile, nelle regioni continentali, da un aumento di pioggia, e il sig. Brückner, che ne fece con sì geniale pazienza l’analisi, crede di poter indicare da quale concatenamento di cause sarebbero collegati fra loro i due fenomeni. Eccolo in breve.

I periodi asciutti sarebbero contraddistinti specialmente da un accentuarsi della variazione annua della pressione barometrica tanto sull’oceano quanto nella parte più interna dei continenti. È nota qual’è la distribuzione media della pressione nelle due stagioni estreme. L’Oceano Atlantico, p. es., presenta sempre nella sua parte settentrionale, al di sotto dell’Islanda, un campo di bassa pressione che d’inverno si espande ad occupare tutta la zona temperata dell’oceano stesso, riducendo a un piccolo cuneo la zona subtropicale d’alta pressione da cui emanano gli alisei di NE.; intanto un campo di pressione molto alta, col massimo nella Siberia orientale, occupa quasi tutto il continente spingendosi con uno sprone sull’Europa centrale. D’estate il minimo atlantico si ritira nelle alte latitudini, schiacciato contro l’Islanda dalla zona subtropicale d’alta pressione che si espande anche alla zona temperata, invadendo con uno sprone l’Europa occidentale; intanto il continente diventa campo di una vasta area di bassa pressione col centro nell’Asia centrale.

Questo alternarsi di situazioni barometriche è effetto evidente dell’alternarsi delle stagioni. D’inverno l’aria si raffredda e si condensa fortemente sul continente, assai più che sul mare, e il peso della colonna atmosferica diventa quindi assai maggiore su quello che su questo, dove la pressione rimane perciò relativamente bassa, come si manifesta coll’espandersi dell’area di bassa pressione che, per altre ragioni troppo lunghe ad esporsi qui, ha sua sede nelle più alte latitudini. D’estate l’aria si riscalda e si dirada assai più sul continente che sul mare, e quindi la pressione diminuisce assai nelle parti più centrali del continente, e si mantiene relativamente elevata sul mare, come lo dimostra l’espandersi della zona subtropicale d’alta pressione.

L’afflusso dell’aria oceanica, apportatrice di umidità o di pioggia, verso il continente euro-asiatico è regolato in ambedue le stagioni dal dislivello di pressione fra l’Europa occidentale e l’oceano, dislivello che in media è inclinato in ambedue le stagioni dalla terra verso il mare; d’inverno per lo sprone spinto sull’Europa dal campo d’alta pressione dominante sull’Asia, d’estate per lo sprone d’alta pressione spintovi dalla zona subtropicale. Quanto maggiore è questo dislivello, cioè quanto maggiore è la pressione sull’Europa occidentale, che fa da barriera ai venti oceanici, tanto minore è la probabilità di pioggia nell’Europa e nell’Asia, e infatti il sig. Brückner rilevò dai dati barometrici dei sessant’anni 1826-1885 che i periodi piovosi d’Europa coincidettero coi periodi di pressione relativamente bassa, gli asciutti con quelli di pressione relativamente alta: mentre in Siberia, giusto secondo la sua teoria, si verifica precisamente l’opposto.

Ora questo dislivello di pressione dall’Europa all’Atlantico dipende a sua volta dall’intensità dell’oscillazione annua del barometro nelle parti centrali tanto dei continenti che dei mari, e quindi indirettamente dalla intensità dell’oscillazione annua della temperatura. Se l’inverno è relativamente molto freddo sul continente, l’area siberiana di alta pressione è molto intensa, e quindi più forte lo sprone che essa spinge sull’Europa; se l’estate è relativamente molto caldo sul continente, l’area asiatica di bassa pressione è più intensa, e quindi relativamente più forte l’alta pressione atlantica che si spinge con uno sprone sull’Europa occidentale. Questo sprone, che è d’inciampo all’afflusso di aria oceanica verso l’Europa e l’Asia, è quindi più forte quando maggiore è l’oscillazione annua della temperatura, specialmente sul continente, e quindi più accentuato il dislivello termico fra il continente e l’oceano; è più debole, e quindi, lasciando più libero l’afflusso dell’aria oceanica, può originare un periodo piovoso, quando l’oscillazione annua della temperatura e il suo dislivello fra continente e oceano sono minori.

 

È principalmente una variazione della temperatura estiva che può avere efficacia sulla maggiore o minore piovosità nei continenti, poichè i periodi di pioggia, semplice (estivo) o doppio (primaverile o autunnale), cadono ivi nei mesi più caldi, dall’aprile all’ottobre. Questa variazione estiva non può essere indipendente da una variazione invernale, generalmente opposta, perchè gli inverni più ricchi di precipitazione sono generalmente i più miti rispetto alla temperatura; ma nell’effetto complessivo della temperatura media dell’anno deve prevalere il raffreddamento estivo. Il sig. Brückner ha potuto infatti constatare, in mancanza di sufficienti dati termici per le stagioni estreme, che le temperature annuali sono alquanto più fredde nei periodi umidi che nei periodi asciutti. È una piccola diminuzione, alquanto minore di 1° C; piccola però per rispetto ai nostri mezzi d’osservazione, non per rispetto alla distribuzione termica sulla superficie della terra, perchè corrisponde ad uno spostamento delle isoterme annuali di circa 300 chilometri, o 3 gradi di latitudine, verso Sud.

Che la variazione termica sia causa antecedente alla variazione della piovosità è confermato, non soltanto dal concatenamento di fatti messo in luce da Brückner, ma più direttamente dal fatto che i periodi della temperatura nel secolo nostro precedettero di regola quelli della piovosità, come lo dimostra la seguente tabella:



Il ritardo dei periodi della pioggia su quelli della temperatura fu quindi in media di un lustro.

6. La precedente discussione ci porta adunque a concludere che il fattore principale di un’invasione glaciale fu un abbassamento di temperatura, e che l’aumento di piovosità in basso, e di nevosità nelle regioni alimentatrici dei ghiacciai, non fu che un corollario di quello. Il problema glaciale si riduce quindi a cercare la causa che può aver prodotto tale raffreddamento.

Fin dal primo sorgere della questione glaciale il problema si presentò sotto questa forma: l’idea di ghiaccio è inseparabile dall’idea di freddo, e un’invasione così immensa di ghiaccio portava naturalmente all’ipotesi di un freddo straordinario, di un cataclisma climatologico che corrispondesse in certo modo al cataclisma glaciale. Ciò era tanto più giustificato quando si credeva che l’invasione glaciale fosse un’espansione della calotta di ghiaccio che occupa le regioni circumpolari, anzichè una espansione dei ghiacciai alpini: ma questa seconda, e ormai sicura, spiegazione ridusse d’assai il fabbisogno di freddo, e già fin dal 1847 il Martins nella sua brillante esposizione della questione glaciale, pubblicata nella «Revue des Deux Mondes» si contentava di un raffreddamento inferiore a 4° C. A dir il vero tale conclusione rispondeva a una rappresentazione inadeguata del fenomeno glaciale: secondo le scoperte fatte fino allora, i ghiacciai dell’Arve, dell’Isère e del Rodano non uscivano dalla pianura svizzera e potevano spiegarsi con un abbassamento del limite delle nevi perpetue da 2700 metri sul livello del mare, dove si trova ora, a 1050 e quindi dell’estremità dei ghiacciai da 1150, dov’è ora, a circa 400 metri o anche al di sotto, pel contemporaneo abbassamento dei bacini collettori. Ora invece si sa che quei ghiacciai uniti insieme invadevano buona parte non solo della Svizzera, ma della Francia orientale arrivando fino a Lione, e un allungamento dei ghiacciai proporzionale all’abbassamento del limite delle nevi perpetue non basta a spiegare un tal fatto. Tuttavia nuovi argomenti sono venuti a confermare la valutazione del raffreddamento preglaciale data dal Martins.

Un ragionamento assai semplice è valso infatti a determinare, con approssimazione relativamente grande, di quanto si era abbassato nelle varie regioni della terra il limite delle nevi perpetue nell’epoca di massima invasione glaciale. Ho detto in principio che il gran mantello di ghiacci che copriva le Alpi non era senza strappi. Il nucleo alpino centrale doveva essere tutto sepolto, tranne alcune punte troppo erte per lasciar presa alla neve e al ghiaccio; invece nella parte più esterna, dove le correnti di ghiaccio erano incanalate nelle valli, se un culmine di montagna, un dosso, una cresta erano abbastanza alti da superare il limite delle nevi perpetue, dovevano sporgere come isole dalla inondazione glaciale, e non debbono quindi portare attualmente alcuna traccia glaciale. Risalendo le valli e cercando tutti quei culmini che non portano traccia glaciale si è potuto determinare così fino a quale altezza se ne incontrano, e fissare perciò entro limiti abbastanza ristretti la linea delle nevi perpetue dell’era glaciale. Così nelle Alpi Bavaresi e nelle Orientali esso oscillò fra 1200 e 1500 m. d’altezza, fu cioè tra 1200 e 1300 m. più bassa di quello che è ora; ed egualmente nei Pirenei di 1000; nella Nuova Zelanda da 1100 a 1300; nel Tien-Scian di 1350; nelle Colline Naga in India di 1800 metri più bassa che ora. Questo generale abbassamento dei ghiacci perpetui, se dovesse attribuirsi esclusivamente a un abbassamento di temperatura, rappresenterebbe un raffreddamento da 6° a 10° gradi; ma in parte esso deve attribuirsi all’aumento di neve, che è intimamente collegato col raffreddamento, e questo poteva quindi essere assai minore39. Di più esso risponde all’apogeo dell’invasione glaciale, quando la massa invadente di ghiaccio esercitava a sua volta un’azione deprimente della temperatura: il raffreddamento iniziale, causa prima dell’invasione, doveva essere stato sensibilmente minore.

Del resto anche il nostro calcolo del bilancio del ghiacciaio ha dimostrato che un abbassamento di pochi gradi della temperatura annua, od anche solo della temperatura estiva, annullando quasi interamente l’ablazione dei ghiacciai, basterebbe a rendere grandissima l’area ablatrice s.

Non bisogna credere però che un tale mutamento nelle condizioni termiche dei continenti sia un fenomeno di poco conto. Una differenza di 4 o 5 gradi da un anno all’altro è un fatto, non ordinario, ma che può verificarsi: specialmente se ad una estate molto serena e calda succede un’estate molto piovosa, la media annuale può presentare una variazione di quest’ordine. Ma il fatto straordinario è che una tale condizione di cose siasi mantenuta per migliaia di anni, sia diventata normale. Le isoterme dell’epoca glaciale erano spostate, rispetto alle attuali, di 12 o 15 gradi di latitudine verso sud; ciò che corrisponde a portare nella valle del Po la temperatura annua di Berlino, nella Scandinavia e nel Labrador le temperature artiche; se a ciò aggiungiamo il corrispondente aumento di pioggia e nevi, comprendiamo che, se non siamo davanti a un cataclisma, lo siamo almeno a una vera trasformazione climatologica, di cui la gigantesca espansione dei ghiacciai fu un effetto adeguato.

Fin qui pare però che la conclusione a cui si è giunti con una così lunga catena di argomenti non sia essenzialmente diversa da quella di cinquant’anni fa, enunciata dal Martins: il fenomeno glaciale risponde a una diminuzione da 3° a 5° della temperatura annua normale. Cosa si è guadagnato in così lungo cammino?

7. Oltre una conferma più solida della conclusione stessa si è guadagnato anche una concezione più completa del processo climatologico pel quale una tale diminuzione di temperatura ha condotto al fenomeno glaciale. Tale diminuzione si è dimostrata intimamente connessa a una diminuzione anche della escursione annua della temperatura, specialmente sui continenti, e ad una diminuzione della differenza di temperatura, tanto estiva che invernale, ma specialmente estiva, tra continenti e oceani. Quest’ultima circostanza da sola spiega la maggiore piovosità sui continenti; epperò la maggior copia di pioggia e di nevi, alimentatrici dei ghiacciai e di tutta la esagerata idrografia postpliocenica, si è dimostrata un semplice corollario del fenomeno termico. Finalmente, ed è ciò che più importa per noi, tale concatenamento di fatti ci dimostra necessariamente che la causa prima di tutto non può essere che una diminuzione d’intensità della radiazione solare ricevuta dalla terra.

Esso dimostra infatti che i fattori meteorologici del clima sono messi in opera dalla distribuzione della temperatura, e non questa da quelli, benchè essi concorrano poi a modificarla sensibilmente. Ciò del resto risponde anche a un ragionamento di puro buon senso, perchè i fattori meteorologici non possono essere che effetto, diretto o indiretto, dei movimenti convettivi, provocati nell’atmosfera dalla ineguale distribuzione del calore40. La ragione principale di questa ineguaglianza di distribuzione è l’inclinazione dei raggi solari crescente colla latitudine e la presenza dei continenti e dei mari che si riscaldano e raffreddano diversamente: la causa principale della grandezza di questa ineguaglianza è l’intensità della radiazione solare. Il problema glaciale si riduce quindi alla seguente formola: Trovare qual’è la causa più probabile che può aver diminuita la quantità di calore solare ricevuta dalla superficie terrestre, almeno nelle latitudini più elevate, in modo da poter spiegare una più uniforme distribuzione della temperatura fra continenti e oceani, una sua minore oscillazione annua (specialmente rappresentata da una minore temperatura estiva) e, per riflesso di questa, una minore temperatura annua normale.

Tutti i tentativi fatti per mettere il problema su una strada diversa, avente cioè per punto di partenza non una variazione del calore solare ricevuto dalla superficie terrestre, ma una variazione nelle condizioni di questa superficie, o rimasero campati in aria o rientrarono nella strada maestra.

Così l’ipotesi geografica dai seguaci di Lyell, che attribuisce il raffreddamento preglaciale a una maggiore continentalità delle regioni artiche, o quella opposta dello Stoppani che l’attribuisce alla maggiore oceanicità di alcune regioni tropicali, oltrecchè sarebbero insufficienti se vere, sono smentite anche dai documenti geologici. Quella di Saint-Robert che l’attribuisce a una maggior abbondanza di vegetazione, che manteneva una grande umidità e «temperando gli ardori del sole durante la state ed opponendosi all’irradiazione durante il verno, tendeva a scemare la differenza di temperatura fra la stagione fredda e la calda e ad abbassare quindi il livello delle nevi perpetue41» è esagerata nel fondamento, perchè le regioni non coperte di vegetazione sono anche attualmente assai scarse, specie nei paesi che furono campo dell’invasione glaciale più estesa; e nelle conseguenze si connette alla teoria esposta sin qui portando al supposto di una diminuzione della radiazione solare, e giudicandone gli effetti secondo gli stessi principii della teoria di Brückner.

 

8. Accostiamoci adunque al problema come fu da noi enunciato. Una variazione della radiazione solare ricevuta dalla superficie terrestre può spiegarsi soltanto in uno di questi tre modi: 1º come effetto di una variazione nel potere radiante del sole, considerato come stella variabile; 2º come effetto di una diversa esposizione della terra al sole, prodotta da una variazione nella forma e nelle dimensioni dell’orbita terrestre, e nella inclinazione dell’asse della terra sull’orbita stessa; 3º come effetto di una variazione dell’atmosfera che diventi più o meno trasparente alle radiazioni solari che l’attraversano.

Il sig. Brückner mostra di attenersi al primo modo di soluzione, che è certamente il più semplice; e assai recentemente il sig. Eugenio Dubois in una memoria Sui climi del passato geologico da poco tradotta in inglese42 la svolge più completamente ma con criteri diversi. Egli riferisce le principali fasi dello svolgimento climatologico della terra alle fasi del sole, che da una stato originario di stella bianca, durato fino al principio dell’era terziaria, sarebbe passato, per uno stadio transitorio di rapida raffreddamento, durato per tutto il terziario fino al pleistocene, ad uno stato di stella gialla nel quale si troverebbe attualmente. Dacchè esso è entrato in questo stadio assai più freddo del precedente, furono rese possibili nella sua atmosfera molte combinazioni chimiche, non concesse dall’alta temperatura dello stadio anteriore, le quali rendono la sua radiazione assai più variabile.

Così il periodo undecennale delle macchie solari sarebbe spiegabile chimicamente, come fu sostenuto recentemente anche da altri. Il sole sarebbe quindi ora una stella variabile, e presenterebbe tratto tratto dei periodi di stella rossa, che è, secondo la classificazione delle stelle data dal Secchi, l’ultimo periodo di vita delle stelle. Ad ognuno di questi periodi rossi del sole corrisponderebbe un periodo glaciale sulla terra, mentre ai periodi gialli corrisponderebbero periodi interglaciali, in uno dei quali noi viviamo. Non seguo l’Autore nel tentativo di determinare la lunghezza dei varii periodi in base alla attuale proporzione delle stelle di varia grandezza fin qui note: esso è certamente interessante per la copia di notizie e la fertilità di induzioni messe in campo dall’Autore, ma allo stato attuale della nostra conoscenza del cielo esso parmi di un ardimento non incoraggiabile. Ma parmi che anche il fatto stesso del successivo passaggio del sole attraverso i suoi tre stadii di vita e del collegamento di questo fatto coi fenomeni climatologici terrestri, se non può essere negato a priori, non può nemmeno essere accolto come provato. Siamo davanti a un ordine di fatti inaccessibile, non a una discussione teorica, ma ad una prova positiva. Se dovremo arrivare a una tale spiegazione della storia climatologica della terra, non potremo arrivarvi che indirettamente, con una dimostrazione ad absurdum, dimostrando cioè che tutte le altre possibili ipotesi, basate su fatti provabili, su principii sicuri, sono inammissibili.

Un’obbiezione spontanea si presenta tuttavia all’ipotesi di Dubois, obbiezione che l’Autore non si nasconde e che cerca di rimovere col sussidio di ipotesi meteorologiche. Come si può spiegare la grande uniformità dei climi nelle epoche più antiche della terra, se il sole, che era allora allo stato bianco, ci mandava una radiazione tanto più intensa dell’attuale? Poniamo che K sia la quantità di calore ricevuta in un anno all’equatore, per unità di superficie; a una latitudine qualsiasi la quantità ricevuta sarà una frazione mK di quella, dove m dipende dalla inclinazione media dei raggi solari sulla superficie e dalla trasparenza dell’atmosfera, che i raggi solari debbono attraversare per un tratto tanto maggiore quanto maggiore è la latitudine. La differenza fra le due quantità, che è la causa prima (ma non sola) della differenza di temperatura fra quelle due latitudini, è quindi K(1-m). Se K cresce, ed m non varia, anche questa differenza cresce: cioè ad ogni variazione della intensità radiante del sole deve corrispondere, cæteris paribus; una variazione nello stesso senso della differenza di temperatura fra l’equatore ed un parallelo qualsiasi. Se quindi nelle êre preterziarie il sole irradiava coll’intensità di stella bianca, in quelle êre doveva essere anche più rapida la caduta di temperatura dall’equatore ai poli, e se questi fruivano, com’è indiscutibile, di un grado di temperatura assai maggiore dell’attuale, l’equatore doveva essere a un grado di calore incompatibile con qualunque sviluppo della vita organica continentale. Il sig. Dubois si difende da questa obbiezione con due argomenti: 1º La maggiore energia solare manteneva una più intensa circolazione oceanica ed aerea che portava una maggior somma di calore alle latitudini superiori. 2º L’atmosfera era meno trasparente, sia perchè il sole bianco emetteva un maggior numero di raggi dell’estremità violetta dello spettro, pei quali l’aria è assai meno permeabile, sia perchè era assai maggiore la copia di vapori e di nubi, che arrestavano l’irradiazione del sole nelle alte latitudini. Abbiamo già accennato precedentemente alla fallacia del primo argomento: l’energia solare non può provocare movimenti convettivi nell’atmosfera e nell’oceano, se prima non provoca un dislivello di temperatura, e non può, aumentando essa, rendere più intensi i movimenti stessi, se prima non aumenta questo dislivello di temperatura. Supporre quindi una distribuzione uniforme prodotta da movimenti convettivi molto intensi è una contraddizione in terminis.

Il sig. Brückner (Klimaschwankungen, pag. 315) viene logicamente a conclusioni opposte a quelle del sig. Dubois volendo spiegare come una diminuzione della costante solare possa aver condotto all’invasione glaciale. Secondo lui essa «diminuirebbe la differenza di temperatura fra il polo e l’equatore e quindi la circolazione generale dell’atmosfera, che si rifletterebbe in una diminuzione delle correnti oceaniche, che, alla superficie dei mari hanno notoriamente una prevalenza di direzione verso Nord. Il raffreddamento, incominciando all’equatore, si sarebbe quindi esteso man mano alle latitudini più alte». Ma col suo ragionamento si verrebbe a conchiudere che nelle epoche preglaciali, quando la radiazione solare era più forte, si doveva avere una distribuzione di temperatura dai poli all’equatore meno uniforme che nella glaciale, conclusione la quale sarà difficilmente accolta dai geologi.

Anche l’altro argomento del sig. Dubois merita discussione, ma poichè esso tocca la questione più generale della trasparenza atmosferica, ne parleremo a suo luogo.

9. Tra le ipotesi astronomiche ideate a spiegazione del fenomeno glaciale, una sola ha tenuto per lungo tempo vittoriosamente il campo, e, benchè ormai battuta da tutte le parti, è difesa ostinatamente dai suoi tenaci e valenti difensori: è l’ipotesi di Croll, basata sul fatto indiscutibile delle variazioni d’eccentricità dell’orbita terrestre, combinato coll’altro fatto non meno indiscutibile della precessione degli equinozi. Eccola in breve secondo l’esposizione più rigorosa fattane recentemente dall’astronomo Ball43.

Chiamando 100 la quantità di calore che ogni emisfero della terra riceve in un anno, di queste 100 unità esso ne riceve 63 nella stagione estiva, e 37 nella stagione invernale. Ma per effetto dell’eccentricità dell’orbita terrestre queste stagioni non hanno una eguale durata: l’emisfero boreale, che ha il solstizio invernale presso a poco nel punto dell’orbita più vicino al sole (perielio) e l’estivo nel più remoto (afelio), ha 186 giorni estivi contro 179 invernali: per l’emisfero australe si verifica naturalmente l’opposto. Così l’emisfero boreale riceve 63 unità di calore in 186 giorni, e 37 in 179, mentre l’australe ne riceve 63 in 179 e 37 in 186; e quindi la media giornata estiva è pel primo meno calda che pel secondo, mentre la media giornata invernale è più calda.

Questa differenza fra i due emisferi ora non è rilevabile (benchè non ne manchi qualche indizio), perchè la prevalenza degli oceani nell’emisfero australe esercita tale effetto moderatore delle variazioni termiche, che un così piccolo incremento dell’escursione annua vi si smarrisce; ma certamente quando per lo spostamento degli equinozii l’emisfero boreale si troverà di qui a circa tredici mila anni ad avere l’inverno in afelio e l’estate in perielio, se sarà mantenuta l’attuale distribuzione dei continenti, la differenza potrà essere abbastanza rilevante, essendo la temperatura media invernale di qualche grado inferiore all’attuale e l’estiva di altrettanto superiore. E quando l’eccentricità dell’orbita terrestre era tre volte l’attuale, come lo era circa 100,000 anni sono, la differenza doveva essere altrettante volte maggiore, ossia l’inverno doveva essere di 4 o 5 o più gradi più freddo dell’attuale e l’estate di altrettanto più caldo. Questo nell’ipotesi che gli elementi meteorologici non compensino in parte la differenza, come certamente la compenserebbero, perchè è ufficio principale dei movimenti convettivi dell’atmosfera e dell’oceano di attutire le differenze e le variazioni di temperatura.

La possibilità di produrre un mutamento climatologico colla variazione dell’eccentricità orbitale della terra, combinata colla inversione degli aspidi, parmi adunque innegabile. Il Croll e i suoi numerosi seguaci ne esagerarono invero la portata con un ragionamento che il nostro Schiaparelli dimostrò fin dal 1868 fallace44 e che, nonostante tale dimostrazione (rimasta a dir vero affatto ignorata in Inghilterra, come quasi tutte le cose italiane), e la confutazione fattane nel 1886 dal Woeikof45, trova ancora buon accoglimento in opere di autori sommi come il Ball, il Wallace e il Geikie. Il ragionamento è in breve il seguente.

Nel lungo inverno boreale in afelio corrispondente a un periodo di grande eccentricità la distanza della terra dal sole era sensibilmente maggiore di quel che lo è ora coll’inverno in perielio, e quindi la radiazione solare era, secondo la legge dell’inversa dei quadrati delle distanze, ancor più sensibilmente minore. Croll calcola che nel giorno centrale dell’inverno la diminuzione doveva essere nientemeno che del 16% minore della radiazione attuale. Ora la radiazione solare serve a mantenere la terra a una temperatura assai maggiore di quella dello spazio vuoto dove la terra si move. Croll ammette senz’altro che questa temperatura dello spazio sia stata misurata esattamente da Pouillet, Herschel ed altri in circa -150° C; l’aumento di temperatura prodotto dalla radiazione solare in un punto qualsiasi della terra, p. es. in Inghilterra, dove la temperatura media è di circa 5° C, è di 155° C´. Alla variazione di 16/100 della causa deve corrispondere una variazione proporzionale nell’effetto: l’Inghilterra doveva avere quindi la minima temperatura invernale nientemeno che di 25° C. inferiore all’attuale. E l’inverno di tanto più freddo durava molti giorni più dell’attuale, cioè 199 giorni invece di 179.

38Richter: Die Gletscher der Ostalpen. Stuttgart 1888.
39Alle oscillazioni attuali della temperatura, che non toccano 1° C. di deviazione sopra e sotto la media, corrispondono variazioni rilevantissime della piovosità: in Europa l’oscillazione della piovosità rappresenta il 16% del suo valore medio annuale, in Asia il 30%. A una variazione termica di 3° a 5° C. deve quindi aver corrisposto un aumento assai più rilevante della piovosità sui continenti, raddoppiarla forse o triplicarla, dando così la ragione di molti di quei potenti fenomeni diluviali, precedenti o concomitanti al fenomeno glaciale, di cui fanno testimonio i potenti e tumultuarii depositi postpliocenici.
40Questo argomento è troppo spesso dimenticato. Si attribuisce principalmente alle correnti marine ed aeree la distribuzione attuale e passata delle temperature; è comune argomento che la grande uniformità della temperatura nelle epoche terziarie e precedenti fosse dovuta principalmente ad una più intensa circolazione dei mari e dell’aria. Ma da che era mantenuta tale circolazione se la temperatura era distribuita in modo uniforme?
41Vedi “Transunti dell’Accad. dei Lincei„ Serie III, t. 8º; 1894, p. 61.
42The Climates of the geological Past (London, Swan Sonnenschein et C., 1895). Questo libro sarà letto con grande utilità da chi desidera una esposizione breve e completa dello stato attuale del problema sui climi geologici. Anche nella parte induttiva i principii meteorologici sono applicati con grande abilità, come lo prova l’assenso avutone da un climatologista dell’autorità del sig. Woelkof (Petermann’s Mittheilungen, novembre 1895). Ma io credo che la base della sua ipotesi sia fantastica, e che l’applicazione degli argomenti meteorologici non sia legittima.
43The Cause of an Ice Age, London 1891.
44“Rendiconti del Regio Istituto Lombardo di Scienze e Lettere„, Serie II, vol. I, parte 2ª. Milano 1868.
45“American Journal of Science„. New Haven, 1886.